124186.fb2 La carezza della paura - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 18

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17

Quando Don arrivò a casa, trovò Norman seduto sui gradini della veranda. Le nuvole si stavano raggruppando lentamente e il cortile era quasi completamente buio; i lampioni erano già accesi e gettavano una luce grigiastra sul prato e sul retro della casa. La lampada della veranda splendeva di una pallida luce giallognola e Don si incamminò esitante lungo il vialetto, senza capire perché mai suo padre fosse lì fuori, in quel modo — senza cappotto, senza cravatta e con un bicchiere vuoto in mano.

«Ciao», disse Norman battendo una mano sul gradino di fianco a lui.

«Ciao», rispose Don, sedendosi con i libri appoggiati in grembo. Sperava che quello non fosse un tentativo per trasformare la serata in un lungo discorso-da-padre-a-figlio. In tal caso, forse avrebbe potuto spiattellargli tutto quello che sapeva, riuscendo a capire finalmente quello che suo padre pensava di lui.

«Che cosa ti è sembrata tutta quell’allegra compagnia?»

«Be’, non mi è sembrata male.»

«Ha risollevato gli animi delle truppe, almeno così mi è parso.»

«Anche a me.»

«Scommetto che stasera spaccheranno la faccia a quelli della Nord. Brian aveva l’aria di chi è pronto a uccidere qualsiasi cosa si muova.»

Don l’aveva notato.

«È davvero un peccato per Tar. Quel ragazzo avrebbe potuto diventare un vero campione, un giorno o l’altro. Pratt non ha la benché minima possibilità: è troppo presuntuoso. Boston conosceva i suoi limiti. Bisogna conoscere i propri limiti per diventare famosi nel mondo.»

«Tar è morto», disse Don in tono piatto.

«Già. Che cazzata.»

Si mosse, fece un rutto, poi si passò le mani fra i capelli. «Le cheerleader hanno delle belle gambe, te ne sei mai accorto? Cioè, quando non parli ai tuoi animali, ti è mai capitato di pensare che le cheerleader hanno delle gambe mica male?»

Don non sapeva cosa dire, e allora non disse nulla.

Norman tirò fuori un fazzoletto e si soffiò il naso. «Probabilmente ti starai chiedendo che cosa ci faccio qui fuori, giusto? Probabilmente mi beccherò la polmonite e non potrò andare alla partita: considerando la relativa importanza di questa settimana, non è forse la cosa migliore da fare.»

L’odore del bourbon non era una vera e propria puzza, e i capelli di suo padre non erano poi tanto in disordine sulla fronte.

«Be’, ti dirò perché sono qui, ragazzo mio. Sto aspettando tua madre.»

Don trasalì, ma Norman non lo vide; stava fissando il prato continuando a far girare il bicchiere fra le dita. Finalmente alzò la testa come se stesse prendendo fiato.

«Ti ricordi quella dannatissima domanda che mi hai fatto qualche giorno fa? Te la ricordi, Donald?»

Se la ricordava. Se la ricordava talmente bene che afferrò con i denti l’interno della bocca e strinse forte.

«Bene, immagino che tu abbia diritto a una risposta. Dopo tutto, tu sei il mio unico erede ancora in vita. Molto presto ti lancerai fiducioso in questo mondo e inizierai a vivere la tua dannatissima vita.» Appoggiò una mano sul ginocchio di Don e lo strinse, lo massaggiò per un attimo e ritirò la mano. «Sai una cosa? Tuo nonno me lo diceva sempre, quando si rompeva la schiena in fabbrica e non riceveva altro che pedate nel culo; anche quando diventò caporeparto, continuò a ripetermi che non bisognava fare progetti per il futuro perché la strada che percorriamo è una strada piena di merda. Ce n’è di dura, e possiamo scavalcarla, ma ce n’è anche di molle, e lì sprofondiamo fino al collo. Ma è sempre merda. Diceva che bisogna costruire un futuro ai propri figli, come lui stava facendo con me. Diceva che era l’unico modo per farsi ricordare dalla gente.

