124186.fb2 La carezza della paura - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 5

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Le immagini fluttuavano nella nebbiolina rossastra: una lince nascosta in alto, fra gli alberi, con i denti scintillanti, le unghie simili a lame di acciaio alla ricerca di una gola da afferrare; un leopardo appostato nell’alta erba della savana in una torrida giornata estiva, con la preda appena cacciata e i muscoli delle zampe guizzanti per la tensione; un falco che afferra una lepre da terra; un cavallo nero che fa tremare il suolo galoppando sulla strada, con il fuoco che gli esce dalle narici e brucia la terra sottostante.

Immagini che gli fecero stringere i pugni, mentre le unghie si conficcavano nei palmi scavando crateri e il petto gli si alzava e abbassava con una rabbia difficile da contenere.

Immagini: la palla da basket in lenta progressione che lo colpiva con violenza al volto, le ginocchia che gli cedevano, le lacrime che colavano dagli occhi, il sangue che macchiava il pavimento della palestra: il ruggito di sorpresa, l’improvviso silenzio, la risata. La risata finché l’insegnante di ginnastica vide il sangue, la risata nel corridoio, mentre lo portavano quasi di peso al primo piano, e la smorfia di Falcone, sorpreso sulla porta a flirtare con Chris.

L’unica a non ridere fu l’infermiera.

Immagini: la pallacanestro, il leopardo, la palestra, il falco, il corridoio, le scale, il cavallo che aspettava nell’ombra.

Emise un lamento, girò la testa dall’altra parte e rimase disteso sul lettino dell’infermeria per un quarto d’ora prima di riuscire ad alzarsi di nuovo in piedi. Aveva le narici piene di cotone e un lancinante pizzicore gli attraversava la guancia destra. Quando finalmente riuscì a sedersi, si guardò allo specchio che stava sopra il lavandino: vide l’inizio di uno stupendo e grottesco occhio nero.

«Merda», disse.

Afferrando un fazzoletto di carta dal distributore automatico appeso al muro, si pulì la faccia sporca di sangue rappreso e cercò di pettinarsi con le dita. L’infermiera se n’era andata. Si guardò attorno, controllò la stanza, poi tolse il cotone con estrema cautela. Tirò su con il naso e sentì il sapore del sangue; tirò su ancora e si tamponò il naso con un fazzoletto bagnato, poi aspettò senza respirare fino a quando fu certo di non rimettersi a sanguinare. Trovò un foglio per i permessi speciali, lo compilò e lo firmò. Guardando l’orologio, si era reso conto che avrebbe ancora fatto in tempo a seguire l’ultima lezione, zoologia, al terzo piano. Il corridoio era vuoto: cercò di fare in fretta senza tuttavia correre, arrivò fino alle scale e salì i gradini due alla volta, con la testa bassa, respirando pesantemente con la bocca.

Qualcuno, più di una persona, scendeva dal piano di sopra.

Ignorò tutti, volgendo altrove lo sguardo per evitare che notassero quanto era successo e mormorando una bestemmia quando lo urtarono con forza facendolo girare su se stesso e mettendogli in mano qualcosa. Urlò qualche parola in segno di protesta e afferrò la balaustra in ferro, finendo seduto sui gradini. Gli girava la testa e aveva la nausea: strinse i denti fino a quando si sentì un po’ meglio. Rimase così per un minuto cercando di recuperare le forze, poi si alzò in piedi; quando arrivò alla porta, si scontrò con il professor Hedley.

«È così!» esclamò il professore con rabbia.

Don aggrottò le sopracciglia. «Signore?»

Hedley tese una mano, in attesa, poi gli afferrò un braccio, lo tirò a sé, prese qualcosa che aveva in mano e glielo mise davanti agli occhi con fare accusatore.

«Scommetto che non l’hai mai vista prima, vero, Boyd?»

Era una boccetta senza tappo e quando quell’uomo massiccio iniziò a sventolargliela sotto il naso, si rese conto che parte della nausea che avvertiva, era dovuta alla puzza che emanava da quella boccetta. Si coprì la bocca e girò la testa.

«Non sei stato abbastanza furbo, eh, ragazzo?»

«Io … che cosa?» Guardò alle spalle dell’uomo e vide una dozzina di ragazzi fermi in piedi. Alcuni erano appoggiati al muro e chiacchieravano a bassa voce, altri si tenevano un fazzoletto premuto contro il naso. Qualcuno lo osservava e faceva smorfie, gli altri si limitavano a guardarlo.

«Hai fatto proprio una cosa stupida, Boyd.»

«Fatto cosa?» Il naso gli faceva male. Aveva un mal di testa che gli arrivava fin dietro il collo. Indicò la boccetta. «Quella? Io non ho fatto niente.»

«E allora chi è stato? Il fantasma di Samuel Ashford?»

La testa gli faceva male; Cristo se gli faceva male.

«Allora, Boyd?»

Cercò di spiegargli l’incidente: stava salendo le scale quando qualcuno — due o tre persone, non lo sapeva con esattezza, non aveva visto — quando qualcuno era passato correndo e gli aveva messo in mano quella boccetta.

Hedley buttò indietro la testa e la appoggiò di lato.

«Ma io non ho fatto niente!»

«Signor Boyd, abbassi la voce.»

«Ma non sono stato io!»

Hedley afferrò di nuovo il suo braccio e Don si liberò dalla stretta. «Non sono stato io, dannazione!» disse in tono cupo.

