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Il giorno dopo non fu poi così male come si era immaginato. Le lezioni erano state accorciate di venti minuti, per cui si rivelarono inutili e qualcuna venne saltata completamente. Don trascorse la maggior parte del tempo alla ricerca di Tracey, ma l’unica volta che riuscì a vederla lei era con un gruppo di amiche e indossava a disagio l’uniforme rossa e nera della banda. Gli mandò un messaggio da lontano, ma lui le fece segno di non aver capito e se ne andò prima che suonasse l’ultima campana.
Brian se ne stette alla larga ed entrò addirittura in una classe sbagliata con il solo scopo di evitarlo. Don lo vide e sorrise, pensando che, dopotutto, quella medaglia che gli avevano dato poteva fruttargli qualche cosa di buono.
Ma la sala di lettura aveva un che di strano. Andò a sedersi al suo solito posto e aprì il testo di zoologia, cercando di scoprire che cosa potesse avere in comune con il mondo reale il suo stallone. Cinque minuti dopo si sentì osservato. Ormai ci aveva fatto l’abitudine — gli studenti della sala di lettura lo osservavano di sottecchi, qualcuno lo fissava apertamente, altri in modo più timido, come se volessero saltargli addosso per tastargli i muscoli, per strappargli la camicia, qualsiasi cosa per scoprire il segreto di quella forza che gli aveva permesso di distruggere lo Squartatore.
Ma quello sguardo era diverso. Dai ragazzi traspariva un senso di invidia, di incredulità e una certa dose di rispetto, mai accordatogli fino allora; ma quello era uno sguardo impossibile da identificare.
Alzò gli occhi e si guardò attorno. Gli altri stavano leggendo o parlavano sommessamente con i vicini. Non c’era nessuno della squadra di football; erano già tutti in palestra a prepararsi per la partita.
Era il signor Hedley. Era seduto dietro la scrivania con il viso appoggiato a una mano e lo stava fissando. Senza imbarazzo. Senza nascondersi.
Don abbassò immediatamente lo sguardo e girò pagina, poi un’altra e gli lanciò un’occhiata senza alzare la testa.
Hedley lo stava guardando ancora e improvvisamente Don si sentì intrappolato in una delle provette che il professore usava per i suoi esperimenti, come se dovesse fluttuare per sempre in qualche soluzione chimica, per essere studiato attentamente prima di essere scaricato in qualche lavandino.
Deglutì, tornò indietro di qualche pagina, e poi ancora avanti, sforzandosi di leggere qualche paragrafo a caso, senza capirne il significato, senza registrate le illustrazioni. E quando alzò lo sguardo per la terza volta e si accorse che l’uomo lo stava ancora osservando, sentì le spalle irrigidirsi e improvvisamente ebbe difficoltà di respiro.
Lui sa, pensò Don, allontanando immediatamente quell’idea.
No. Nessuno lo sa. Non può sapere.
Si agitò sulla sedia e si girò verso le vetrate da cui si vedevano le nuvole ammassate all’orizzonte, che apparivano più scure e più alte in contrasto con l’intenso chiarore del cielo non ancora toccato dal temporale imminente. I tetti delle case vicine allo stadio sembravano più aguzzi e meno squallidi, il campo da football più brillante, tutti i colori più vivi e vibranti. Era strana, quella luce, come se fosse artificiale. Don osservò il muro di cinta dello stadio e la casa retrostante e pensò che tutto sembrava essere stato tagliato nella pietra e rifinito con un diamante. Era contemporaneamente meraviglioso e irreale, quasi terrorizzante.
La voce di Hedley suonò tranquilla. «Signor Boyd, non ha niente da fare?» Nessuno rise.
Don spostò leggermente il libro e abbassò lo sguardo.
«Non si dovrebbe mai perdere tempo, signor Boyd, nemmeno quei pochi minuti che abbiamo a disposizione qui dentro. In alcuni paesi, molto tempo fa, sarebbe stata un’offesa criminale. Anche far perdere tempo agli altri è un’offesa criminale.»
Don non capì, ma era chiaro che l’uomo stava cercando di lanciargli un messaggio.
Lui sa.
non può sapere
E suonò la campanella.
