124186.fb2 La carezza della paura - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 22

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21

Una fredda serata di fine ottobre, domenica, tempo sereno. La luna era chiazzata da ombre grigiastre e le stelle erano troppo brillanti per essere offuscate dalle luci sottostanti; di tanto in tanto soffiava il freddo alito di un debole venticello che trasportava l’eco dei suoni notturni attraverso gli alberi, spingeva le foglie morte nei tombini, faceva rotolare le ghiande sui cornicioni e schiaffeggiava le mani e i visi della gente, in una rigida promessa d’inverno. Una fredda serata di fine ottobre, domenica. Buio.

…e allora il ragazzo, che non era così cattivo come lo credeva la gente, a causa di tutto ciò che aveva fatto, alzò lo sguardo verso l’albero…

«Don, per l’amore del cielo, mi vuoi lasciare in pace per un po’? Io non sono uno dei tuoi stupidi bambini, lo sai. Non credo alle favole.»

Lui rise sommessamente al telefono e si appiattì contro il muro, allungando le gambe, che andarono a puntellarsi contro la scala. Le piante dei piedi nudi assaporarono la dolce sensazione di freddo sul legno. «Pensavo che ti piacessero le mie storie. Pensavo che avessi bisogno di sentire qualcosa che distogliesse la tua mente dai cattivi pensieri.»

Tracey emise un lamento. «Sto soffrendo, veterinario, te ne ricordi? Sono una paziente dell’unico ospedale al mondo che serva cibo scartato dalla Convenzione di Ginevra nella seconda guerra mondiale. E non voglio essere torturata.»

«Torturata?» ripeté lui, alzando la voce come se fosse stato insultato. «Non riesco a ricordare che tu abbia mai pensato a me in questi termini.»

«Non mi riferivo a te», rispose lei dolcemente, «ma a quello che dici.»

«Lo so», disse lui, altrettanto dolcemente. «Stavo scherzando.»

«Oh.» Una pausa, poi lei si costrinse a ridere. «Capisco. Stavi scherzando.»

L’acqua scorreva in cucina. Alzò lo sguardo e notò che suo padre era al lavandino, con l’asciugamano sulle spalle e una sigaretta spenta che gli ciondolava dalla bocca. Era la stessa scena che vedeva ormai da tre giorni.

«Be’, ascolta», disse Don.

…e vide il corvo che sedeva sul ramo più alto dell’albero più grande del mondo. Un corvo gigante. Il più grande corvo che avesse mai visto in vita sua. E il ragazzo si rese conto, immediatamente, che quel corvo sarebbe stato l’unico amico che possedeva al mondo. Poi si mise a parlare con il corvo e disse…

«Basta», pregò Tracey, ridendo. Poi, improvvisamente seria: «Ti prego, Don. Basta così. Me l’hai promesso».

Lui sospirò e annuì. «Va bene.»

«Ti senti bene?»

«Sono io che dovrei farti questa domanda, non trovi?»

«Lo sai come sto io. Voglio sapere come stai tu.»

Stava bene, pensò, tutto considerato. Dopo aver accompagnato Tracey in ospedale con la station wagon, lottando contro la pioggia che imperversava, aveva aspettato che portassero anche Jeff. Trauma cranico e qualche emorragia interna, gli avevano detto, niente di più, e la sua dichiarazione alla polizia era stata accettata senza fare altre domande — era andato a fare una passeggiata dopo aver lasciato suo padre e aveva notato l’incidente, era corso a casa per telefonare a qualcuno e aveva incontrato Tracey, che vagava in stato confusionale. Aveva dedotto che fossero slittati per via del temporale, aveva detto.

Sua madre era ancora in stato di incoscienza e il dottor Naugle gli aveva raccomandato suo padre. Doveva dormire, doveva mangiare, così sarebbe stato pronto quando sua madre si fosse ripresa.

«Don, io devo andare. Sono arrivate le guardie con le pillole.»

«Va bene», disse Don. «Tornerò domani.»

Riappesero, poi lui andò in cucina, osservò in silenzio suo padre per qualche minuto e poi salì in camera sua. Era esausto, si lasciò cadere sul letto e si addormentò quasi istantaneamente, svegliandosi solo a mezzanotte per svestirsi e tornare a dormire.