Hedley stava per replicare, quando un mormorio lo fece voltare: Norman Boyd stava uscendo dalla sua classe. Il preside si fermò a parlare con parecchi studenti, mandandoli poi via, probabilmente in infermeria, con una pacca sulle spalle. Quando fu abbastanza vicino, Hedley, incurante della muta protesta di Don, spiegò che qualcuno aveva aperto la porta del laboratorio durante un compito in classe, lasciando cadere sul pavimento una boccetta di solfuro di idrogeno.

«Proveniente da questa», disse, indicando la boccetta con aria drammatica, «che ho trovato in mano a suo figlio, lassù in cima alle scale.»

Boyd si schiarì la voce e alzò un sopracciglio.

Don gli raccontò tutta la storia, parlando velocemente e mettendosi sulla difensiva, e quando ebbe finito fissò suo padre con un’aria della quale non si sarebbe mai creduto capace.

Boyd prese la boccetta, l’annusò e fece una smorfia. «Nel mio ufficio.»

«Ma papà…»

«Fai come ti ho detto. Vai nel mio ufficio.»

Don guardò il professore di chimica, che stava ridendo con aria compiaciuta, guardò i ragazzi ancora in piedi, che continuavano a bisbigliare e a fare smorfie. Quell’odore di uova marce lo faceva star male. Boyd chiuse la boccetta con il fazzoletto e ripeté l’ordine per la terza volta.

«D’accordo», mormorò, girandosi e andandosene.

«Ehi, Don», gli urlò qualcuno mentre usciva, «digli che è stato il corvo gigante!»

Norman era seduto sulla sua sedia, con una mano sulla guancia e un occhio chiuso, come se stesse prendendo la mira con un’arma invisibile. C’erano un mucchio di schede da compilare, se solo avesse trovato il tempo necessario; la scrivania era piena di lettere in attesa di una risposta e di documenti che non era ancora riuscito a esaminare. Appoggiata sul tampone di carta assorbente, c’era la boccetta di Adam Hedley ancora coperta dal fazzoletto penzolante.

Allungò un dito per toccarla, darle un colpetto, rigirarla, poi la mano tornò a coprire l’altra guancia.

Norm, ragazzo mio, pensò, sarai anche un uomo intelligente, ma sei uno stupido figlio di puttana.

Un brivido gli attraversò la parte posteriore del collo e l’uomo rabbrividì con violenza nel tentativo di farlo cessare, poi alzò lo sguardo e notò che l’ufficio era scuro. Diede un’occhiata oltre la finestra, ed emise un lamento; il sole era ormai tramontato e i lampioni erano accesi, lungo la via della scuola il traffico era composto da gente che tornava a casa dal lavoro o dalla spesa.

Era potenzialmente solo nell’edificio. Soltanto lui nel suo ufficio, mentre i custodi scopavano i corridoi e l’auditorio, lavavano le lavagne e probabilmente rubavano qualcosa dai magazzini del seminterrato.

«Stupido», mormorò fissando la boccetta. «Stupido e poi ancora stupido; meriteresti una bella lezione.»

Dio santo, come poteva credere che fosse stato davvero Don a lanciare quella boccetta nell’aula di Hedley? Come poteva crederlo? Ma forse stava soltanto cercando di convincersi che il ragazzo era davvero normale e faceva cose normali come tutti i ragazzi normali.

Era questo il problema — pensare che Don fosse diverso. Ma non lo era. Era perfettamente a posto, a volte in modo snervante, e, come tutti i ragazzi, aveva qualche strana idea in testa. E poi c’era Norman Boyd che, dimenticandosi per un attimo di tutto, giocava a recitare la parte del Re delle Montagne, del Signore delle Colline, e dettava le leggi come se fosse stato Mosè.

Come aveva fatto suo padre.

Per la prima volta dopo molto tempo, avrebbe voluto che Joyce fosse lì con lui, per ricordargli che non era Wallace Boyd, che non lavorava in fabbrica e che Don non era quel Norman che lottava per uscire dai bassifondi. Con un gemito silenzioso, ripensò a quando Joyce gli aveva detto di aspettare un bambino per la prima volta. Aveva giurato su ciò che aveva di più caro che lui avrebbe fatto di meglio, che sarebbe stato presente — un porto sicuro per le tempeste infantili, una solida roccia alla quale aggrapparsi quando il vento si faceva troppo forte. Un padre: niente di più e niente di meno.

Si coprì il viso con le mani e tirò un profondo sospiro. Si trattava della pressione, ecco cos’era. Dopo la morte di Sam, aveva iniziato ad avvertire quella pressione; non sapeva né come né perché, ma c’era. E lo stava aspettando. Gli bisbigliava che Donald doveva essere protetto a qualsiasi costo. E quando si rese conto della futilità e dell’irrazionalità di quella pressione, non si accorse di aver preso la direzione opposta rispetto alla vita del ragazzo.

Si trattava della pressione.

Aveva bisogno di un attimo di respiro. Aveva bisogno che Falcone e i suoi insegnanti cedessero e ponessero termine allo sciopero. A quel punto avrebbe potuto metterli in disparte, e mettere in disparte anche il consiglio, e la stampa, e il sindaco, tutto quel dannato mondo lo avrebbe lasciato finalmente in pace e avrebbe potuto riprendere i contatti con suo figlio.

Era già scoppiato due volte: prima, per l’annuncio di Don circa il suo desiderio di diventare veterinario, e poi quel pomeriggio.

Due volte, e improvvisamente ebbe una grande paura.