Don uscì con gli altri, sentendo lo sguardo di Hedley che lo seguiva fino alla porta. Avrebbe voluto voltarsi per domandargliene la ragione, ma non ne ebbe il coraggio. Qualsiasi fosse il problema di quell’uomo, non poteva avere niente a che fare con quanto era successo.
Forse era ancora arrabbiato perché pensava che fosse stato Don a rovinargli la casa.
Si precipitò per le scale e si diresse verso la palestra. Stava per aprire la porta quando qualcuno gli afferrò il braccio e lo trascinò via dalla folla verso il pianerottolo.
«Ehi, che cosa…»
Era Chris. Indossava l’uniforme da cheerleader, con la gonnellina corta che metteva in mostra le cosce e il maglione bianco con il nome della scuola che disegnava il suo seno.
«Ehi», fece lei con calma, tenendo d’occhio gli studenti che passavano.
«Ehi», rispose lui e aspettò.
Lei sorrise in modo così meraviglioso che lui dovette sorridere suo malgrado, resistendo all’impulso di sfiorarle una guancia con la mano.
«Hai visto Tar?»
Don scosse la testa.
«Quello stronzo non si è ancora fatto vedere, ma ci pensi?» Si toccò il fermacapelli, sistemandolo con una smorfia. «Scommetto che vuole fare l’entrata trionfale.»
«Non saprei», disse Don. «Non è da lui.»
Lei si strinse nelle spalle; non le importava niente se non era da lui. «È davvero stupido. Se ha di queste intenzioni, Brian gli staccherà la testa.» Emise una risatina appena percettibile e poi gli si avvicinò. «Ti senti bene? Sai, avevo intenzione di telefonarti o anche di venire a trovarti, ma ho pensato … capisci.»
«Sto bene, sì. Grazie per l’interessamento.»
«Be’, ascolta, devo correre in biblioteca prima che il Drago mi rimproveri di essere andata in ritardo a sistemare i suoi libri preziosi, ma ascolta…» Lo guardò attentamente, lo afferrò per il braccio e lo trascinò contro la parete, poi gli disse, dando le spalle alle scale: «Bene, ascolta, hai intenzione di andare alla partita?»
«Certo, credo proprio di sì.»
Riuscì a vedere qualche faccia che passava accanto a loro — nessuno di loro era Brian.
«E dopo che cosa fai?»
Tracey, pensò. «Non lo so. Andrò da Beacher, credo. Non ci avevo ancora pensato. Credo che dipenda se vinciamo o meno.»
Prima che lui potesse fermarla, Chris gli prese la mano e se la portò al seno, lo fece tastare e poi lo lasciò con un sorriso.
«Dopo», sussurrò. «Sia che vinciamo o meno.» E sparì.
Don sentì il viso in fiamme, le mani gli bruciavano, ma non osò sfregarsele per paura di perdere la sensazione che perdurava sui palmi. Si domandò se li avesse visti qualcuno; era successo tutto così alla svelta che non era nemmeno più sicuro della realtà dell’accaduto. Oltrepassò la porta tenendo gli occhi bassi e, dal momento che nessuno disse niente, decise di mettersi a correre in direzione della palestra.
Gli alunni erano seduti vicino alle pareti degli attrezzi. Gli insegnanti, al centro del campo di pallacanestro, con i registri in mano, controllavano la palestra e di tanto in tanto chiamavano qualche nome cui faceva eco in risposta un «Sì» o un «Presente». Don rimase in piedi vicino alle doppie porte, senza sapere dove andare, finché qualcuno lo localizzò e fece il suo nome. Rispose con un cenno della mano e si accucciò per terra, cercando di non fare caso al silenzio che era calato sulla palestra e agli sguardi che lo esaminavano. Si mise a scrutare il pavimento pulito sotto i suoi piedi e non staccò gli occhi da terra, finché nella sua visuale non comparve un paio di scarpe nere.
Alzò gli occhi; era Brian Pratt, con i pantaloni da football e le imbottiture alle spalle. Pratt si accovacciò, lo fissò e scosse il capo. «Non riesco a capire.»
Don allargò le labbra in un sorriso poco convinto. «Non capisci che cosa?»
«Come ci sei riuscito?»
