124186.fb2 La carezza della paura - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 11

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10

Erano tutti della stessa razza.

Aspettò che fossero passate le undici, per essere sicuro che le assi dell’ingresso non lo tradissero. Poi indossò i suoi jeans neri e scese lentamente le scale, prese una torcia dall’armadio a muro e uscì dalla porta sul retro.

Sulla notte era sceso il freddo invernale e il fiato usciva grigiastro dalle sue labbra, per poi spandersi davanti agli occhi. Rimase con la mano sulla maniglia di metallo fino a quando riuscì a mettere a fuoco nell’oscurità, poi si mosse guardingo verso il centro del cortile, con il fascio di luce bianca che rischiarava l’erba. Si mise a cercare eventuali avvallamenti, terra smossa, qualcosa perso da chiunque fosse stato lì prima, da chiunque lo avesse osservato attraverso la finestra. Fece per due volte il giro del cortile, ma non trovò niente, poi ripeté la stessa operazione altre due volte, prima di decidersi a provare sul davanti, dove la luce della luna e dei lampioni lo avrebbero aiutato.

Ritornare in casa era assolutamente impensabile.

Voleva disperatamente convincere se stesso che non stava diventando pazzo. Voleva trovare una prova tangibile che dimostrasse l’esistenza di un ladruncolo — forse si trattava di Brian e Tar che gli giocavano un altro scherzo per far ricadere la colpa su di lui — qualcosa da mostrare ai suoi genitori per provare che non era impazzito, neanche qualora avesse raccontato loro del poster. Perché avrebbe dovuto farlo. Se non lo avesse fatto, e in fretta per giunta, uno di loro se ne sarebbe accorto e avrebbe pensato che lui aveva fatto qualcosa, e sarebbe stato troppo tardi per protestare.

La strada era deserta e tranquilla; mentre guardava, parecchie luci lungo la strada furono spente e le case piombarono nell’oscurità.

Erano tutti della stessa razza.

Tirò su la cerniera della giacca e si sedette sotto il portico, con la torcia sul gradino più in basso. L’umidità si infiltrava attraverso i jeans fino al sedere; si mosse un poco, poi si alzò e si incamminò lungo il marciapiede.

È da pazzi, pensò, e fece una smorfia a quella parola. Certo che lo è, stupido, perché tu sei pazzo. Il poster, l’ombra, e l’idea che lui fosse legato a un barbone assassino. Tre strikes. Terzo fuori. Il buonsenso se ne va e la partita è finita.

A meno che non fosse vero.

A meno che lui e lo Squartatore non fossero più vicini di quanto lui stesso potesse immaginare, e che, in qualche modo, il suo subconscio non si fosse sintonizzato con questa idea. In tal caso, però, doveva trovare quell’uomo, scoprire dove si nascondeva durante la notte e chiamare la polizia. Diventare un eroe, esattamente come aveva previsto, e poi sfidare suo padre a castigarlo di nuovo, a dubitare di lui e a guardarlo con quei suoi occhi pietosi. Sfidarlo a gridare perché era uscito di casa senza permesso.

Pazzo.

Si affrettò verso il parco.

Pazzo.

Fece scivolare le mani nelle tasche dei pantaloni, tenendo fuori i pollici, e cercò di non pestare troppo con i talloni. Doveva apparire naturale, era uscito solo per una passeggiatina notturna; questo nel caso venisse fermato da una macchina di pattuglia alla quale avrebbe dovuto spiegare che cosa stava facendo per la strada a quell’ora, con un pazzo in libertà. Non glielo avrebbe certo potuto dire. Non avrebbe potuto dire che conosceva lo Squartatore, perché non gli avrebbero creduto. Doveva trovarlo e scoprire dove si nascondeva, e solo allora avrebbe potuto chiamare i rinforzi.

Quasi all’angolo, una macchina sterzò fin sul marciapiede e la porta del passeggero si aprì. Rallentò e guardò all’interno: trattenne il fiato quando vide Tar.

«Ehi, Paperino, la tua mammina sa che sei fuori?»

«Piantala», disse in tono cupo.

«Oh, povero Paperino. Ehi, Brian, Paperino ha detto di piantarla.»

Pratt si sporse dal finestrino e fece una smorfia. «Okay, signor Paperino. Ai tuoi ordini.»

Don lo guardò con aria minacciosa e continuò a camminare, mentre la macchina lo seguiva lentamente.