Sua moglie si stava disinnamorando di lui.

Che cosa sarebbe successo se anche suo figlio avesse fatto lo stesso?

…e poi il corvo si rese conto di quanto stesse male il ragazzo, e allora volò via dall’albero, nella notte…

Il parco era deserto. Una leggera brezza si insinuava fra i rami, facendo tremare le poche foglie rimaste e facendole poi cadere a terra nell’oscurità, attraverso i fasci di luce bianca e fino al sentiero, fino allo stagno, in pigre capriole, per poi fermarle come isole galleggianti sulla superficie.

Non c’era nessuno.

Si udiva solo il rumore soffocato del traffico.

…e trovò il re cattivo solo nella sua stanza. Allora entrò dalla finestra e, prima che il re potesse svegliarsi e difendersi, il corvo gigante gli aveva già strappato entrambi gli occhi!

L’unica luce era concentrata sullo specchio ovale. Una luce fioca, senza calore, senza peso, che lo avvolse mentre, seduto su una panchina con lo sguardo fisso sull’acqua, scrollava le spalle per scacciare il freddo.

Teneva gli occhi chiusi.

Le labbra si muovevano appena, come se stessero tremando.

Poi il corvo gigante entrò nel castello e trovò il fratello del re cattivo, uomo altrettanto cattivo e meschino. Allora il corvo gigante gli lacerò la gola con un solo colpo dei suoi potenti artigli.

Le case che stavano di fronte al parco erano nascoste dagli alberi e dai prati, e il viale che lo attraversava sul lato sud era troppo lontano per essere importante. Era solo, nessuno gli avrebbe dato fastidio, a meno che non fosse rimasto lì fino al sorgere dell’alba; in una notte simile, nemmeno un barbone avrebbe cercato di dormire su quelle panchine di legno. Era solo. Teneva le mani strette in mezzo alle ginocchia e aveva una giacca decisamente troppo leggera per quel calo improvviso di temperatura che aveva raffreddato l’aria e fatto gelare le foglie.

Emise un gemito: si strinse ancor più nelle spalle.

Aveva aspettato quasi un’ora nell’ufficio di suo padre, prima che questi si decidesse ad arrivare. Don si era alzato in piedi di scatto, ma gli era stato detto di restare seduto. Un’occhiata nervosa ai fogli, l’ordine di non essere interrotto, poi era iniziata la ramanzina: suo padre gli aveva parlato dell’immagine che entrambi dovevano mantenere, nei confronti del corpo docenti e degli studenti. Norman aveva sventolato la boccetta come se fosse sul punto di lanciarla. Don gli aveva spiegato per la seconda volta che qualcuno — ora era sicuro che si trattasse di Pratt — gli aveva messo in mano la boccetta mentre scendeva le scale. Mentre parlava la faccia gli faceva male e lui continuava a toccarsi una guancia per assicurarsi che non si fosse gonfiata. Suo padre aveva capito la situazione e si era mostrato dispiaciuto per la ferita, ma si era rifiutato di perdonarlo completamente anche se si era lasciato commuovere al punto da credere Brian capace di un tale scherzo.

«Non ho detto che è stato lui», aveva ritrattato improvvisamente Don, temendo che suo padre volesse chiamare il ragazzo e iniziare senza volere una guerra. «Mi è soltanto parso che fosse lui.»

Norman sembrava dubbioso e Don non riusciva a capire. In tutta la vita non aveva mai fatto nulla di simile; gli avevano detto moltissime volte che non doveva approfittare della sua posizione — qualunque questa fosse — ma nemmeno comportarsi come se fosse stato un ragazzo qualsiasi. Non lo era. Il destino lo aveva reso speciale, con problemi speciali. E Norman si aspettava molto da lui, non certo che finisse così.

«Finire così come?» Si era alzato di scatto in piedi e si era avvicinato alla scrivania. «Papà, perché non vuoi ascoltarmi? Non sono stato io!»

Norman lo aveva fissato senza dire una parola.

«D’accordo, ho lasciato l’infermeria quando non avrei dovuto, questo è vero, e mi sono firmato la giustificazione da solo. D’accordo, ho sbagliato. Okay. Ma non ho tirato quell’affare nell’aula del signor Hedley!»

«Donald», aveva detto suo padre con perfetto autocontrollo, «non tollero che tu mi parli in questo modo, specialmente qui dentro.»

«Oh, Cristo!» aveva esclamato lui girandosi.

«E smettila di bestemmiare. Chiaro?»

Don si era arreso. Sospeso tra fiducia e sospetto, con la ripresa dei soliti discorsi triti e ritriti, Don si era arreso, non gliene importava più nulla, e nemmeno si era preoccupato di chiedere se i sei giorni di punizione sarebbero cominciati subito il giorno seguente.

«Puoi considerarti fortunato», gli aveva detto Norman, accompagnandolo fuori dalla porta mentre suonava l’ultima campanella. «La maggior parte degli altri ragazzi sarebbe stata sospesa.»

«E allora sospendimi!» aveva risposto sorpreso di cogliere un tono di preghiera nella sua voce. «Per favore, sospendimi.»

«Non fare lo spiritoso, figliolo, o lo farò davvero.»

Don si era scostato dalla mano che lo stava guidando lungo il bancone, ignorando le occhiate curiose delle cinque segretarie.

«Non hai capito», aveva detto uscendo dalla porta. «Proprio non hai capito.»