«Lasciami perdere, va bene?»
Pratt scosse nuovamente il capo. «Il mio vecchio aveva ragione, sai», disse. «Sono sempre gli stronzi che ce la fanno e che poi profumano come rose.»
Don era appoggiato con i gomiti sulle ginocchia e teneva le mani incrociate tanto forte da avere le nocche tutte bianche. «Lasciami perdere, eh?»
«Oh, mio Dio. Ehi, hai intenzione di fare la festa anche a me, adesso, Paperino?»
Don alzò gli occhi, senza espressione. «Smettila e basta, va bene?»
Pratt puntò con violenza un dito nello stinco di Don. «Non osare sfiorarmi con un dito, Paperino, hai capito? Non osare nemmeno pensare che io sia della stessa pasta di quel vecchio puzzolente.» Si alzò senza fatica. «E sta’ lontano da Chrissy, altrimenti ti riduco così male che nemmeno tua madre sarà più in grado di riconoscerti.»
Si allontanò in modo arrogante, facendo rumore con i rinforzi delle scarpe sul pavimento di legno, finché uno degli insegnanti gli disse di camminare sui lati. Pratt annuì e fece come gli era stato detto, poi uscì dalla porta più lontana senza voltarsi.
Lo stavano guardando ancora tutti; ne sentiva le occhiate e pregava il Signore che la campanella suonasse alla svelta, allora sarebbe andato al suo armadietto a prendere il giaccone e i libri, poi si sarebbe diretto allo stadio per assistere allo scontro del tardo pomeriggio. Augurò mentalmente a Pratt di rompersi la testa non appena avesse toccato il campo. Si augurò che sulla scuola arrivasse una tromba d’aria capace di trasportarlo via in un posto lontano e sconosciuto dove la gente non sapeva chi fosse.
Quando suonò la campanella, fu il primo a uscire dalla porta, il primo a imboccare le scale. Stava cominciando ad aprire l’armadietto quando si sparse la notizia di Tar Boston.
La banda fece ingresso disordinatamente sul campo, introdotta da una fanfara composta da percussionisti — i Coraggiosi di Ashford sul sentiero di guerra. Andarono tutti a formare una grande A sulla linea delle cinquanta iarde, e qui intonarono l’inno della scuola e due marce. Gli studenti urlavano, fischiavano e applaudivano, poi la banda uscì di scena e prese posto sulle prime quattro file delle gradinate centrali. Gli striscioni della Festa di Ashford erano stati appesi tra i pali e le finestre; un gruppetto di operai aveva sistemato le luci che avrebbero illuminato la partita di quella sera; sul campo era stata allestita una piattaforma con microfoni e sedie, dove si sistemarono il padre di Don e l’allenatore. Erano stati tutti efficienti e perfettamente puntuali.
Don sedeva in cima alla gradinata e non faceva altro che guardare Tracey che suonava il flauto. Gli tornarono in mente dei frammenti della conversazione che avevano avuto la notte precedente e fu certo di non essersi sbagliato sull’interessamento e la preoccupazione della ragazza. Quando suo padre iniziò a parlare, lui aveva ormai deciso di incontrarla dopo la scuola per raccontarle tutta la storia.
Incluso il suo probabile assassinio di Tar.
Doveva essere così.
Anche ridimensionando le chiacchiere che giravano per la scuola, era chiaro che le condizioni del corpo di Tar erano le stesse di quello dello Squartatore. Era altrettanto chiaro che nessuno sarebbe stato tanto stupido da investire il ragazzo continuando poi a infierire sul suo corpo, avanti e indietro, nemmeno per divertimento o per pazzia.
Era stato lo stallone.
Non era mai stato spaventato in vita sua. Non per quello che era successo, ma perché non provava le stesse sensazioni che lo avevano assalito quando lo Squartatore aveva ucciso Amanda. Allora si era arrabbiato; adesso era … contento.
E questo lo faceva impazzire.
Era morta una persona. Un essere umano. Qualcuno che conosceva. Ed era contento che Tar fosse morto perché così quello stupido stronzo non gli avrebbe più dato fastidio, non avrebbe più eseguito gli ordini di Brian, non avrebbe più ammazzato uccelli e rovinato biciclette e non avrebbe più potuto far finta di essere il re di un paese senza monarchia. Era morto. Il riconoscimento era stato possibile solo grazie all’esame della dentatura, tanto era sfigurato.