«Ehi, Boyd», bisbigliò Tar, «sono contento di vedere che hai ritrovato la tua giacca. Sembra nuova. Come hai fatto a togliere la merda?»

Don si fermò e si girò, ma Brian partì, mentre la sua risata e quella di Tar riempivano la notte.

Avrebbe voluto dargli un pugno, ma non sarebbe servito a niente e si sarebbe soltanto trovato in mezzo a una rissa. Ma erano stati loro, e lui sospirò, perché suo padre non ci avrebbe mai creduto.

All’angolo si fermò di nuovo, aspettando nell’oscurità che passasse un autobus, e nel frattempo considerò la possibilità di tornare indietro, a casa di Tracey. L’avrebbe trovata già a letto, ma un sassolino scagliato contro la finestra forse l’avrebbe fatta uscire prima che si svegliasse suo padre. Le avrebbe parlato. Glielo avrebbe detto. Avrebbe…

«Merda», mormorò, e attraversò di corsa la strada, raggiungendo il muro del parco a tutta velocità e scavalcandolo senza un attimo di esitazione.

Passò un minuto, poi altri cinque, prima che si rialzasse e si incamminasse lungo il vialetto centrale. Il parco era tutto per lui, sapeva benissimo che non c’era assolutamente nessuno nelle vicinanze, nessuno che lo potesse udire, o che gli potesse chiedere qualcosa, o che lo riportasse a casa.

Era solo.

Ma mentre si avvicinava al laghetto circondato dalla luce, si rese conto che non era così.

C’era qualcosa lì attorno, nell’oscurità.

Qualcosa di familiare.

Rallentò il passo; si fermò; si spostò di lato poco prima che terminassero gli alberi, e guardò fisso verso la luce.

Laggiù, pensò, allungando il collo. Era laggiù, sull’altro lato, immobile, si limitava a guardare; quando allungò il braccio dietro di sé, si rese conto, bestemmiando in silenzio, che aveva dimenticato la torcia — non aveva niente che potesse essere utilizzato come arma.

Brian e Tar; dovevano essere loro, ritornati per assicurarsi che avesse capito la lezione. Per spaventarlo. E quando fosse arrivata la polizia, li avrebbe trovati profondamente addormentati nel loro letto, e lui avrebbe dovuto spiegare che cosa stava facendo nel parco.

Fece qualche passo indietro.

Con una mano si strofinò la bocca.

Pazzo; ammesso che non fosse pazzo prima, ora lo era sicuramente per il solo fatto di pensare una cosa del genere. Il poster aveva sicuramente una spiegazione, e le ombre erano dovute ai suoi nervi, a causa di Pratt e del suo odio, ma questa era pura follia.

Cercò freneticamente un arbusto e trovò un ramo secco lungo poco più di un metro. Lo afferrò, lo batté contro il palmo della mano, pregando il cielo di non essere costretto a usarlo, anche se non sapeva bene contro chi o che cosa avrebbe potuto farlo.

Poi una voce dietro di lui disse: «Ragazzino fottuto» e una mano gli afferrò la gola.

Don urlò senza emettere alcun suono, mentre la sua mano si contorceva e il bastone gli cadeva, prima ancora di riuscire a fare un qualsiasi movimento, un braccio lo afferrò immobilizzandolo. Brian, urlò in silenzio; Tar, per l’amor del cielo, mettete giù le mani! Ma la sua testa fu spinta all’indietro e quando alzò lo sguardo vide la manica di tweed, il sangue secco, e capì.

Il panico si impossessò di lui e lo svuotò completamente. Ma non sarebbe morto. Amanda era morta e Sam era morto, ma lui non sarebbe morto perché non era uno qualsiasi, non era soltanto un nome riportato dai giornali; era Don Boyd, e Don Boyd non sarebbe morto. Non ancora. Cristo, non ancora.

Lo Squartatore era troppo forte per poter lottare, e lui non aveva altra scelta che lasciarsi trascinare lungo il bordo del laghetto, con il collo sul punto di rompersi, il respiro difficoltoso e la parte posteriore della testa riscaldata dall’alito del mostro.

«Ragazzino fottuto», disse Tanker Falwick. «Di sicuro sei uno di quei fottuti ragazzini.»

Don fece oscillare una gamba e picchiò il tallone contro il cemento. L’uomo imprecò e Don piagnucolò per il dolore che gli attraversò la spina dorsale, ma almeno il cammino verso l’oscurità fu momentaneamente sospeso.