Aveva raccolto i suoi libri e se n’era andato a casa. Sua madre non sarebbe stata di ritorno prima di un’ora e suo padre sarebbe rimasto alla Sud fino all’ora di cena. Aveva quindi tempo per cambiarsi i vestiti, mettersi un paio di jeans, prepararsi un panino con burro di arachidi e andare a fare due passi.

Poco prima che si facesse buio era entrato nel parco.

…e allora il corvo…

Si fermò e alzò la testa.

Non riusciva a vedere le luci che circondavano lo stagno ovale, ma era sicuro di avere udito qualcuno avvicinarsi da quella direzione. Rimase in ascolto, con le mani strette alle ginocchia: probabilmente si trattava di sua madre, che era venuta per riportarlo a casa, sgridarlo e fargli poi mangiare una fondina di minestra oppure bere del latte con il cacao. Quando non udì più quel rumore, si convinse che quello che aveva udito non era stato rumore di passi.

Lo udì di nuovo.

Proveniva da sinistra, laggiù nell’oscurità.

Un solo suono, acuto sul marciapiede, come di ferro che colpisce ferro, ma in modo estremamente delicato.

Senza guardarsi attorno, chiuse la cerniera del giubbotto e si alzò in piedi, lentamente, muovendosi furtivamente verso lo stagno, per riuscire a vedere attraverso quelle luci.

Di nuovo. Acuto. Ferro contro ferro.

Non era certo sua madre; era qualcun altro.

«Ehi, Jeff, sei tu?» urlò, cacciandosi le mani in tasca.

Ferro contro ferro. Un suono sordo.

«Jeff?»

Si alzò il vento, sparpagliando le foglie ai suoi piedi e facendogli girare la testa e chiudere gli occhi. Il laghetto si increspò, si spezzò un ramoscello e qualcosa di piccolo e leggero si mosse rapidamente su un tronco.

Deglutendo e guardando una volta verso l’uscita, camminò attorno al laghetto e poi fece qualche passo lungo il sentiero.

Con la luce alle spalle, la sua ombra si allungava fino al palo della luce, una quindicina di metri più avanti. Ma non riuscì a vedere nulla che avrebbe potuto produrre il suono che aveva udito. Aggrottò le sopracciglia, più per il nervosismo che per la perplessità, e continuò a camminare, con cautela, tenendosi su un lato e sobbalzando ogni volta che il gomito sfiorava un arbusto.

Ferro contro ferro, sordo, un’eco.

Iniziò a chiamare di nuovo, poi cambiò idea e fece un goffo dietro-front. Qualsiasi cosa fosse, non voleva essere vista, e questo gli andava bene: anzi gli andava benissimo, era perfetto. Accelerò il passo, tenendo le spalle curve, con le guance infuocate, mentre il vento, incalzante, lo costringeva ad andare sempre più in fretta e le punte delle orecchie gli bruciavano. Le scarpe facevano rumore, sbattendo contro le foglie, e la sua ombra si era fatta più debole, nonostante la luce dei lampioni. Si voltò soltanto una volta, ma non vide altro che i lampioni riflessi nel laghetto ricoperto di ghiaccio, simile a un bianco palcoscenico scintillante.

Ferro contro ferro.

Corse gli ultimi metri, scivolò sul marciapiede e rimase a bocca aperta di fronte al traffico del viale. L’aria era più calda e lui respirò profondamente, rimproverandosi di essere stato così stupido.

Infine si girò per controllare un’ultima volta.

E udì ferro contro ferro, un suono smorzato e lento, ma non riuscì a vedere che cosa c’era là dietro, nell’oscurità.

Tanker si rannicchiò fra i cespugli, coprendosi il viso con le mani e pregando il cielo che la luna lo tenesse nascosto da qualunque cosa stesse camminando nell’oscurità.

All’inizio era stato perfetto. Aveva avvertito quella pressione ormai familiare per tutto il giorno: era cresciuta nel suo petto e lo aveva fatto gonfiare, era cresciuta nella sua testa e l’aveva fatta dolere. Quando era iniziata si era sforzato di ignorarla, pensando che fosse dovuta alla sua fame di cibo; così si era messo a rovistare fra i rifiuti, cercando qualche lattina, poi aveva elemosinato quattro dollari di fronte al teatro della strada principale e si era ingozzato di hamburger e vino scadente. Ma la pressione non se ne era andata e le sue mani avevano iniziato a tremare non appena si era reso conto che non poteva più negare la sua presenza — sarebbe accaduto molto presto, non c’erano dubbi. Forse quella stessa notte, e quel ragazzo lo avrebbe aiutato.

Lentamente, e usando le tecniche che si ricordava, più di qualche altro sistema che non aveva certo imparato da quei fottuti ragazzini dell’esercito, era riuscito ad aprirsi un varco attraverso i cespugli, verso il laghetto, non appena aveva udito quella voce solitaria raccontare a se stessa una storia. Era troppo bello per essere vero, ma quando aveva sbirciato fra i cespugli, si era messo quasi a urlare. Era il moccioso di qualche notte prima, quello vestito di nero che raccontava la storia di un corvo gigante. Ed era lì, con l’aria di chi si è appena lasciato sfuggire una ragazza e, per l’amor del cielo, sembra quasi incredibile, si stava raccontando una stupida storia.

Era perfetto.

Poi il moccioso aveva girato la testa bruscamente e Tanker aveva volto lo sguardo verso il parco.

Ferro contro ferro.