«Aveva ragione, sai, quindi non fare quella faccia stupita. È tutta una merda, Donald, e te lo dico esattamente come mio padre l’ha detto a me. Naturalmente puoi imparare a convivere con un certo tipo di merda, non so se sono chiaro. Addirittura in certi casi può anche farti bene, capisci?

«Come Falcone. È una merda. Vuole convincere quelle teste di cazzo di insegnanti a entrare in sciopero, e vorrebbe farlo per prima cosa lunedì mattina, ma sai cos’ha fatto quello stupido pezzo di merda? A parte il discorso relativo ai tuoi voti, hai idea di che cosa abbia fatto quell’imbecille?»

Don distolse lo sguardo, sperando che il fatto di deglutire con forza gli impedisse di mettersi a urlare. Iniziò a capire perché l’odore del bourbon gli era sembrato acido.

«Oh», disse Norman. «Oh, li hai visti.»

Lui annuì.

«È la cosa più stupida che abbia mai visto.» Norman rise duramente. «Praticamente è corso fuori dalla scuola e si è infilato in macchina. Nella sua macchina, bada bene. E lei era lì, agghindata come Greta Garbo, come se nessuno sapesse chi diavolo era. La donna misteriosa nella vita di Harry Falcone, capisci cosa voglio dire? Bene, è stato stupido, Donald. Stupido. Perché adesso può anche mettersi a fischiettare nudo per la strada, ma nessuno fra gli insegnanti vorrà più seguirlo.

«Merda buona per me, e merda cattiva per lui.»

«Papà, per favore.»

Norman appoggiò il bicchiere sul bordo del gradino che stava fra loro; Don lo afferrò prima che cadesse e lo mise nella veranda.

«Già», disse Norman.

Don lo guardò.

«La risposta alla tua domanda è sì. Probabilmente l’ho capito il giorno in cui morì Sam e tua madre diede la colpa a me, perché eravamo andati in campeggio invece di rimanere sulla spiaggia senza fare un cazzo come avrebbe voluto lei. Ma vicino alle spiagge ci sono gli ospedali. I campeggi hanno solo alberi, ma se tua madre è convinta che io non senta la sua mancanza, vuol dire che è più stupida di quanto pensassi.»

Don si alzò in piedi, ma Norman lo raggelò con un’occhiata di traverso.

«Non ti piace che io parli di tua madre in questo modo e, a dirti la verità, nemmeno a me piace parlare di lei in questo modo. È una donna infernale, Don, una donna infernale. Quindi quando tornerà, ovunque sia andata con quel viscido, lurido maiale, le chiederò di prendere una decisione — sta a te decidere, Joyce. Puoi rimanere con la tua famiglia o rimanere con lui.» Lentamente scosse la testa e inspirò fra i denti. «Comunque credo che sia stata la notizia che le ho dato a farle fare ciò che ha fatto. Devo concederle almeno questo. Fino a ora era riuscita a tenere tutto tranquillo e sotto controllo. Immagino sia colpa mia.»

«Quale notizia?» mormorò Don.

«Ho intenzione di andarmene alla fine dell’anno.»

«Che cosa?»

«Ehi, ragazzo, non urlare. Sono tuo padre.»

«Andartene? Vuoi dire … lasciare la scuola? Il tuo lavoro?»

Sei ubriaco, pensò; sei ubriaco, sei ubriaco!

«Proprio così. Gliel’ho detto questo pomeriggio. Falcone, il consiglio possono prendere la scuola e ogni singolo ragazzo e cacciarseli dove non batte il sole. Devi credermi: me ne vado davvero.»

«Ma perché?»

«Mio padre mi diceva sempre che l’unico modo per cavarsela in questo mondo, pur camminando sulla merda, è quello di fare soldi. E aveva ragione. Non puoi vivere da essere umano se non hai soldi. Tanti soldi. Diamine, non avevo mai avuto principi di questo genere, ma adesso? No, diamine, non è possibile!»

Don cercò di respirare profondamente e si appoggiò rigido contro la ringhiera. «E allora cos’hai intenzione di fare?»

«Eh, ragazzo mio, non hai mai ascoltato tua madre. Non hai notato in che modo mi tratta Garziana ultimamente.»

