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Tracey lo vide nello specchietto retrovisore esterno.
L’improvvisa ondata di pioggia aveva costretto Jeff a rallentare, le luci dei negozi e dei lampioni si riflettevano sull’asfalto come macchie caleidoscopiche e rimbalzavano sul parabrezza. I tergicristalli funzionavano al massimo, ma era quasi impossibile vedere dove stavano andando. Lei stava per chiedere a Jeff di accostare e di aspettare che passasse il peggio, quando i suoi occhi si posarono sullo specchietto retrovisore.
E lo vide.
E, improvvisamente, fu troppo tardi per parlare, troppo tardi per girare, troppo tardi per spiegare come mai l’aria si era fatta così pesante nei suoi polmoni e come mai si era messo a piovere così forte.
Si girò appoggiandosi al cruscotto, per guardare la strada vuota alle loro spalle. Non si vedevano altro che i riflessi delle gocce d’acqua che rimbalzavano sull’asfalto. E la nuvola di nebbia che si stava avvicinando verso di loro, frastagliata dalle folate di vento, scivolava sotto le macchine parcheggiate e nei tombini intasati. Non era più alta dei pali telefonici, non raggiungeva il marciapiede — li seguiva come se fossero loro a trascinarla, e quando raggiunsero una zona di negozi privi di luci, si accorse degli occhi verdi, del fuoco verde, dell’ombra più scura della notte.
«Jeff», mormorò con voce piena di paura.
«Ragazzi, stava malissimo», disse Jeff, alle prese con il volante, per evitare che la macchina scivolasse sull’asfalto oleoso del viale. «Dio, non so come faccia a trattenersi, sai? Se fossi in lui, andrei alla ricerca della scogliera più vicina, hai capito quello che intendo dire.»
«Jeff, ti prego.»
«Trace, sto facendo del mio meglio, ma non posso fermarmi qui. Non c’è abbastanza spazio. Vuoi che arrivi un autobus e che ci trascini fino a New York? Sta’ calma, siamo quasi arrivati.»
La pioggia rimbombava sul tetto della macchina; i segnali autostradali si illuminavano come dei lampi quando venivano colpiti dai loro fari.
«Jeff, va’ più veloce.»
Jeff si voltò verso di lei, meravigliato. «Cosa? Più veloce? Ma se mi hai appena detto di rallentare, Tracey!»
«Cristo, Jeff, non discutere.»
La vide che si guardava alle spalle e controllò nello specchietto retrovisore, sobbalzando alla vista della nuvola bianca che riempiva tutto il finestrino posteriore. «Che cosa diavolo è? Non può essere la pioggia, non sto andando così veloce.»
Le fiamme verdi si attorcigliavano sulla macchina.
Tracey chiuse gli occhi e si mise a pregare. Persino parlandone con Don, non era riuscita a crederci, pensando di essere stata contagiata dalle sue fantasie, dal suo incomprensibile e inutile bisogno di doversene andare per un po’ di tempo. Sapeva che cosa intendeva dire, ma non fino a quel punto, aveva avuto anche lei momenti del genere, ma mai tali da rendere tutto reale.
Un fiocchetto bianco andò a depositarsi sul suo finestrino e lei lo cacciò con ansia, augurandosi fosse soltanto la condensazione del suo respiro.
Ma non se ne andò, non riusciva a cancellarlo, allora si girò verso Jeff, implorandolo di andare più veloce.
«Tracey, guarda…»
La nebbia cominciò a inondare il finestrino davanti, Tracey soffocò un urlo, appoggiò il piede su quello dell’amico e premette l’acceleratore a tavoletta.
Jeff gridò di paura, la spinse di lato e la macchina cominciò a slittare da una parte all’altra della strada, mancando per un pelo un’auto parcheggiata, un bidone della spazzatura e il ciglio del marciapiede. Girò il volante e premette leggermente i freni, tenendo la bocca aperta e imprecando senza togliere gli occhi dalla strada.
Ormai li aveva affiancati. E mentre guardava di lato, Tracey sussurrò il nome di Don.
«Tracey», mormorò ansiosamente Jeff. «Che cosa sta succedendo?»
Lei si girò di nuovo verso di lui, richiamata dalla sua voce terrorizzata. Gli occhiali gli erano scivolati sul naso e, per questo, continuava a tenere la testa all’indietro, non osando staccare le mani dal volante per sistemarseli. Era pallido e nell’abitacolo stretto dell’auto aveva la faccia madida di sudore.
Il vento li aveva avvolti, facendoli sbandare, e il tergicristallo sul suo lato si era inceppato.