Falwick bisbigliò: «Vuoi fare il bagno? Come quella puttana? Vuoi fare il bagno, moccioso?»

Gli arrivò un calcio nel polpaccio, Don cadde e le dita lasciarono andare la gola, per afferrare una ciocca di capelli. Gli occhi iniziarono a lacrimare: l’uomo gli afferrò il braccio sinistro per il polso e glielo piegò dietro la schiena.

«Ascoltami, moccioso!» gli mormorò affannosamente nell’orecchio. «Piantala di rompere le balle e guarda! Vedi quella merda là in fondo? È sangue, vecchio mio. Sangue. Di quella puttana. Stupendo, vero? Ci devono essere almeno quattro litri di sangue laggiù, almeno quattro fottuti litri. E sai una cosa, moccioso? Possono anche andare avanti per cent’anni, ma non riusciranno mai a togliere da lì il sangue di quella puttana.» Una risata stridula, e la faccia di Don venne premuta con maggior forza contro la terra. «Hai fame, ragazzo? Vuoi leccare, moccioso? Vuoi…»

«Ti prego», provò a dire Don.

«Oddio, sentitelo!»

Ingoiò muco e acido e cacciò via le lacrime, domandandosi perché mai non aveva il fisico di Fleet o di Tar: avrebbe potuto divincolarsi dalla stretta dell’uomo, girarsi e ridurlo a pezzi sanguinanti proprio dove era morta Amanda.

Tanker gli premette la testa ancora più verso la terra, e quando il naso toccò il cemento, lui chiuse gli occhi con forza.

«Ti prego», disse, non più implorandolo, ma quasi ordinandoglielo.

«Ehi, fottuto ragazzino, il vecchio sergente ti sta facendo diventare matto? Ti sto facendo diventare matto, moccioso?»

Era proprio così. Non riusciva a capirlo, ma era proprio così. Era terrorizzato da quello che stava per accadere e arrabbiato per quella sua impotenza; non voleva morire, ma non c’era assolutamente nulla che potesse fare, niente di niente, come sempre.

«Io … Io non dirò niente, te lo giuro, non dirò niente.»

«Ah, il moccioso mi sta implorando. E non è bello. Sai una cosa, moccioso? Lo fanno sempre tutti. Alla fine mi implorano tutti. Sono convinti che io sia una merda, ma alla fine implorano tutti.»

Questa non è la fine, pensò, contorcendo il corpo all’improvviso, nel tentativo di liberarsi dalla presa. Ma la testa urlò quando lui gli tirò i capelli, e la coscia sembrò scoppiare quando lui la schiacciò sotto il tacco, e la giacca e la camicia che l’uomo aveva afferrato gli si stringevano attorno al petto, stritolandogli i polmoni.

«Quelle piccole puttanelle mi implorano sempre, ma non serve a niente. Di’ ciao, moccioso, miserabile pezzo di merda bianco.»

Don ebbe un conato di vomito mentre la testa gli veniva spinta all’indietro: spalancò gli occhi e guardò fisso, poi mosse rapidamente la mano destra e colpì il bicipite di Falwick con il gomito. L’uomo grugnì per la sorpresa e lasciò la ciocca di capelli; Don lo colpì di nuovo, rapidamente, sforbiciando con le gambe fino a ritrovarsi disteso sulla schiena, con il braccio sinistro ancora sotto il corpo dell’uomo, ma riuscendo nello stesso tempo a immobilizzare Falwick.

E vide la faccia dell’uomo.

La stessa faccia dai lineamenti duri, lo stesso uomo spregevole che aveva visto sotto la gradinata.

Falwick gli sputò addosso, colpendolo al lato della testa con un pugno, poi si alzò in piedi, tirandoselo appresso, lasciando andare il braccio piegato e facendolo girare. Rideva. Tossiva. Gli fece fare quattro giri e poi lo lasciò andare con uno squittio; Don arrivò come una trottola fino al laghetto e cadde seduto nell’acqua.

Un errore! pensò con esultanza. Potrei sfuggirgli.

Ma per prima cosa doveva trarlo in inganno, oppure distrarlo; l’uomo con la giacca di tweed se ne stava in piedi sul bordo e lo osservava con soddisfazione, leccandosi le labbra e strofinandosi leggermente il braccio.