«Garziana? Garziana il sindaco?» Suonato: in qualche modo doveva essere suonato; doveva esserlo, altrimenti non avrebbe avuto voglia di mettersi a ridere.

Norman annuì, guardandosi le mani come se si aspettasse di ritrovare ancora il suo bicchiere. «Ho intenzione di presentarmi come candidato il prossimo autunno, Don. La prima volta che l’ho detto a tua madre, pensava che stessi scherzando. Ma ci ho pensato parecchio, ci ho pensato seriamente, e mi sono guardato in giro per vedere come se la passava Garziana. Se la passa piuttosto bene, ragazzo mio. Se la passa fin troppo bene per lo stronzo che è.»

Don afferrò la ringhiera e si tirò fin sulla veranda.

«Lei crede che sia pazzo. Però ha anche fatto una considerazione importante — i soldi inizieranno ad arrivare soltanto dopo qualche anno. Questo significa dover fare qualche sacrificio; il lavoro in sé non ti dà un cazzo, ma a lungo andare ne vale la pena, su questo non c’è dubbio. Lo so da fonti sicure.»

«E la scuola», disse Don con voce rauca. «Che cosa…»

«Stai pensando a qualche borsa di studio?»

«Oh, no, ti prego, papà. No, ti prego.»

«Sai una cosa, credo … voglio dire che non sarei sorpreso se lei pensasse che ho picchiato quel povero ragazzo l’altra notte per quello che aveva fatto alla mia macchina.»

Don guardò furibondo verso la porta di ingresso, poi distolse lo sguardo e vide suo padre che lo osservava. «Sei stato nella mia stanza!» disse con tono di accusa, senza preoccuparsi di quanto fosse ubriaco Norman.

«È vero, hai dannatamente ragione. Questa è la mia dannata casa e io volevo vedere da vicino quei tuoi piccoli amici, per cercare di capire dove diavolo fossi finito con la testa. Devo ammettere che non l’ho ancora capito, ma ho capito che non sei molto furbo, Don. Non avresti dovuto lasciare quelle chiavi sulla scrivania.» Si girò lentamente e appoggiò un gomito sul gradino. «Non sono stupido, Donald. Non so a che cosa tu stessi pensando quando non hai voluto raccontarmi di Tar, ma so che eri convinto che avrei ammazzato quel figlio di puttana. Perché l’hai fatto? Avevi intenzione di farlo da solo?»

Don scacciò la risata che, iniziata come riso soffocato, stava finendo per soffocarlo davvero. Aprì la porta: aveva le vertigini e voleva correre in bagno.

«Avevi davvero intenzione di farlo?» insistette Norman. «Cristo, spero che tu non stia iniziando a credere a tutte quelle fesserie dell’eroe. Lo sai meglio di me che non sei stato tu.»

Lui rimase senza fiato, ma non si girò.

«No», continuò Norman. «Non sei stato tu. È stato un ragazzo in preda alla follia, non mio figlio. Cinque secondi di follia non fanno di te un eroe.»

Don avrebbe voluto svenire, per fuggire nell’oscurità.

«Tu vai pure avanti, vai in casa», disse Norman in tono gentile, credendo che lo stesse aspettando. «Io rimarrò qui ancora un po’ per smaltire la sbornia. Non posso andare alla partita conciato così, non ti pare? Farei una cattiva impressione. Alla gente non piacciono i sindaci che si ubriacano e lo fanno vedere in pubblico. Oltre tutto, forse tua madre tornerà a casa. O forse no. Personalmente spero che lei…»

«Stai zitto!» urlò Don. Si voltò di scatto, facendo cadere i libri per terra, mentre piccole rughe rossastre apparivano ai lati degli occhi. «Stai zitto!»