A scuola, lunedì, non parlò con nessuno, evitando gli occhi imbarazzati di tutti, saltando la lezione di biologia tenuta dal supplente. Andò a correre per un’ora, sentendosi stranamente distaccato dal rumore che i suoi passi facevano sul percorso della pista. Era come se fosse sospeso in un tunnel, alla ricerca di qualcuno che conosceva, ma che non riusciva a trovare. Poi tornò a casa per preparare la cena a suo padre. Norman mangiò poco, per via di tutte le sigarette che fumava in quei giorni, poi spostò da parte il piatto e se ne andò dalla stanza senza dire una parola.

Don non lo seguì. Pulì i piatti, li asciugò e li ripose nell’armadio, poi andò di sopra a cambiarsi per prepararsi alla visita serale a sua madre, a Jeff e a Tracey. Quando ridiscese, Norman era sulla porta e faceva tintinnare nervosamente le chiavi della macchina a noleggio.

«Sai», disse, mentre guidava sulle strade bagnate, «mi sembri tremendamente calmo in questi giorni.»

Don si strinse nelle spalle.

«E ho l’impressione che tu stia trascorrendo anche troppo tempo con quella ragazza.»

«È un’amica. Come Jeff.»

«E tua madre è tua madre. Credo che potrebbe aiutarla se restassi un po’ di più in camera sua.»

«Okay.»

Poteva sentire lo sguardo di suo padre, non proprio infuriato, ma non gliene importava niente. Stava cercando di trovare una soluzione per tutto, ma era preoccupato perché non riusciva a decidersi se era il caso di sentirsi in colpa o meno. Temeva che quella notte, nel parco, gli fosse successo qualcosa e temeva di arrivare a raccontare tutto quanto, finendo con l’essere considerato un caso interessante per gli strizzacervelli. Dal canto suo, Norman aveva trascorso un sacco di tempo al telefono — con il sindaco, con gli altri membri del consiglio e con il dottor Naugle. Don si vergognava di pensare che Norman era più preoccupato per il sindaco.

Martedì Jeff venne dimesso e si fece vedere dopo le lezioni, mentre lui stava correndo. Ci furono delle domande, ma lui non rispose e Don smise di preoccuparsi su quello che l’amico poteva aver visto. Se anche avesse visto qualcosa, poteva essere spiegato come un effetto conseguente all’incidente.

Mercoledì decise di non andare in pista e si incamminò verso casa subito dopo la fine delle lezioni. Doveva fare dei compiti e suo padre sarebbe andato da solo a trovare sua madre.

«Ehi, straniero!»

Si fermò e si voltò, oscillando sulle gambe quando vide Chris correre verso di lui, con i capelli sciolti e la camicia fuori dai pantaloni.

«Ciao», la salutò.

«Dio, sei diventato un fantasma, lo sai?» disse. «Dove ti sei nascosto?»

Fece un gesto in direzione di casa, verso gli operai che erano sulla scala per sistemare la finestra. «Pulisco, vado a trovare mia madre … capisci.»

«Già. Ehi, mi dispiace per quello che è successo.»

Gli si avvicinò e Don poté sentire il suo profumo.

«È vero», chiese, «che tuo padre se ne sta andando?»

«Sì. Se ne va davvero. Con tutti quei problemi, e mia madre e tutto il resto, credo che abbia bisogno di un po’ di tempo, capisci?»

«Ma certo che capisco», rispose lei. «Ha veramente intenzione di farsi eleggere sindaco?»

Don si strinse nelle spalle. «Non lo so. Ci sta pensando, ma ho la sensazione che tutto sia cambiato.» Poi la guardò negli occhi e si accorse che mancava qualche cosa. La sua espressione era amichevole, il suo tono di voce era gentile, ma mancava qualche cosa e non riusciva a capire che cosa.

«Ehi, ehm, senti», disse lui infine. «Il fine settimana sarà Halloween e, be’, ci siamo un po’ persi di vista la settimana scorsa per via di quello che è successo. Mi stavo chiedendo, cioè, io…»

Sobbalzò quando passò una macchina a trombe spiegate. Chris scoppiò a ridere, gli sfiorò il braccio e si incamminò verso la macchina di Brian.