Adesso che so che ci sei, che cosa dobbiamo fare?
Aveva bisogno di parlare e di essere solo; intanto applaudiva in modo assente l’allenatore che stava per essere presentato e che correva in campo tra le file delle cheerleader mentre la banda suonava le marce e qualcuno continuava a sciorinare discorsi.
Applaudiva e non sentiva niente; non vide niente finché si accorse che stavano già per uscire tutti quanti. Parlavano concitatamente, facendo programmi per la serata e per il giorno successivo. Lo ignoravano tutti, perché lui era stato un eroe mercoledì sera, ma il tempo passa, come la banda che marcia inesorabilmente verso il fondo del campo al ritmo dei tamburi stanchi, disordinatamente, guadagnando l’uscita.
Si aprì velocemente un varco tra la folla scendendo le gradinate, superò la porta della recinzione di ferro che dava sulla pista e si diresse verso Tracey. La chiamò ad alta voce. Lei non lo sentì. La chiamò ancora evitando gli spintoni di alcuni membri della squadra, che scoppiarono a ridere al verso stonato di Brian che stava nel mezzo.
Non rompermi le scatole, Brian, disse mentalmente mentre cercava di allontanarsi; non rompermi le scatole, amico, altrimenti ti farò ammazzare.
Allora si fermò e deglutì.
Oh, Gesù. Oh, Cristo!
«Sai, comincio a pensare di essere uno iettatore.»
Se ne andò velocemente, evitando giusto in tempo di scontrarsi con Tracey che stava cercando di sistemare gli spartiti e il flauto e di aprire la custodia, tutto contemporaneamente. La guardò vacuamente e lei gli fece un sorriso amaro continuando ad armeggiare con gli spartiti e lo strumento. Non aveva più il cappello e il vento del tardo pomeriggio le faceva sventolare la frangia sulla fronte, sopra gli occhi. La giacca dell’uniforme era sbottonata sotto il mento e si poteva notare l’incavo della gola, fino allo scollo dei seni.
«Scusa», mormorò.
Lei scosse la testa. «Stai cercando me, veterinario?»
«Sì. Io … hai bisogno…» Si morse il labbro inferiore.
«Vuoi accompagnarmi a casa?»
«Sì, per favore», rispose e lei lo prese sotto braccio. Gli altri correvano verso le uscite e il rumore dei motori per la strada si confondeva con gli schiamazzi, con le risate, con le trombe di alcuni membri della banda che si ostinavano a suonare, e più che una parata sembrava che fosse finita la scuola. Nessuno si fermò a parlare con loro e lui ne fu contento. Era troppo occupato a fingersi l’uomo cieco affidato alla guida di Tracey, mentre cercava disperatamente di cancellare dalla mente quello che aveva pensato di Brian.
Una volta fuori, svoltarono verso la via della scuola, stretti nella morsa degli studenti, così vicini l’uno all’altra che, alla fine, la ragazza si decise a prendergli la mano.
«Allora dimmi», disse, guardandolo di sottecchi. «Tar?»
Lui annuì.
«Dio, è stato orribile, eh? Avresti dovuto vedere la faccia di mio padre quando è tornato a casa ieri sera. Se avesse saputo che lo conoscevo, mi avrebbe fatto restare a casa. I miei nervi. Lui crede che io sia malata, debole, e che mi deprima alla sola vista del sangue, ma tu non ascolti nemmeno una parola di quello che sto dicendo, Donald Boyd.»
«Eh?»
«Visto?»
Le strinse la mano e la trascinò in mezzo alla folla che si stava disperdendo verso il prato antistante la scuola. Mentre si dirigevano verso lo spiazzo, fece diversi sforzi per spiegarle quello che stava succedendo alla sua mente, ma ogni volta doveva fermarsi perché non voleva che lei pensasse che fosse un pazzo e non voleva che gli rispondesse di parlarne con i suoi genitori.
Infine decise di lasciar perdere e accettò il suo silenzio, pensando che fosse una paziente attesa per fargli finire di farneticare.