Non ce n’era assolutamente motivo, ma quel suono lo terrorizzò, gli allentò le budella, gli fece salire qualcosa di acido dallo stomaco, e non poteva farci nulla — piagnucolò sottovoce e si coprì il viso con le mani. Rimase ad ascoltare. Cercò di rendersi invisibile. Ascoltò il moccioso che se ne andava e giurò a se stesso, freddo per il sudore, che non lo avrebbe seguito e non lo avrebbe preso.

Il rumore si fece più forte; Tanker si lasciò cadere a terra, mise le mani dietro la testa e aspettò, trattenendo il fiato e ascoltando qualsiasi cosa si muovesse davanti a lui, come se stesse seguendo il ragazzo.

E si fermò.

Il vento cessò: non si udiva il rumore del traffico, né quello dei passi.

Deglutì e girò la testa per sbirciare con un occhio. Attraverso gli arbusti vide pezzi di marciapiede, l’oscurità del lato opposto e nient’altro. Aggrottò le sopracciglia, perplesso. Appoggiò le mani sull’erba, per rialzarsi. Lentamente. Occhi giallognoli iniettati di sangue si mossero rapidamente da un lato all’altro, cercando di cogliere quanto più possibile del sentiero prima che la testa scrutasse più in alto, prima che le ginocchia si stringessero, prima che le braccia si tendessero in fuori alla ricerca di un equilibrio, pronte a balzare in avanti per combattere.

Ma non c’era nulla.

Il sentiero era vuoto, il moccioso se n’era andato, e quando arrivò al laghetto e controllò in entrambe le direzioni, si rese conto di essere solo.

Solo con quella tensione, e senza nessuno da uccidere.

Poi lo udì di nuovo.

Ferro contro ferro, una cadenza lenta e smorzata; e quando si girò di scatto per vedere di cosa si trattava, spalancò gli occhi e la bocca, senza riuscire a fermare lo scuotimento della testa.

Era solo.

Udì muoversi qualcosa di grande davanti a lui, ma era completamente solo.

Il vino, pensò; è colpa di quel dannato vino. Corse di nuovo verso gli alberi, andando a zig zag per allontanarsi da quel luogo, poi si diresse verso il muro a ovest. I polmoni gli facevano male e le mani tremavano; quando cercò di deglutire, gli parve di avere la gola piena di sassolini aguzzi. Rimase immobile, in ascolto, e si lasciò andare solo quando non udì altro che il vento.

Poi ritornò la tensione, di nuovo nella testa, nel petto. Una palpitazione profonda e solenne quando alzò la testa verso la luna.

Era giunta l’ora, non poteva più rimandare; scavalcò agilmente il muro, rimanendo nella zona oscura mentre correva verso destra. Le case affacciate sul parco erano grandi e ben illuminate, ma non riuscì a udire né la televisione, né la radio, né alcuna voce proveniente da quelle finestre aperte.

L’unica cosa che riusciva a sentire era il rumore che veniva dal parco e che lo spingeva verso quell’angolo, dove sbatté contro un palo del telefono; controllò la strada in entrambe le direzioni, ansimando leggermente e iniziando a piegare le dita e a corrugare la fronte.

Cinque minuti dopo Tanker lo vide.

Camminava sullo stesso lato della strada, schioccando le dita e dimenando i fianchi e i piedi. Tanker aggrottò le sopracciglia, pensando che il moccioso fosse ubriaco, poi vide la cuffia sulla testa e la radio appesa alla cintura.

Un bel modo di morire, pensò con una smorfia, girando dietro l’angolo del muro. Un bel modo di morire — sorridendo, ascoltando la tua musica preferita, ritornando a casa con un freddo pungente.

La sua risatina sotto i baffi risuonò come un ringhio.

Seguì i movimenti del ragazzo con attenzione: vide che tirava fuori le mani dalle tasche, per tamburellare con le dita contro il muro a tempo di musica, e poi lo vide agitare le dita ben in alto, sopra la testa.

Mentre faceva una seconda piroetta, Tanker gli fu accanto, sorridendo. Afferrò la gola del ragazzo e lo scaraventò senza il minimo sforzo dentro il parco. Prima che il ragazzo cadesse per terra, Tanker si inginocchiò di fianco a lui.

Prima che la canzone finisse, Tanker l’aveva squartato.

«Don il Barbaro vide gli gnomi cattivi alla fine della galleria della strega», bisbigliò muovendosi lentamente fuori dalla cucina, in posizione rannicchiata, con il braccio sinistro incrociato sul petto a mo’ di scudo e il braccio destro disteso per sorreggere il suo impaziente amico, il Corvo. «La vergine è incatenata a una roccia incandescente e soltanto Don ha la forza per rompere le catene magiche e salvarla da un destino ben peggiore della morte.» Lanciò un’occhiata a destra. «Corvo, com’è un destino ben peggiore della morte?» Il suo amico non rispose: quando inciampò nella frangia del tappeto, nell’ingresso, il telefono iniziò a suonare.

«Accidenti!» urlò, sobbalzando per il dolore. I suoi genitori erano sul retro, in quello che una volta era lo studio di suo padre e che fungeva ora da stanza della televisione. Su qualche canale c’era un incontro di boxe: distingueva la voce di suo padre che bestemmiava, mentre sua madre urlava al manager del pugile perdente che cosa avrebbe dovuto fare del pugile e della famiglia del pugile.

Nonostante il linguaggio, quei suoni erano piacevoli, suoni normali che non si udivano in quella casa da parecchie settimane. Stavano ridendo e scherzando insieme, ed era davvero una gran bella cosa; sperava che si decidessero riguardo a quello che provavano l’uno per l’altra.