«Devo fermarmi», disse Jeff. «Stiamo andando troppo veloci, devo fermarmi, altrimenti andremo a sbattere…»
«No!» urlò lei e tornò a cercare l’acceleratore.
Jeff allungò freneticamente una mano verso di lei e la afferrò alla gola, ributtandola sul sedile, poi si voltò lentamente e vide con orrore che lo stallone si stava avvicinando alla portiera.
L’animale abbassò il muso, lo sguardo sempre attentissimo.
Jeff si mise a urlare e la macchina cominciò a slittare, aiutata dal vento e dalla pioggia. Tracey allungò una mano verso il cruscotto nel tentativo di aggrapparsi e mise l’altra mano sulla maniglia della portiera, pronta a saltare fuori.
La macchina fece un testacoda e continuò la sua corsa, sbattendo contro il marciapiede e andando infine a schiantarsi contro un albero, uscito improvvisamente dalla nebbia. Jeff venne catapultato sul volante e quando Tracey fu in grado di rimettere a fuoco la vista lo trovò ancora in quella posizione, con un rivolo di sangue che gli colava dall’angolo della bocca e le braccia che gli penzolavano ai lati.
«Jeff! Oh, Jeff, ti prego!»
Lo abbracciò, lo scrollò, ma non ottenne altro che di farlo scivolare di fianco, sul suo grembo. La nebbia cominciò a filtrare da una crepa del finestrino.
«Jeff, mi dispiace, mi dispiace.» Lo rizzò a sedere, aprì con un calcio la portiera e cadde in ginocchio sulla strada. Socchiudendo gli occhi per la pioggia, cercò di capire quanto fosse lontana da casa sua e dallo stallone.
Ma si vedeva soltanto la foschia provocata dalla pioggia e la sagoma scura della macchina che sfidava immobile l’imperversare del vento.
In piedi, ordinò a se stessa, e ci riuscì; ricomponiti, si disse, e ci riuscì, realizzando in quel momento che avevano superato di molto la sua strada.
Il viale era vuoto.
Passò dietro la macchina e, tenendosi i capelli lontani dagli occhi, si avvicinò alla portiera del guidatore. Il vento la spinse violentemente contro l’auto, causandole una fitta di dolore alla spalla che si diffuse a spirali giù per la schiena. Rimase senza fiato. La bocca aperta si stava riempiendo di pioggia. Sputò e tentò un’altra volta, gemendo.
Il viale era vuoto, a eccezione dello stallone che galoppava sulla corsia diretta a est, con il collo allungato e fiammate verdi, le orecchie all’indietro e gli occhi verdi. Le ondate di fumo riempivano l’aria e il rumore degli zoccoli sovrastava quello della pioggia.
Da che parte vado? Oh, Gesù, da che parte vado?
Non c’era via di scampo, ma poteva resistere ancora un po’. Sperava che Don capisse e che andasse a cercarla. E l’unico posto che in quel momento le venne in mente…
Con un urlo di terrore alla vista dell’animale che la stava caricando, e di disperazione per dover lasciare Jeff, lasciò che il vento la sospingesse attraverso la corsia del viale e oltrepassò il muro. Entrò nel parco dove metà delle luci erano state spente. Doveva correre verso il laghetto, dove l’acqua stava sbattendo rumorosamente sulle rive.
Correva.
Asciugandosi l’acqua dal viso, ignorando le pozzanghere che stavano diventando dei laghi, Don correva verso il centro della città. Forse Jeff l’aveva riaccompagnata a casa, ma non poteva esserne sicuro. Ormai Tracey doveva essersi accorta che la stava inseguendo e sicuramente non avrebbe mai permesso che la sua famiglia rimanesse colpita. E non c’erano altri posti dove poteva essere sicura che lui l’avrebbe seguita — doveva essere nel parco, in attesa, se era ancora viva. Fece una smorfia e si batté un pugno sullo stomaco. Non doveva pensare in quel modo, altrimenti era finita; doveva mantenere la certezza che fosse viva e che fosse riuscita a evitare lo stallone. Forse proprio tra gli alberi, dove l’animale non poteva aggirarsi con tanta facilità; forse oltre il muro, che avrebbe potuto ripararla. Ma lei era ancora viva. Doveva essere viva. Che senso avrebbe avuto farla assalire dalla sua creatura?
A casa, pensò, c’era suo padre e suo padre aveva una pistola. Tracey forse aveva pensato che con un’arma avrebbe potuto difendersi e, chissà, forse era andata a prenderne una nel ripostiglio di suo padre.
Oh, Cristo, pensò; prendi una decisione.
Basta, urlò poi, senza però muovere le labbra; basta, fermati, lei è Tracey e non intendevo farle del male!