«No, sei tu che devi crescere!» gli urlò dietro Norman. «È ora che tu cresca un po’, ragazzo mio; devi smetterla di credere che i tuoi sogni a occhi aperti possano rendere le cose migliori da queste parti.» Puntò un dito minaccioso verso il suo petto. «Ti dirò una cosa, figliolo — se non riuscirai a entrare davvero nel mondo reale, ma in fretta, avrai dei grossi problemi. Tutte quelle fesserie, tipo prendersi cura di quei poveri, piccoli animali abbandonati, tutte quelle scene da bambino di due anni solo perché tua madre ha tolto un po’ di giocattoli dalla tua camera — faresti meglio a crescere un po’, Don. Faresti meglio ad aprire gli occhi e a imparare un paio di cose del mondo reale.»

Don sbatté la porta. Diede un calcio a un libro che quasi lo fece cadere, poi si precipitò su per le scale, inciampando un paio di volte, cadendo sul pianerottolo e tirandosi su fino in anticamera. Si appoggiò al muro e fissò la camera dei suoi genitori, poi la sua, quindi si girò per dare un’occhiata alla camera di Sam e si mise a singhiozzare.

«Don?» lo chiamò Norman dal fondo delle scale.

«Lasciami in pace!» urlò. «Lasciami in pace!»

«Volevo solo avvisarti che ci sono dei panini sul bancone, nel caso volessi mangiare qualcosa prima di andare alla partita.»

«Gesù Cristo», strillò, «vuoi lasciarmi in pace?»

Entrò nella sua stanza, afferrò la sedia della scrivania, la sollevò sopra le spalle mentre le lacrime rigavano il suo volto, poi la gettò contro il muro mentre le ginocchia si facevano rigide.

«Lasciatemi in pace!» disse a voce alta.

Con un braccio spazzò via i libri e le penne dalla scrivania.

«Lasciatemi in pace», mormorò.

Afferrò il falco impagliato da una mensola e cercò di staccargli la testa, poi lo scagliò con violenza contro la finestra, sobbalzando al rumore prodotto dal vetro che scricchiolava; l’uccello rimbalzò indietro, rotolando lentamente sul pavimento.

«Lasciatemi in pace. Voglio soltanto … che mi lasciate in pace.»

Passi nell’ingresso che non vacillavano né indugiavano. L’acqua della doccia. Lo sciacquone del water. Qualcosa di vetro che si frantumava sul pavimento del bagno.

Dieci minuti più tardi, la porta d’ingresso sbatté e Don balzò dal letto per correre nella camera dei suoi genitori: scostò le tende e guardò giù in strada. Indossando un paio di pantaloni, un pullover e una giacca sportiva, Norman stava svoltando l’angolo. Non si guardò indietro, e nemmeno alzò gli occhi; si fermò con le mani in tasca mentre Chris faceva marcia indietro con la sua decappottabile rossa per uscire dal garage. Si scambiarono qualche parola. Norman scosse la testa, gentilmente. Un altro scambio di battute con Chris che sfoggiava il suo miglior sorriso. Quando lui alzò le spalle, lei gli fece un gesto con le braccia, poi afferrò i pon-pon dal sedile anteriore e li depositò su quello posteriore, sporgendosi in avanti per aprire la porta del passeggero. Un altro cenno e Norman alzò le spalle, poi passò dietro la macchina e scivolò accanto al posto di guida. Quando partirono, in direzione dello stadio, Chris aveva entrambe le mani appoggiate sul volante e suo padre teneva lo sguardo fisso verso destra. Don si allontanò dal davanzale e ritornò nella sua camera, prese il falco e lo appoggiò delicatamente sul letto.

«Mi dispiace», disse.

Da basso era buio. Dopo aver acceso le luci del salotto e il piccolo lampadario dell’ingresso, vide il foglio attaccato all’interno della porta d’ingresso.

Don, non dimenticarti di mangiare qualcosa prima di uscire. Io ho bevuto troppo. Stupido e ubriaco. Se ti ho fatto del male, scusami. Non dimenticarti le chiavi.

Allungò le dita per toccare il foglio, poi ritrasse la mano, quindi afferrò il messaggio e lo strappò in due, e poi ancora in due, buttando i pezzi per terra.

«Non basta chiedere scusa, papà», disse, entrando in salotto.

Una fila di macchine passò davanti alla casa, suonando i clacson e con la musica ad alto volume.

Guardò il soffitto. «Perché?» chiese, con la gola in fiamme. «Che cosa ho fatto di male?»