D’altra parte, forse lo avevano già fatto. Forse avevano già preso una decisione e tutto sarebbe andato bene.

Il telefono continuò a squillare sul tavolino posto all’ingresso del salotto. Afferrò il ricevitore, strizzò l’occhio in segno di saluto al Corvo, che si accingeva a salvare la vergine dal suo atroce destino, poi si appoggiò allo stipite della porta.

Era Tracey. Aveva completamente dimenticato che doveva chiamarlo.

«Scusa se ti ho chiamato tardi», disse, con la voce soffocata, come se avesse messo una mano sul ricevitore.

«Non c’è problema. Tanto ero fuori per una passeggiata.»

«Oh, davvero? Con qualcuno che conosco?»

«No, ero solo.» Ma era contento che glielo avesse chiesto.

«Oh, solo soletto, eh? Non sei molto di compagnia, Boyd.»

«Non è per quello. Se proprio lo vuoi sapere, divento parecchio complicato quando ho una delle mie lune.»

Lei ridacchiò e lui guardò il soffitto con gli occhi chiusi.

«Come sta il tuo occhio?»

Si esaminò un lato della faccia. «È ancora al suo posto, almeno così credo.»

«Sei incazzato per la punizione.»

Cristo, pensò, le brutte notizie hanno le ali.

«Non me ne frega niente», disse. «Quest’anno i miei voti non sono stati un gran che. Userò quel tempo per studiare.»

«Risposta tipica da studente dell’ultimo anno», ribatté lei. «Sembri quasi soddisfatto, sai.»

Era soltanto depresso, pensò, ma si limitò a brontolare qualcosa.

«Senti, veterinario, ascoltami. Per domani sera.» Provò un senso di nausea; l’aveva capito dal tono della sua voce — stava per dirgli che aveva già un impegno con Brian. «Sì?»

«Non posso.»

Decise di tagliarsi la gola e che era meglio così, almeno non avrebbe dovuto trovarsi di fronte a Brian. Ma prima di tutto si sarebbe tagliato la gola.

«Mio padre ha il fine settimana libero e dobbiamo andare a trovare mia nonna a Long Island. Ha detto che partiremo subito dopo la scuola.»

«Ah, be’, d’accordo.»

«Ma ascolta, potremmo uscire venerdì prossimo, se a te va bene. Venerdì prossimo andrebbe benissimo. Voglio dire, sempre che tu ne abbia ancora voglia.»

Lui non disse nulla. La gola gli si ricucì, il soffitto andò a fuoco improvvisamente e lui la vide lassù, fluttuante, sorridente, con un ciuffo di capelli scuri sugli occhi.

«Ehi, veterinario, ci sei ancora?»

«Sì, certo», disse scuotendosi.

«D’accordo.» Il tono era pacato. «Pensavo te la fossi presa per domani. O perché ti ho chiamato veterinario.»

«Non importa. Davvero.» Il filo del telefono gli si era attorcigliato attorno al polso e non poteva liberarsene senza staccare la cornetta dall’orecchio, perdendo così quello che lei stava dicendo. «Davvero, non sto scherzando.»

E lo diceva sul serio. A lei sembrava una bellissima cosa che lui stesse così vicino agli animali per il resto della sua vita. Da quando lui se l’era lasciato sfuggire, lei aveva iniziato immediatamente a fantasticare: Io immaginava mentre lavorava in campagna, andando di paese in paese, di fattoria in fattoria, assicurandosi che tutti gli animali fossero in perfetta salute.

Lei parlava sul serio.

Brian e Tar pensavano che fosse troppo bello per essere vero — Paperino che curava le papere. Per circa una settimana, ogni volta che lo vedevano, avevano continuato a fare qua-qua e a sbattere le braccia, raccontandogli di avere l’ernia e di essere costretti a nuotare stando in piedi.

«Allora?» disse lei, «credevo mi avessi detto che il compito di biologia era una stupidata.»

Continuarono a parlare come facevano di solito; terminati i preliminari, il suo cuore sembrò ritrovare l’esatta posizione. A un certo punto entrò sua madre con un panino e una birra, e lo guardò con aria interrogativa. Lui sorrise.

«Una ragazza?» chiese in silenzio.

Lui annuì con il capo.

«Chris Snowden?»

Lui scosse la testa e borbottò qualcosa in risposta a una domanda di Tracey.

Sua madre scosse le spalle — non importa, tesoro, a condizione che sia una donna e che non voglia sposarti prima che tu finisca la scuola — e se ne andò, dopo aver controllato il suo occhio nero, ancheggiando lungo il corridoio e ritornando nella stanza della televisione. Era la solita vecchia storia ed entrambi lo sapevano.

«Don, dannazione, mi stai ascoltando?»

«Era mia madre», disse quasi in un bisbiglio, assicurandosi che la zona fosse libera. «Mi stava spiando.»

«Oh, be’, ai miei non importa nulla, a patto che lui porti i pantaloni, si pettini i capelli e sia ricco. Secondo mio padre dovrei sposarmi un anno dopo essermi diplomata.»

«Credevo volessi continuare gli studi.»

«Infatti è così. È solo che lui non ne è ancora convinto. Dio mio, quell’uomo vive ancora nel secolo scorso, credimi.»

«Dai, raccontami.»

«Sì, certo.» Urlò qualcosa dietro a sua sorella, quindi si udì la voce di sua madre che borbottava alle sue spalle. Poi si intromise una voce profonda — era suo padre che suggeriva all’intera famiglia di andare al diavolo.