Il pennone della bandiera era circondato da un piccolo muro in mattoni pieno di terra in cui era stata creata un’aiuola. Non c’erano più fiori, ma il freddo delle ultime due settimane non aveva ancora ucciso gli steli e aveva cristallizzato le foglie. Don andò a sedersi sul muretto e Tracey si sistemò accanto a lui.
Erano soli.
Il sole era già calato dietro l’edificio della scuola e la piazzetta era invasa dalla debole luce del tramonto. Non si vedeva nessun movimento oltre le finestre e la bandiera sopra le loro teste sventolava come se stesse applaudendo cinicamente.
«Non era un tuo amico», gli disse, facendo scorrere un dito sui mattoni e seguendo la linea di calce che li univa. «Non è come per Mandy, intendo dire.»
«Sì, lo so.»
«Voglio dire, non ti poteva sopportare, Don, e probabilmente anche tu lo odiavi a morte. Specialmente dopo ieri notte, per cui non capisco. Non capisco davvero.»
Don guardò in direzione della scuola, i gradini, il prato, la strada. «L’ho ucciso io.»
Lo colpì forte sul braccio. «Non sei spiritoso.»
«Lo so.» Guardò la piazza, le sue gambe, il cielo, gli alberi.
«Io … non sei stato tu, lo sai. Lo so che non sei stato tu. Anche se ha fatto quello che ha fatto, io so che non saresti stato capace di seguirlo per strada e ridurlo a brandelli in quella maniera. Tu…»
Poi si portò una mano alla bocca per imporsi il silenzio e Don capì che in quel momento lei si stava ricordando dello Squartatore e del modo in cui era morto.
Poi sentì dei passi sul cemento e si irrigidì, stringendo le labbra, e quando avvertì la manata sulle spalle chiuse gli occhi.
«Come ti sembro?»
«Come uno stupido manichino da negozio sportivo, cretino», rispose sottovoce Tracey.
Don guardò la mano, la faccia e sorrise a Jeff che aveva ancora indosso l’uniforme e teneva l’elmetto sotto il braccio.
«L’allenatore ci ha detto di tenere questo schifo per il resto della giornata.» Jeff si girò leggermente offrendo la vista del suo profilo, un po’ inconsueto per la mancanza degli occhiali. «Per ispirare noi stessi e gli altri. Così i Ribelli della Ashford Nord tremeranno alla nostra vista e non si dimenticheranno tanto facilmente della dura disfatta che dovranno subire.» Cacciò fuori la lingua. «Lo giuro. State andandovene?»
«Sì», rispose Don. «Giocherai?»
L’espressione di Jeff si fece amara. «Stai scherzando? L’allenatore vuole vincere anche la prossima. Perché dovrebbe farmi giocare quando ha già Brian, Fleet e … gli altri?» Diede un’occhiata a Tracey, si accorse del suo sorriso triste e si appoggiò contro il muricciolo, posando l’elmetto sulle gambe.
«Lo sai, eh?» disse Tracey.
«Sì. L’allenatore ci ha fatto il discorso del soldato. È brutto sentirsi dire ‘Vincete per Tar’.»
Don non disse niente; Tracey rise nervosamente.
Si sentirono altri passi e Fleet passò loro davanti.
Quando fu evidente che non aveva nessuna intenzione di fermarsi, Jeff lo chiamò ad alta voce, senza ottenere risposta. Ma una volta raggiunto il marciapiede, Fleet si fermò e si guardò alle spalle. Era chiaro che stava guardando Don ed era altrettanto chiaro quello a cui stava pensando.
Dio, pensò Don, e si limitò ad annuire quando lo vide respirare profondamente, battendo i piedi per terra, indicando chiaramente di voler tornare a casa prima che si rendesse necessario farsi coprire la faccia da un lenzuolo bianco. Salutò con la mano, diede un’occhiata a Tracey e se ne andò.
Sembra proprio un cavallo al galoppo, pensò Don.
Tracey diede un’occhiata all’orologio.
L’ombra del palazzo si fece più scura.
«Don, io devo andare. Tu…»
«No», disse. «Senti, Tracey, mi spiace di aver detto certe cose, okay? Credo … credo di aver bisogno di restare un po’ da solo.»