Se il cavallo poteva sentire il suo dolore, sicuramente aveva sentito anche la sua preghiera; se era sotto il suo controllo, non poteva non obbedire. A meno che non avesse deciso di proteggerlo in ogni caso, seguendo le Regole nuove.
Oh, Cristo, pensò; prendi una maledettissima decisione.
Non stava correndo abbastanza velocemente. Non ce l’avrebbe mai fatta a raggiungere la macchina di Jeff, o il cavallo. Doveva scattare, doveva farcela, doveva sconfiggere il vento, qualsiasi decisione decidesse di prendere.
Stava andando troppo veloce e sarebbe scivolato, si sarebbe rotto una gamba, se non avesse prestato più attenzione; gli sarebbe mancato il fiato e sarebbe arrivato troppo tardi, se non manteneva il suo ritmo di sempre.
È una corsa, pensò; è una gara di corsa; eccoli là, stanno guardando fuori dal finestrino, stanno salutandomi, stanno sventolando le bandiere e suonano il claxon, mentre io corro con il vento, e non contro di lui, mi tuffo nelle pozzanghere con le scarpe da tennis, muovo le braccia contro la pioggia per mantenere il ritmo.
Stavano salutandolo perché lui era Don Boyd e ce l’avrebbe fatta.
Cadde a terra.
Atterrò sulle mani e sulle ginocchia, i jeans si stracciarono e cominciò a sanguinare. Gemette, imprecò e si rimise in piedi.
Correva.
In silenzio.
I finestrini erano vuoti, non lo stava guardando nessuno, non c’erano bandiere e urla d’incitamento, niente fotografi che lo aspettavano lungo la strada per riprenderlo durante la corsa; si domandò dove fossero finiti tutti ed evitò uno striscione della Festa di Ashford che era caduto in strada, salutando la sua agonia, proprio sul punto dove l’indomani ci sarebbe stata la parata.
Correva.
In silenzio.
Fu tentato di svoltare verso il quartiere dei Quintero, nel caso si fosse sbagliato, e scoppiò a piangere quando si rese conto che non aveva più tempo di fare una scelta. Il parco o la casa di Tracey, e se avesse commesso un errore qualcuno sarebbe morto.
Tracey si precipitò verso il laghetto evitando di guardarsi alle spalle per vedere se aveva perso terreno. L’ovale d’acqua apparve per un istante e poi scomparve di nuovo. La pioggia era color argento. Tentò di correre attorno al lago, ma il cemento ricoperto di foglie si era fatto troppo scivoloso e cadde su una spalla. Urlò. Si contorse. E salutò quasi con sollievo la massa scura che si era fermata su di lei. Almeno avrebbe offuscato quel dolore; almeno non si sarebbe nemmeno accorta di morire.
Ma la massa si sollevò e la pioggia cominciò a battere su di lei. Allungò una mano e guardò verso il sentiero.
Era là.
All’entrata, indifferente al temporale, con la testa e i fianchi che luccicavano come se fossero stati ricoperti di ghiaccio.
Ansimando contro il vento che le rubava il respiro, si rimise in piedi, lasciando che il vento la spingesse indietro. Gli alberi la stavano aspettando, ma non riusciva a distogliere lo sguardo dallo stallone che aveva cominciato a muoversi, sollevando lentamente le zampe, con la testa reclinata verso terra, mentre fiammate verdi si levavano dagli zoccoli.
Il parco.
Doveva essere nel parco, non sapeva perché. Passò davanti a Beacher, superò il teatro, e vide la macchina di Lichter contro un albero.
Rallentò, avvicinandosi al luogo dell’incidente, e scorse Jeff sul sedile anteriore, ma di Tracey non c’era traccia. Chiese perdono all’amico, toccando il finestrino come se stesse toccando la sua mano, poi svoltò di scatto attraversando la corsia e precipitandosi verso i cancelli.
Il laghetto era proprio di fronte a lui e cercò di chiamarla, ma non c’era rimasto niente nei polmoni, soltanto l’aria che carburava le sue gambe, le sue braccia, che aveva seccato la gola, e allora aprì la bocca alla ricerca di un altro respiro che gli avrebbe permesso di andare avanti.
Là non c’era nessuno.
Inciampò e rallentò quando si accorse che il tappeto di foglie avrebbe potuto farlo cadere, aprendo le braccia per ritrovare l’equilibrio.
Poi si fermò.
Si guardò alle spalle.
Urlò il nome di Tracey tenendo le mani a coppa attorno alla bocca, sbattendo gli occhi per liberarli dalla pioggia che cadeva dai rami e che gli bagnava la schiena, il petto, le scarpe da tennis, paralizzandolo dal freddo.