«Dunque», continuò lui, «che cosa stavi dicendo?»

«La passeggiata. Dove sei andato?»

«Fuori. Al parco.»

«Accidenti!» Una pausa, un sussurro. «Accidenti, Don, non ascolti mai le notizie alla radio?»

Guardò indietro, verso la cucina, e vide la radio di sua madre sullo scaffale. «No. Non ho tempo.»

«Be’, faresti meglio ad ascoltarle», lo rimproverò lei, a voce bassa. «Stanotte è stato ucciso qualcuno proprio là. Un paio d’ore fa. Mio padre è appena tornato e…» Si fermò. «Cristo, ma allora tu eri là!»

Don si mise una mano sulla guancia e si grattò leggermente. «Non ho visto niente. Non ho sentito niente.» La mano premette un po’ più forte. «Cos’è successo?»

«Non lo so. Mio padre non dice niente. Secondo le notizie della radio, si tratta di un ragazzo dell’Ashford Nord, stava tornando a casa e l’hanno beccato. Hanno detto … credono si tratti dello Squartatore. È orribile.»

«Già.»

Ferro contro ferro.

«Ma non capisci? Potresti essere un testimone, o qualcosa del genere.»

«Ma non ho visto niente, Tracey! Cristo, non dirlo a tuo padre.»

«Okay.» Sua madre la interruppe e lei rispose in tono brusco, rimpiangendo di non essere figlia unica. «Ehi, veterinario, qual è il tuo animale preferito?»

Don tirò su con il naso, pettinandosi i capelli con una mano e cercò di usare la fantasia per porre delle immagini nell’aria davanti a sé. «Sai una cosa? Non ci ho mai pensato. Accidenti, è buffo, ma non ci ho mai pensato.» Gli venne in mente la sua camera e iniziò a catalogare tutti i manifesti, le fotografie e le stampe che possedeva. «I cavalli, credo. Ma non lo so. I leopardi e le pantere.»

Lei scoppiò a ridere e qualcuno dietro di lei ridacchiò per prenderla in giro. «Non sapevo che cavalcassi.»

«Le pantere? Non si possono cavalcare le pantere.»

«No, sciocco, i cavalli. Non sapevo proprio che andassi a cavallo.»

«Non ci vado.»

Ci fu una pausa e una voce maschile iniziò a borbottare.

«E allora perché proprio i cavalli?»

«Non lo so.» Vide il poster, il cavallo, e strinse le spalle nel corridoio vuoto. «Hanno un’aria … non so come spiegartelo, sono così grandi e forti, non ti pare? Potrebbero calpestarti senza nemmeno rendersene conto.»

«I cavalli?»

«Certo.»

«Ma sono stupidi.»

«Immagino.»

«Volevo dire. Sono…» La voce dell’uomo si era fatta più forte e lei mise una mano sul telefono. Cercò di distinguere quelle voci, ma dal tono riuscì solo a capire che stavano litigando. «Don, devo andare, adesso.»

«Sì, certo.»

«Ci vediamo domani?»

«Certo! Certo. Ti…»

Lei riappese e lui rimase in piedi in mezzo al corridoio, con lo sguardo fisso sulla porta, fino a quando suo padre gli passò davanti per andare di sopra e gli ricordò con tono gentile che il giorno dopo sarebbe dovuto restare a scuola per la punizione. Don annuì.

Norman, a metà delle scale, guardò verso il basso e aggrottò le sopracciglia, fu sul punto di dire qualcosa, poi cambiò idea.

Don non se ne accorse nemmeno.

Stava guardando la porta e il cavallo nero che vi era impresso sopra; Tracey Quintero lo stava cavalcando.

Cinque minuti più tardi, passò Joyce a dargli un pizzicotto sul sedere. Don sobbalzò, arrossendo alla sua risata e annuendo quando lei gli ricordò di controllare che le luci e la porta fossero chiuse. Mentre spegneva le luci, iniziò a pensare a Tracey e al ragazzo che era stato ucciso. Poteva anche darsi che avesse davvero udito l’assassino e che questi, temendo la sua testimonianza, tornasse per ucciderlo.

Rabbrividì e fece molta attenzione nel chiudere le tende; poi controllò due volte per assicurarsi che i catenacci della porta di ingresso e di quella di servizio fossero ben chiusi. Quindi corse di sopra, nella sua stanza. Per un attimo pensò di parlarne con i suoi genitori, poi cambiò idea. Sua madre si sarebbe eccitata e avrebbe chiamato la polizia; suo padre avrebbe detto a entrambi che non c’era nulla di cui preoccuparsi: il ragazzo stava bene e dal momento che non aveva visto nulla, non aveva senso farsi coinvolgere.

E avrebbe avuto ragione; non aveva proprio senso.

Quindi si lavò e controllò che la faccia non si fosse gonfiata ulteriormente da quella mattina e che il suo occhio non fosse peggiorato. Poi chiuse la porta e si sedette a gambe incrociate sul letto. Indossava soltanto le mutande e si mise a guardare attorno a sé — la pantera, il puma, gli elefanti, respingendoli silenziosamente, uno alla volta, fino ad arrivare al manifesto appeso sopra la scrivania.

Ecco, pensò; ecco ciò di cui ho bisogno.