In cucina si versò un grosso bicchiere di latte, poi prese i panini che qualcuno aveva preparato per lui. Dopo essere rimasto in piedi di fianco al tavolo, per assicurarsi di non avere dimenticato nulla, si sedette e iniziò a mangiare, fissando la sua immagine trasparente riflessa sul retro della porta, come se si aspettasse di vedere entrare sua madre; sua madre che entrava scuotendo i capelli, con un sorriso sulle labbra, gli porgeva la guancia per il solito bacio, poi andava verso il lavandino, lo riempiva di acqua calda e ci immergeva i piatti, controllandoli poi uno per uno, come se stesse compiendo il lavoro di un artista.

Quand’ebbe finito, sciacquò il bicchiere, pulì il piatto e spense la luce. Vicino al tavolino d’ingresso si fermò per osservare le sue dita che giocherellavano con la cornetta del telefono. Fece il numero di Tracey trattenendo il fiato.

Lei rispose e lui si sedette per terra, incapace di parlare, fino a quando lei non lo assalì con una serie di parole in spagnolo che lo fecero sobbalzare a tal punto da fargli dire: «Cosa?»

«Don, sei tu? Accidenti, pensavo si trattasse di una telefonata oscena.»

«Sì, sono io. Santo cielo, cosa voleva dire tutta quella roba?»

Lei ridacchiò. «È meglio che tu non lo sappia, però suonava bene, vero?»

«Mi hai spaventato.»

«Era quello che volevo. È una delle brillanti idee di mio padre.» Sua madre strillò con voce acuta con sua sorella, e suo padre urlò con tutti quanti. «Cosa c’è? Oh, santo cielo, è successo qualcos’altro?»

Lui annuì, poi rispose: «Sì.»

«Dovrei fare il prete.»

«Eh?»

«Il prete. Negli ultimi giorni c’è un sacco di gente che viene a piangere sulla mia spalla. Sto diventando piuttosto brava. Forse dovrei farmi pagare, che ne dici?»

Lui rimase con lo sguardo fisso sulla cornetta.

«Don», disse in tono solenne, «era soltanto uno scherzo.»

«Oh. Mi dispiace.»

«Non ti preoccupare. Ehi, ascolta, sono un po’ in ritardo. Se arrivo tardi, mi fanno riconsegnare il flauto e mi strappano le mostrine.» Fece una pausa. «Stavo di nuovo scherzando.»

«Sì, lo so.»

Suo padre urlò qualcosa in spagnolo e sua sorella gli rispose strillando; un secondo più tardi sentì l’inequivocabile rumore di uno schiaffo, seguito dal pianto di qualcuno.

«Don…»

«Ho sentito.»

Lei bisbigliò: «Mi dispiace. Davvero, stavo solo scherzando. Ci vediamo più tardi?»

Prima che potesse rispondere, lei aveva già riappeso. Don strinse il filo del telefono fra le mani e lo tirò fino a tenderlo. Adesso, pensò; io ho bisogno di te adesso, Tracey, dannazione. Rimase seduto sul divano, cercando di indovinare che ora fosse; ogni tanto andava in cucina per verificare la propria precisione con l’orologio. Ma si sbagliava. Ogni volta. E ogni volta che si alzava e usciva dalla stanza, sapeva che sua madre non sarebbe tornata prima che lui fosse uscito. Se mai fosse uscito. Non era poi tanto sicuro di andare. Tutta quella gente, tutte quelle facce, tutto quel rumore che gli impediva di riflettere.

Andò di sopra, nella stanza di Sam.

La macchina da cucire di sua madre era per terrà, vicino al lettino di Sam con le lenzuola di Winnie-the-Pooh; nell’angolo opposto era stato sistemato un tavolino dove sua madre ammonticchiava tutti i suoi attrezzi quando non li usava; la tappezzeria era piena di polvere, file di cowboys e indiani e cactus e diligenze. La tapparella era abbassata. Sul materasso non c’era il cuscino. Si guardò attorno, cercando di ricordarsi che faccia avesse suo fratello, che cosa avesse detto o fatto suo fratello per farsi ricordare così bene da sua madre.