Lei aveva lo sguardo ferito, ma le labbra si aprirono in un sorriso. «Certo. E, senti, ti farò … che ne dici di chiamarmi più tardi, okay? Dovrei essere di ritorno per le sei, ma tu prova anche prima, va bene?»
«Sì», rispose e voltò la testa di scatto per guardarla in faccia. «Sì, lo farò. È solo che…» E intanto fece un cenno di saluto in direzione di Jeff e Flett che stavano andandosene.
«Va bene, veterinario, non ti preoccupare. Però smettila di dirmi tutte quelle stronzate … hai capito?» Poi, con gli occhi spalancati per la sorpresa di quello che stava facendo, si sporse in avanti e lo baciò più forte di quanto si aspettasse, ma non più di quanto desiderasse. «Chiamami, altrimenti ti spezzo le gambe.»
Lui sorrise mentre la osservava correre via, sventolando gli spartiti, i libri e la custodia del flauto. Ma non appena lei raggiunse l’altro lato della strada e girò l’angolo, il suo sorriso sparì e le labbra gli si incurvarono all’ingiù.
A cosa diavolo stava pensando quando le aveva detto che era stato lui ad ammazzare Tar? Se non lo aveva ritenuto un pazzo, voleva dire che era pazza almeno quanto lui; e se anche ci avesse creduto, si sarebbe rifiutata di accettare la parte che riguardava il cavallo.
Si batté un pugno sulla coscia.
Maledizione a Jeff, comunque! E a Fleet. Ma aveva fatto lui un errore, fermandosi in quel punto. Avrebbe dovuto portarla da un’altra parte, forse al parco, dove avrebbe potuto dire tutto senza sentirsi tanto stupido, così lei non avrebbe avuto paura di trovarsi con lui, perché lei aveva paura che l’avrebbe ammazzata perché lui era … Oh, merda. Merda. Perché questo e perché quello, ma perché doveva essere tutto così maledettamente complicato?
Si colpì ancora la gamba e raccolse i suoi libri. Ci fu un momento, trovandosi di fronte alla scuola, in cui pensò di entrare e di andare a parlare con suo padre. Poi vide uscire Falcone, che scendeva due scalini alla volta e si dirigeva velocemente verso la piazzetta. Don si incamminò verso casa, prendendo una scorciatoia in mezzo al prato. Si girò soltanto una volta, sentendo passare una macchina.
Gli cadde un libro. Si chinò per raccoglierlo, senza distogliere lo sguardo dall’auto. Era quella di Falcone e la stava guidando sua madre.
Aveva un paio di occhiali scuri, un foulard scuro sui capelli, ma lui l’aveva riconosciuta ugualmente.
Si voltò a dare un’occhiata piena di panico verso l’ufficio di suo padre; non c’era nessuno alla finestra.
Tornò a guardare, confuso, verso la strada, ma ormai la macchina era sparita.
Senza pensare, si precipitò all’angolo del palazzo e scese gli scalini verso i cancelli dello stadio. Erano ancora aperti, uscì di corsa, mantenendo il ritmo come se stesse esercitandosi. Continuava a sbattere gli occhi. Aveva la bocca aperta. Teneva le braccia immobili sui fianchi. Alla fine del primo giro, si era ripreso abbastanza da muovere correttamente ginocchia e braccia, respirando come si deve, preparandosi a un allenamento che sapeva sarebbe durato a lungo.
Le gradinate erano vuote.
In mezzo al prato si vedeva l’ombra di un foglio di spartito che dava l’impressione di essere un uccello dalle ali tarpate.
Diede un’occhiata alla scuola e notò una faccia alla finestra del terzo piano.
«Vaffanculo, Hedley», disse tra i denti. «Vaffanculo anche tu e lasciami in pace.»
Adam Hedley si stava tormentando i baffi con un dito e si scostò dalla finestra emettendo un verso di sorpresa. Era rimasto a scuola per correggere i compiti, così non avrebbe dovuto portarseli a casa durante il weekend. Non aveva nessun senso andarsene, dal momento che doveva tornare alle cinque e mezzo per prendere i biglietti, ed era già andato al bar a procurarsi dei panini per la cena, che avrebbe mangiato durante la partita.