«Hai intenzione di scappare?» chiese Falwick con un sogghigno. «Hai intenzione di provarci, ragazzo? Bene, se è così, è meglio che ti alzi, altrimenti ti faccio a pezzi dove sei adesso.»

Non era vero.

Stava succedendo a qualcun altro, era un sogno.

Era come … e Don vide se stesso sullo schermo del cinema: si alzava dall’acqua gelida con aria vendicativa e si lanciava in direzione dell’uomo, assestandogli un calcio in pieno petto con una mossa velocissima. Si udiva il rumore di ossa rotte. Il sangue colava dalle labbra incrostate dell’uomo. Un altro calcio nello stomaco, e poi un pugno letale al mento: lo Squartatore cadeva indietro, nel lago, rigido e privo di sensi.

Questo sullo schermo.

«Dannato moccioso», disse lo Squartatore con disgusto. «Voi piccoli, fottuti mocciosi, siete tutti uguali. Siete tutti dannatamente uguali. Non avete fegato. Siete solo dei fottuti ragazzini e non meritate di vivere.»

Don cercò di allungarsi fino a quando sentì la rete di protezione dietro la schiena.

«Bene», esclamò Falwick annuendo. «Molto bene. Stai cercando di partire in vantaggio.»

Il clacson di una macchina risuonò con insistenza lungo la strada. Lo stridore dei freni impazziti, poi il rumore del metallo che cozza contro altro metallo.

«Bene, merda», disse Falwick.

Don guardò dietro le spalle, non osando credere a quello che aveva udito. Un incidente. La polizia. Si alzò incespicando, mise le mani attorno alla bocca e gridò. Si afferrò alla rete di protezione e iniziò a correre. Falwick era di fronte a lui, con le braccia aperte e le dita che si agitavano.

Don fece una finta a sinistra, poi a destra, ma lo Squartatore rimase fermo davanti a lui, con le braccia ora alzate, ora abbassate, mettendo in mostra quelle orribili unghie che erano tanto lunghe da sembrare artigli.

Un grido, poi una mossa rapida: stava correndo lungo il sentiero, verso il campo da baseball, con la testa alta e le braccia in movimento, cercando di ignorare il dolore lancinante al collo e alla coscia, cercando di non ascoltare quell’uomo che lo stava inseguendo sempre più da vicino, quell’uomo che ansimava ridacchiando alle sue spalle, ringhiando come un cane liberato da un guinzaglio.

Fuori dagli alberi e attraverso i prati, verso l’uscita nord. Là c’erano delle case. Avrebbe gridato. Avrebbe potuto rompere un vetro. Qualcuno sarebbe venuto a vedere che cosa era successo e avrebbero chiamato la polizia. Poteva ancora essere un eroe; poteva ancora tornare a casa, e vivo; oh, Gesù, ti prego, non farmi morire, non voglio morire come Amanda.

Lo Squartatore gli era al fianco, seguiva facilmente la sua andatura e sogghignava. «Ehi, moccioso, tutto qui, quello che sai fare?»

Il ragazzo inciampò, l’uomo lanciò un urlo e gli assestò un pugno violento nello stomaco. Cadde in avanti, sentendo il fuoco attorno alla testa; si trascinò sulle mani e sulle ginocchia fino a quando i gomiti cedettero e cadde pesantemente a terra. Ansimava. Piangeva. Infuriato con se stesso per essere stato così idiota, infuriato con lo Squartatore che non lo voleva lasciar vivere, infuriato con quel fottuto mondo per tutte le sue dannatissime regole!

Si irrigidì, in attesa del colpo.

Alzò lo sguardo, aveva le guance coperte di erba e di fango, e vide lo Squartatore in piedi sopra di lui, con le mani sui fianchi.

«Fatto, moccioso?»

Si piegò, storse le labbra, e sentì la sua bocca aprirsi lentamente.

«Piccolo bastardo.»

Lo Squartatore guardò il cielo, la luna, poi alzò la testa come se stesse ascoltando delle istruzioni provenienti dalla notte. Quindi si abbassò per afferrargli la giacca e Don sgusciò via, agitandosi fino a quando si ritrovò a camminare all’indietro sul sedere.

«Cristo», bofonchiò lo Squartatore, avvicinandosi di nuovo e rimanendo immobile.

Gli occhi del ragazzo erano spalancati per il terrore, ma non stavano guardando l’uomo.

Falwick sbuffò, si avvicinò e rimase immobile quando lo udì dietro di sé.