Poi cominciò a muoversi verso il prato, girandosi di tanto in tanto, nel caso l’avesse mancata. Urlava. La chiamava. Stava girando quando vide un guizzo di luce e la scorse distesa sul prato … vide lo stallone al suo fianco, che mostrava i denti e strusciava gli zoccoli sull’erba.
«No!» urlò. Tracey si voltò e lo vide.
«No!» urlò e lo stallone girò la testa dalla sua parte. Don inciampò e cominciò ad attraversare il prato fangoso, scuotendo la testa e allungando una mano verso la ragazza, senza però distogliere lo sguardo dal cavallo che stava retrocedendo.
fuoco verde e occhi verdi e la nebbia che si sollevava verso il temporale, mentre si avvicinava.
Tracey si rimise in piedi e cadde su di lui, ma Don la spinse da parte, perché lo stallone stava allungando il muso.
«No», disse, puntando un palmo in segno di arresto.
Il muso era sempre più in alto e le zampe posteriori erano leggermente piegate.
«No!» urlò, tendendo tutte e due le mani mentre il cavallo si sollevava da terra, con le zampe davanti che emanavano fiammate verdi attraverso la pioggia.
«No!» urlò. «No! Vattene via!»
Gli occhi verdi erano talmente socchiusi che quasi non si vedevano attraverso la nebbia.
«Non ho bisogno di te!» urlò Don, mentre lo stallone si faceva sempre più alto. «Non ho bisogno di te, maledizione! Lasciami, lasciami solo!»
Sempre più alto, sempre più nero.
«Maledizione! Maledizione! Lasciami solo!»
Don si inginocchiò, tenendo allungate le braccia, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime e sentiva il sangue scorrergli sulla faccia febbricitante e dolorante.
Tracey nascose il viso dietro la schiena del ragazzo.
Don continuava a urlare, agitando le braccia per scacciare la nebbia provocata dallo stallone che oscurava il fuoco verde, che nascondeva gli occhi verdi. La nebbia sparì all’improvviso, come una finestra spalancata dal vento.
Don arretrò trattenendo il respiro per il gelo mortale che aveva sfiorato, si girò e circondò con le braccia Tracey in segno di protezione. Lei si strinse a lui disperatamente ed entrambi si misero a osservare il temporale, mentre la pioggia penetrava la nebbia per cadere finalmente libera.
E poi si ritrovarono soli; lo stallone se n’era andato.
«Oh, Don», mormorò Tracey, mentre lui l’aiutava a rimettersi in piedi. «Oh, Dio, ho avuto tanta paura.»
«Sì», rispose lui e cominciò a trascinarla per il sentiero, tanto da costringerla a correre per mantenere il ritmo.
«Don! Don, che cosa…»
Lui non rispose. La guardò serio per un istante, poi cominciò a correre, ma facendo attenzione a non lasciarla troppo indietro. Svoltò a sinistra, verso casa, e Tracey lo seguì tenendosi una mano sulla spalla ferita. Non fece domande e lui ne fu contento, perché non era sicuro di quello che stava facendo.
La polizia se n’era andata. I giardini e le case circostanti erano al buio. Si sorprese alla vista del pezzo di compensato inchiodato alla finestra, ma non si fermò per guardare più da vicino. Fece di corsa gli scalini e afferrò la maniglia della porta.
«Oh, merda!» urlò picchiando un pugno sulla porta. «Maledizione, è chiusa a chiave.» Si girò e ridiscese, esitando sul vialetto, prima di trascinare Tracey nel garage. Qui, la porta era aperta, allora entrò in cucina e si spinse fino all’ingresso. Non diede nemmeno un’occhiata al disastro del salotto, non si accorse del gelo che impregnava le pareti, e si precipitò su per le scale in camera sua.
Tracey lo seguì, con gli occhi pieni di dolore.
Don accese la luce e guardò il poster sulla scrivania. «Oh, Dio», disse.
Gli alberi, il sentiero, ed eccolo là, lo stallone immortalato nella corsa.
Mi dispiace, pensò; mi dispiace.
Lo staccò dalla parete, lo arrotolò in una palla e si precipitò di nuovo giù per le scale, verso la cucina. Dopo due inutili tentativi, riuscì ad accendere il fornello e mise il poster sulla fiamma finché non lo vide incendiarsi.
«Don? Don, aiutami.»
Quando sentì il fuoco che si stava avvicinando al polso, lasciò cadere la carta in fiamme nel lavandino e rimase a guardare che bruciasse per bene, che scoppiettasse, che si annerisse, riducendosi in polvere nera.
«Don, ti prego, aiutami.»
«Sì», disse. «Don, il Superman, sta per salvarti.»