«Sam», disse, «sei un bastardo, lo sai? Sei un dannatissimo bastardo.»

Tracey corse giù per la collina, verso l’ingresso dello stadio, sentendosi un po’ stupida nella sua uniforme, mentre osservava tutti gli altri ragazzi vestiti più comodamente e pronti a divertirsi: loro non sarebbero dovuti tornare a casa dopo la partita per cambiarsi. Oltre tutto, non le importava nulla della partita, della musica o della figura che avrebbe fatto sul campo — era preoccupata per Donald, per quello che gli stava capitando; chissà perché, quando aveva parlato con lui poco prima, il suono della sua voce non l’aveva fatta tremare come faceva di solito.

Qualcuno la chiamò per nome e lei si girò in tempo per vedere Jeff che correva verso di lei. Sorrise e si fermò ad aspettarlo, scoppiando a ridere quando lui scivolò lungo il marciapiede finendo in mezzo all’erba.

«Carino», esclamò lei, avvicinandosi per aiutarlo. «È un colpo segreto, vero?»

Lui la fissò, imbronciato, poi sospirò rumorosamente e si allungò per recuperare la maschera. «Ho cercato di chiamarti», disse, mentre si incamminavano verso l’ingresso, «ma la linea era occupata.»

«Stavo parlando con Don.»

Lui non disse nulla.

Lei lo guardò, poi distolse lo sguardo e avvertì una stretta al cuore che non aveva niente a che vedere con il freddo pungente.

All’interno del piccolo tunnel, i tacchi di Jeff risuonavano.

«Trace?»

Si fermarono sulla pista. Le tribune erano già piene di gente e la banda era al suo posto, sulla sinistra, e ascoltava i consigli dell’ultimo minuto del direttore. Sul lato opposto videro alcuni componenti della squadra che entravano lentamente nella sede in cemento del club.

«C’è qualcosa in lui che non va», disse con calma.

Lui le prese la mano e la strinse, senza mollarla.

«Non so.» Si udì lo squillo di una tromba e il direttore della banda urlò un ordine. Lei alzò lo sguardo, poi diede un’occhiata rapida a Jeff. «Mi fa paura», ammise di fronte a lui e di fronte a se stessa. «Non so bene che cosa gli stia succedendo, ma mi fa paura.»

L’espressione del viso di lui era tale che lei provò l’impulso di baciarlo — preoccupazione, rabbia e frustrazione mescolate.

«Ascolta», rispose lui alla fine, «perché non ci vediamo dopo? Dopo la partita. Posso accompagnarti a casa, oppure da qualche altra parte, così potremmo…»

«Non posso», lo interruppe lei. «Devo vedermi con Don.»

«Oh, capisco.»

«Ha bisogno di parlare con qualcuno, e credo di essere…»

«Ma ti fa paura, Trace. Hai appena detto che ti fa paura.»

«Lo so. Ma è pur sempre un amico, non ti pare?»

Gli afferrò una mano e poi la lasciò andare, gli fece un cenno e rimase a guardarlo mentre si incamminava verso la sede del club con passo veloce. Povero Jeff, pensò, e aggrottò le sopracciglia per il modo nel quale quelle parole l’avevano turbata. Doveva essere dispiaciuta per Don, non per Jeff; era Don che aveva baciato il giorno prima. Ma ora voleva baciare Jeff, voleva abbracciarlo, o magari rimanere lì con lui e ascoltarlo mentre le raccontava qualcosa di divertente sulla partita alla quale era stato obbligato a partecipare da suo padre.

Jeff. Don.

E si chiese se forse non sarebbe stato meglio evitare di vedere Don. Almeno non da sola.

Non aveva mentito — le faceva davvero paura.

Squillò il telefono.

Don scese con calma le scale: se avesse corso e se fosse stata sua madre, non avrebbe saputo cosa dirle, tranne forse che desiderava tanto che tornasse a casa; l’avrebbe pregata di tornare.

Era il sergente Verona.

Don riappese senza rispondere alla benché minima domanda, poi prese la giacca dall’armadio.