Ferro contro ferro. Sordo. Lento.

«Cosa cazzo è?»

Don sentì che le labbra iniziavano a tremargli, avvertì il freddo che dalla terra risaliva lungo i suoi vestiti e gli entrava nelle ossa, ma non riuscì a scappare dall’uomo che nel frattempo si era girato, né riuscì a vedere qualcosa che potesse dimostrargli che non era pazzo del tutto.

Ferro contro ferro.

Pietre su un tronco cavo.

Legno contro legno.

Gli zoccoli di un cavallo nero che galoppava leggero sul terreno.

Falwick scosse la testa, si sfregò gli occhi, scosse di nuovo la testa e alzò le mani. «Che cosa diavolo è?»

Lo stallone era sul lato opposto del campo, più ombra che materia, con i fianchi neri scintillanti, la criniera immobile nonostante il vento che soffiava sotto la luce della luna. Si muoveva senza muovere la testa, scintillante lungo il tracciato del campo, attraverso il monte del lanciatore, sull’erba. E poi si fermò.

Falwick cercò di guardare più in là, per vedere dov’era il padrone e sapere se avrebbe dovuto uccidere di nuovo quella notte; Don si trasse indietro: non osava sperare che fosse vero.

«Va’ a farti fottere!» disse allora Falwick, girandosi verso la sua preda con una smorfia.

Il cavallo sbuffò e scalpitò.

Falwick si guardò alle spalle e Don vide il sangue colare da quel viso sporco.

Il cavallo riprese a muoversi, più lentamente; era grande una volta e mezzo qualsiasi cavallo Don avesse mai visto. I muscoli guizzavano e si flettevano come onde nere sopra una distesa di acqua nera; la coda era arcuata e nervosa, il ciuffo spuntava nero fra le orecchie che si tendevano piatte ai lati della testa imponente; e gli occhi erano grandi e obliqui, di un verde scuro brillante.

«Tu?» mormorò il ragazzo.

L’animale si fermò e lo guardò, e lui vide con la coda dell’occhio che lo Squartatore indietreggiava.

«Tu?»

Il cavallo aspettava.

Don guardò Tanker Falwick, chiuse gli occhi e vide Amanda.

Potrei essere un eroe, pensò, ma chi mi crederebbe?

Chiuse gli occhi con più forza e vide la sua stanza vuota, udì sua madre che chiamava Sam, udì suo padre che gli dava del bugiardo. Gli insegnanti lo punivano. Tracey non chiamava più. Brian e Tar e Fleet e tutti gli altri. Dietro le palpebre, i colori dell’arcobaleno pungevano come aghi spuntati; sembrava che il suo occhio nero sanguinasse dagli angoli; poi vide se stesso sull’erba del parco, con gli occhi aperti e ciechi, la gola lacerata e sanguinante.

Il cavallo aspettava.

Riaprì gli occhi, il bruciore se ne andò, le immagini se ne andarono, ma l’animale era sempre lì.

Sono pazzo, pensò; e all’improvviso qualcosa nel petto iniziò ad allargarsi, a esplodere … e non sentì assolutamente nulla.

«Sì», disse con tono risoluto. «Sì. Fallo.»

L’animale attese ancora un attimo, poi si diresse verso lo Squartatore, con lo sguardo fisso sul petto dell’uomo, le zampe sempre più in alto, e sempre più pesanti nel ricadere. Gli zoccoli facevano sprizzare scintille verdi dalla terra.

Quando arrivò a circa dieci metri, Falwick gemette per il terrore e si girò di scatto verso sinistra, fuggendo fra gli alberi; lo stallone si alzò contro la luna, con le zampe anteriori furibonde, la criniera gonfia e il vapore che usciva come fumo nero dalle narici.

Poi si abbatté.

La terra era silenziosa, a eccezione del rumore delle scarpe dello Squartatore: silenziosa, a eccezione delle scintille che si sprigionavano nell’oscurità, scintille verdi che lasciavano la scia e morivano prima di toccare il suolo.

Don rotolò sulle ginocchia, stringendo inconsciamente con la mano destra il ramo che aveva lasciato cadere prima, e osservò lo Squartatore che correva a sinistra, svoltava a destra e poi girava in tondo proprio mentre il cavallo lo raggiungeva e si impennava.

Don gridò.

Falwick urlò.

E lo stallone si abbatté su di lui, e le scintille si trasformarono in un fuoco verde.