«Ehi, Paperino, come se la cava tua madre?» domandò Brian, mentre Chris apriva la portiera per salire.

«Sta bene», rispose lui blandamente.

«Bene. Portale i miei saluti.» Gli puntò un dito facendo il gesto di una pistola e mise in moto, abbracciando Chris mentre partiva a tutto gas. Ma Don fece in tempo a sentirlo dire: «Qua». E Chris gli fece eco con: «Qua, qua», e si misero a ridere.

«Che cosa?» disse. «Di che cosa stai parlando?»

«Be’, senti», rispose Norman. «Non ho tempo per stare a discutere con te. Ho fatto i conti e, tra le spese mediche e la casa, non ci sono abbastanza soldi. Mi dispiace, ma non posso andare a rubare e non si possono spendere i soldi se non si hanno in tasca. Dovrai darti da fare per cercare qualcosa di più vicino a casa, nei college statali, che costano meno. E poi, vista la media dei tuoi voti, potrai considerarti fortunato se riuscirai a diplomarti.»

Tracey era seduta sul divano del salotto, mentre sua madre sorvegliava educatamente. Quando le raccontò ciò che gli aveva detto suo padre, lei lo compianse e gli consigliò di darsi da fare per una borsa di studio.

Don non ci aveva pensato. La ringraziò. Avrebbe voluto baciarla, ma sua madre non si allontanò neanche per un istante.

Nel bar, Jeff si lamentò e rischiò di rovesciare tutto il vassoio addosso a Don. «Ma che cosa stai combinando con Chris, eh? Pensavo che tu e Tracey foste … sai.»

«Lo siamo, credo», ribatté lui. «Non lo so.»

«Ma non hai voglia di sentirti legato, eh?» Don alzò lo sguardo per l’amarezza che aveva percepito nella voce di Jeff. «No, non è per questo.»

«Già, proprio così», rispose Jeff e gli puntò una forchetta sul petto. «Be’, ascolta, amico. Tracey Quintero è una grande signora e cerca di non farla star male. Mi hai sentito, amico? Sarà meglio che tu stia molto attento a non ferirla, perché altrimenti dovrai vedertela con me.»

Don si sforzò di sorridere. «Ehi, è una minaccia?»

Jeff non rispose al sorriso. «Prendila come vuoi.»

Gli mancò il respiro quando si rese conto che anche Jeff era innamorato di Tracey.

Venerdì andò a trovare sua madre con suo padre. La guardarono respirare, controllarono la flebo, osservarono tutti gli strumenti che registravano le sue condizioni.

Alle dieci meno cinque si svegliò, vide suo figlio e si mise a urlare.

La stanza era buia.

Seduto sulla sedia della scrivania, dando le spalle al muro, poteva vederli sugli scaffali e sui poster — gli elefanti, i falchi, le linci rosse, la pantera nella giungla che si lecca la zampa.

Era una notte fredda.

Da basso, sentì suo padre che andava a rispondere alla porta e offriva pacchettini di caramelle avvolti in tessuti colorati ai ragazzini che scorrazzavano in giro per il quartiere vestiti con i costumi fatti dai genitori.

Il giorno prima sua madre si era svegliata.

Oggi era rimasto a casa, seduto alla scrivania, nel tentativo di prendere una decisione e, durante un giro attorno alla casa per sgranchirsi la schiena, gli era capitato di guardare fuori dalla finestra laterale dopo il tramonto e aveva visto suo padre intento a parlare con Chris. Sembrava che stessero discutendo, e lui aveva avuto l’istinto di correre fuori per dirle di non far arrabbiare suo padre, non in un momento come quello, per l’amor del cielo, altrimenti l’avrebbe rimpianto per tutta la vita.

Poi Chris aveva spostato una ciocca di capelli sulla spalla sinistra e si era diretta verso il suo giardino. Norman, dopo una breve esitazione, l’aveva seguita, lei si era voltata, gli aveva fatto una smorfia e aveva spinto in fuori il petto.

Norman non era tornato che un’ora dopo.

Harry Falcone e Chris Snowden, e il maledetto Sam era morto.