Ma Boyd aveva cambiato la situazione.
Osservando il ragazzo che si muoveva come uno zombie ubriaco attorno alla pista, gli venne in mente l’esperimento che aveva dovuto ripetere una seconda volta con le limitate attrezzature della stazione di polizia. E i risultati erano stati gli stessi della prima volta. Subito dopo, si era precipitato nell’ufficio di Verona, ma ormai lui se n’era andato e Ronson era partito per un weekend più lungo del normale. Aveva pensato di telefonare al coroner, ma aveva scartato l’idea quasi immediatamente; non era mai andato d’accordo con quel figlio di puttana tanto effeminato, e figuriamoci se si sarebbe abbassato a porgere a quell’uomo la propria testa, specialmente su un piatto che si era preparato da solo. Così aveva deciso di aspettare il momento di parlare da solo con il detective per rendergli note le sue scoperte e, francamente, per scaricargli la patata bollente.
Ma non era più tanto sicuro di voler scaricare quella patata.
In quel momento si stava domandando se non poteva esserci niente, in quella faccenda, da usare contro Norman, specialmente dopo il resoconto della morte di Tarkington Boston — troppo simile a quella di Falwick perché la storia reggesse.
Gli ci volle una buona mezz’ora per ripulire il laboratorio secondo le sue esigenze, maledicendo gli studenti che non sapevano leggere le etichette e ai quali non importava niente di niente. Chiuse a chiave il ripostiglio, gli armadietti e la sua scrivania; spense le luci e si sorprese di quanto fosse buio. Diede un’occhiata fuori dalla finestra e si accorse che le nuvole si erano avvicinate ancora di più e avevano oscurato il sole e i tetti della città.
I vetri vennero colpiti da una folata di vento che fece oscillare le ombre.
Chiuse a chiave la porta e mise le chiavi nella tasca della giacca, si passò le mani nei radi capelli rossi e si diresse verso le scale, facendo attenzione, perché le luci fluorescenti del soffitto non fuzionavano molto bene. Era buio; una luce tremava leggermente. Avrebbe dovuto parlarne con quel cretino di D’Amato. Se non avesse fatto più che attenzione, avrebbe anche potuto rompersi una gamba.
Gli venne da sorridere.
Non sarebbe stato poi tanto male. Avrebbe potuto citare Boyd e sarebbe andato in pensione vittorioso.
Il secondo piano era buio.
Quando raggiunse il primo, fece due passi verso l’ufficio principale, e improvvisamente una porta si spalancò rumorosamente davanti a lui. Si fermò e rimase in ascolto dei passi di un collega ritardatario che se ne andava o della voce di Boyd che gli diceva di raggiungerlo.
Si sentiva l’eco della porta che aveva sbattuto contro la parete, il suono cupo di qualcosa che batteva sulle piastrelle e che rimbombava nel corridoio deserto.
Girò a sinistra. Il corridoio alle sue spalle era buio e l’unica luce che illuminava il corridoio laterale dava l’impressione di trovarsi in mezzo a un banco di nebbia.
Sbatté le palpebre e si diresse verso l’uscita principale, oltrepassò l’ufficio e si domandò come mai non ci fossero luci accese. Di solito, almeno la zona della segreteria restava illuminata per tutta la notte, per dare la possibilità alla polizia di controllare meglio durante le ronde. Strano, pensò, mentre svoltava l’angolo che dava nell’ingresso. Strano davvero, io presterei più attenzione a queste cose.
Un rumore alle sue spalle lo fece fermare — più che altro aveva percepito uno spostamento d’aria.
Diede un’occhiata e non gli piacque quello che vide.
Dall’altra parte dell’ingresso c’erano tre doppie porte che portavano nell’auditorio. Quella al centro si stava chiudendo.
«D’Amato?» chiamò ad alta voce.
Nessuna risposta.
La porta si chiuse, sibilando.