Non poteva restare lì. Se fosse rimasto, sarebbero arrivati i poliziotti e gli avrebbero chiesto di Tar e dello Squartatore, e non lo avrebbero lasciato andare fino a quando non avessero finito. Lo avrebbero fissato come faceva Hedley, scrutando nella sua anima e capendo com’era fatto davvero, riuscendo a capire che cosa era diventato dall’esplosione di tutta quella faccenda. A loro non importava certo che i suoi genitori stessero per lasciarsi e che lui si sarebbe ritrovato solo.

Rimase in piedi sulla veranda e chiuse la porta; lasciò la luce accesa nel caso in cui sua madre ne avesse avuto bisogno.

Alla fine del vialetto gettò un’occhiata verso il parco, pensando che forse avrebbe fatto meglio ad andare laggiù per calmarsi un po’ prima di presentarsi a scuola. Le mani gli tremavano e non riusciva a respirare senza affanno; per quanto continuasse ad asciugarsi il viso, era completamente sudato.

Forse il suo amico sarebbe tornato e gli avrebbe permesso di toccarlo di nuovo.

Si fermò una macchina e una donna che non conosceva si sporse dal finestrino. «Sei Donald Boyd?» chiese ridacchiando e girandosi verso qualcuno seduto al suo fianco. «Mi sento un po’ stupida, non credi anche tu? Santo cielo, mi sento proprio una stupida.» E ancora a Don: «Dunque. Sei tu il ragazzo che ho visto alla televisione, quello che ha ucciso quel maniaco?»

Lui annuì senza una parola.

«Lo sapevo», disse lei con un movimento del capo. «Te l’avevo detto che era lui», esclamò rivolgendosi al suo compagno. «Quando l’ho visto ho capito subito che era lui.»

Si allontanò con un te-l’avevo-detto-io, facendo quasi uscire di strada una macchina che cercava di superarla. Qualcuno suonò il claxon con rabbia, poi volarono delle parolacce; dalla seconda macchina qualcuno gli urlò di sbrigarsi, o avrebbe perso il calcio d’inizio, o forse era troppo grande per questo genere di cose? Lasciatemi in pace, disse con uno sguardo che sapeva non avrebbero nemmeno visto, lasciatemi in pace, dannazione.

Si fermò davanti alla casa di Chris e con gli occhi ripercorse il vialetto dove lei aveva fatto salire suo padre, con la mente rivide la direzione che avevano preso, e anche la loro posizione: così lontani da sembrare estranei. Gli prudeva il palmo della mano che aveva toccato i suoi seni, lo sfregò con forza contro la giacca fino a quando iniziò a bruciare.

Il cane di Delfield si mise ad abbaiare.

E piantala, pensò.

Nel petto avvertiva una tensione che schiacciava i polmoni; la colonna vertebrale sembrava un bastone che si rifiutava di piegarsi; le braccia erano piene di crampi e le mani strette a pugno.

Si udì il suono di una sirena della polizia; lasciatemi in pace; una banda di ragazzini corse lungo la via della scuola, prendendo in giro le macchine che circolavano e urlando dietro ai passanti dall’altra parte della strada; qualcuno fece esplodere una fila di petardi; lasciatemi in pace; si udì uno stridore di freni; lasciatemi in pace; il corpo di Tar scomposto in mezzo alla strada, più sangue che carne, il sangue che scorreva lungo il marciapiede.

Gli faceva male la testa.

Tre autobus della scuola passarono a tutta velocità, facendolo girare: i sostenitori della Nord lo punzecchiarono dai finestrini aperti, suonando trombette e claxon e gettando una lattina di birra sul marciapiede.

Cristo, lasciatemi stare.

Dall’autobus qualcuno lanciò una lattina di birra che andò a finire sui suoi piedi, rovesciandosi per metà sull’orlo dei pantaloni. «Cristo!» urlò. «Cristo, lasciatemi in pace!»

Pochi passi più avanti, udì tutte le grida riversarsi nello stadio e iniziò a correre, dicendo: «Io non volevo, io non volevo», fino a quando arrivò al cancello d’ingresso e le urla si fecero ancora più forti.