Non era cambiato niente.

Rosso.

Erano morte delle persone, erano morti dei ragazzi, ma non era cambiato niente.

Rosso annebbiato, come se stesse guardando attraverso una tenda color cremisi.

Andò a parlare al telefono con Tracey e trovò il coraggio di dirle che l’amava, ed era talmente imbarazzato che non le chiese il motivo per cui lei aveva risposto che anche lui le piaceva, ma che ancora non era abbastanza sicura di amarlo. Allora, cambiò argomento: parlarono di scuola, di Jeff, del loro stato di salute, del tempo e delle vacanze che si avvicinavano. E quando riappesero, si voltò verso le scale senza vedere niente.

Dopo qualche minuto sospirò e si strofinò gli occhi.

Aveva torto nel pensare che stesse bene, ormai; aveva torto nel dire che non era sicuro di amarlo. Ma certo. L’aveva notato nella voce di Jeff, e poco prima anche nella sua — aveva paura di lui, ormai, ma non aveva paura di Jeff.

Per cui, come poteva star bene, se non era cambiato niente, nonostante quello che aveva fatto?

Si fermò in cucina a bere una lattina di soda, andò nell’ingresso e si mise a fissare il telefono per cinque minuti prima di decidersi a comporre il numero di Tracey. Lei fu sorpresa di risentire la sua voce e si dispiacque di non poter uscire con lui durante il fine settimana perché aveva già promesso a Jeff di dargli una dimostrazione degli interrogatori intensivi di suo padre. Si mise a ridere. Anche lui si mise a ridere. Tracey gli suggerì di chiamare Jeff e di dargli qualche informazione in merito. Don continuò a ridere e rispose che ci avrebbe pensato.

Poi riappese.

Se ne andò in camera sua, dove li maledì in silenzio. In che cosa aveva sbagliato? Che errore poteva aver commesso?

Doveva cambiare. Doveva cambiare se la voleva portare via a Jeff; doveva cambiare se voleva che il mondo tornasse a girare come voleva lui.

«No», disse allora.

La verità, pensò mentre sentiva i passi di suo padre che arrancavano su per le scale, era che non doveva cambiare lui, non doveva ammettere di avere i problemi che avevano tutti quanti. Lo sapeva bene. Non era uno stupido, lo sapeva bene.

Ma, al contrario di chiunque altro, sapeva di poter far qualcosa per risolvere la sua situazione.

Norman bussò alla sua porta e la aprì, emise un verso e picchiò sull’interruttore della parete che accese la lampada della scrivania.

«Gesù, sei diventato una talpa?»

«Stavo pensando.»

«Oh, bene. È quasi ora. Sto per andare a trovare tua madre. Tu stai attento alla porta e va’ a offrire le caramelle. Se credi che sia il caso, metti pure del veleno nelle mele.»

Don sorrise per dovere e suo padre lo salutò, poi diede un’occhiata alla stanza e scosse il capo.

«Forse un giorno capirò tutto questo», disse facendo un altro passo nella stanza ed esaminando con attenzione tutti gli scaffali. «Forse mi sono sbagliato, figliolo. Forse … be’, forse mi sono sbagliato.» Alzò le spalle e si grattò la testa. «Quando tua madre si sentirà meglio, forse noi due dovremo parlare un po’. Credo che sia meglio tardi che mai, eh? Che cosa ne dici?»

Don annuì e accettò di stringere la mano che gli era stata tesa, e non si lamentò quando Norman gli mise una mano dietro la testa e se la tirò verso di sé, avvicinandosi a quello che doveva essere un abbraccio.

E dopo che se ne fu andato, Donald rimase a fissare la scrivania finché la luna non riempì la stanza, rimase a fissare la scrivania finché il rosso non svanì del tutto.

Poi sorrise e si alzò in piedi.

No, papà, pensò; meglio tardi che mai, non è meglio. Non è affatto meglio. E si sporse sul letto per prendere il poster della giungla deserta dalla parete.

E quando scrutò dalla finestra, sussurrò dove sei? alle ombre furtive che stavano in giardino, più scure di qualsiasi ombra, in attesa del suo richiamo.

FINE