Non erano di certo affari suoi, ma l’indecisione gli impediva di andarsene. Solo l’anno prima, dopo una turbolenta adunata di benvenuto, era uscito d’istinto dalle porte del piano di sopra e, sul balcone, aveva scoperto due studenti che stavano scopando come ricci sulla gradinata di fronte. Non aveva dato nessun allarme; era semplicemente scivolato nell’oscurità e si era messo a osservarli, eccitato, non tanto dalla scena, quanto dalla sua spontaneità. Era esattamente come nei film che vedeva la sera a casa e che poi sognava tutta la notte.
Era possibile che anche in quel momento, dopo tutta la carica emotiva della giornata, ci fosse qualcuno che aveva avuto la stessa idea.
Controllò l’entrata — non c’era nessuno nel piazzale di fronte, non c’era parcheggiata nemmeno una macchina.
Allora, in punta di piedi e respirando impercettibilmente dalla bocca, si precipitò verso la porta, afferrò la maniglia e la tirò lentamente verso di sé, quel tanto che bastava per farlo entrare.
C’era qualcuno, là dentro.
Riusciva a malapena a vedere attraverso le file di sedili imbottiti e il palcoscenico, illuminato da un’unica lampadina, era completamente vuoto, a parte la presenza di un vecchio divano malandato appoggiato alla parete di fondo.
Ma dopo tutti quegli anni di esperienze scolastiche, sapeva, grazie a una buona dose di sesto senso, sapeva, senza ombra di dubbio, di non essere solo in quella caverna dalle pareti scure.
Si spostò con attenzione, sempre in punta di piedi, verso la navata centrale, fermandosi a ogni fila per controllare entrambi i lati, con le orecchie pronte a captare il minimo sospiro, un fruscio di vestiti, un gemito di piacere.
Dopo essere sceso di dieci file, decise di controllare la galleria sovrastante.
Si voltò e lo vide in piedi sulla porta.
«Cristo», disse e la voce echeggiò nell’auditorio vuoto tornando verso di lui come un boomerang, in un sussurro somigliante a una preghiera.
Due occhi verdi lo fissavano.
Non si soffermò a domandarsi che cosa fosse, da dove arrivasse e che cosa stesse facendo in quel posto. Si voltò e si mise a correre per tutta la lunghezza della navata, bestemmiando contro il proprio peso quando svoltò a destra e inciampò in una seggiola; riprese a correre, ma dovette aggrapparsi alla sedia successiva, per evitare di cadere per terra. In quel momento si voltò e notò che lo stallone stava venendo verso di lui. Un passo alla volta.
Gli occhi verdi lampeggiavano.
Sto per morire, pensò, e non sapeva nemmeno perché.
La paura gli procurò una sensazione di calda umidità lungo le gambe, ma non gli impedì di riprendere a correre. Andò a sbattere contro il palcoscenico. Ingoiò la bile, scosse via il sudore dagli occhi e alzò una gamba per sollevarsi da terra. Non ci riuscì e rotolò sulla schiena a braccia spalancate mentre lo stallone continuava ad avanzare uscendo dall’oscurità.
«Gesù, Giuseppe e Maria.»
Guardò ansiosamente verso i lati della sala, mentre cercava di rimettersi in piedi, augurandosi che D’Amato non avesse chiuso a chiave le porte che conducevano negli altri corridoi. Esaminò attentamente la balconata nel caso ci fosse il custode, poi diede un’occhiata alla creatura che si era fermata nella navata centrale.
Teneva le orecchie all’indietro, gli occhi erano semichiusi e osservavano e non c’era nessuna possibilità che si trattasse di uno scherzo, Io sapeva bene.
Si mise a correre.
Lo stallone strusciò la zampa sul tappeto della navata, provocando fiammate verdi, poi scattò in un galoppo forsennato che impegnava tutta la muscolatura.
Adam rimase senza fiato, momentaneamente paralizzato.
Lo stallone riempiva l’aria di fumo e di fiamme.
Inconsciamente Adam alzò gli occhi verso la lampadina e quando li distolse si ritrovò parzialmente accecato.
Ma non abbastanza per non notare lo stallone che fendeva l’aria, che saltava senza problemi sul palcoscenico, volando ardente, con la bocca aperta sulla dentatura perfetta, come se la testa fosse tutt’uno con la gola.
Adam cominciò a urlare.
La lampadina tremò.
E, nell’oscurità, si videro solo delle fiammate verdi sfumate leggermente di rosso.