«Ehi, senti», disse al cavallo appena visibile, «spero che non ti dispiaccia se non ti do un nome. Voglio dire, potrei benissimo dartene uno, ma i nomi che mi piacciono sono già stati usati, e almeno la metà di questi si riferiscono a cavalli di film celebri, o cose del genere. E poi», aggiunse, osservando la pantera nella giungla, sopra il suo letto, «non voglio che gli altri si arrabbino.»

Fece una smorfia, ruotando gli occhi e soffocando una risata nel palmo della mano.

«E poi, comunque, non ne hai bisogno, giusto? Sei troppo forte per uno stupido nome. Lo so quello che ti stai chiedendo: perché ci sei tu lì sopra e non quel gatto nero? Be’, perché tu sei grande, e sei forte e … perché sì. Oltre tutto, a Tracey piacciono i cavalli e tu sei un cavallo, quindi le piacerai, e se tu piaci a lei anch’io le piacerò e saremo tutti quanti amici, non ti pare? Già. E fai in modo che quel ragazzo con quel suo cappello di merda se la faccia addosso dalla paura.»

Fece un’altra smorfia e si dondolò indietro, picchiando la testa contro il muro, ma senza sentire dolore.

Era sicuro che agli altri suoi amici non gliene importasse molto se per una volta aveva scelto uno solo di loro: era solo per quella volta. Avrebbero capito. L’avevano sempre fatto e l’avrebbero fatto anche in quella occasione.

«Allora, ascoltami bene, vecchio mio», disse, fissando il soffitto sul quale Tracey era intenta a cavalcare una nuvola. «Mi dovrai insegnare un po’ di cose, sai? Mi spiego, immagino che tu sia andato in giro, capisci cosa voglio dire? Voglio solo qualche indicazione e qualche buon consiglio, okay? Se ti prenderai cura di me, io mi prenderò cura di te. È a questo che servono gli amici, no? Già, proprio così.»

Scivolò fuori dal letto, si baciò le punte delle dita e mise la mano sulla testa del cavallo.

«Amici», disse. «Amici.»

«Sta di nuovo parlando con quei suoi animali», si lamentò Norm mentre Joyce si lavava i denti. Lei farfugliò qualcosa e lui scosse la testa, indicando le orecchie.

«Stavo dicendo», disse, dopo aver sputato il dentifricio, «che i ragazzi parlano spesso da soli. È un po’ come pensare a voce alta. Dovresti essere nella mia classe, ogni tanto.»

«Sì, ma tu insegni a gente stravagante.»

«Artisti in erba sarebbero gente stravagante?»

«Guarda nello specchio.»

Lei gli lanciò dietro la spazzola e poi gli si avventò contro; lottarono per un po’, poi lui la immobilizzò sotto il suo corpo, sul letto.

«Norm?» disse, mettendo una mano sulla mano che stava coprendo il suo seno.

«Dimmi.»

Il salice all’angolo della casa grattò leggermente alla finestra; si udivano tubare i colombi che avevano fatto il nido sotto le grondaie del garage.

«So che è terribile, ma non hai mai pensato a come avrebbe potuto essere la nostra vita se non avessimo avuto figli? Così che quando capita qualcosa come questa, intendo dire, possiamo starcene tranquilli, senza preoccuparci della fragile psiche e dei traumi dei ragazzi e della loro mente confusa. Non ci hai mai pensato, Norm?»

Cercò di individuare il suo viso nell’oscurità. «Dobbiamo essere onesti?»

«Sì»

«Allora … sì. Mi è capitato di pensarci.» Ma non le disse come si era sentito colpevole quando lo aveva fatto.

«Questo non significa che non gli vogliamo bene», disse lei con impazienza, cercando di essere convincente. «E, Dio mio, quanto mi manca il piccolo Sam.»

«Lo so.»

«Ma sarebbe così semplice, capisci cosa voglio dire?»

«Certo.»

La sveglia emise un debole brusio. Il vento si era calmato sopra i tetti. A malapena, riuscirono a distinguere il rumore di due macchine che sfrecciavano sulla strada.

«Questa sera Don era nel parco.»

«E allora?»

«Non hai sentito le notizie alla radio dopo l’incontro?»

«Oh.» Lui si mosse un poco, ma non lasciò la donna. «Sì, credo che farei meglio a fare due chiacchiere con lui. Almeno fino a quando non prenderanno quel tipo.»

«Forse ha visto qualcosa.»

«No. Se avesse visto qualcosa, ce lo avrebbe detto.» Le baciò l’orecchio destro facendola tremare.

«Norm?»

Stancamente: «Sì?»

«I voti di Don stanno peggiorando. Non molto, ma sono preoccupata. Dovresti parlargli anche di questo. Passa troppo tempo con quei suoi animali e continua a procurarsene di nuovi.»

«Gli parlerò», promise lui. «Forse dovremmo dirgli di sbarazzarsi di quelle bestie.»

«Ma sarebbe crudele.»

«La smetterebbe di perdere tempo con loro.» Mentre lei acconsentiva, lui le diede un morso sul lobo dell’orecchio.

«Norm?»

«Oddio, adesso cosa c’è?»

«Voglio sistemare tutte queste questioni, ho deciso.»

«Bene», disse, accarezzandole il seno con il palmo della mano.

«No, parlo sul serio, Norman. Voglio davvero giungere a una conclusione.»

«Anch’io», disse in tono quasi convinto. La testa scivolò verso l’incavo della sua spalla. «Anch’io, tesoro.»

«Norm, è tardi», bisbigliò con gli occhi semichiusi, «e sai come sei stanco dopo, ultimamente. Oltretutto, domani mattina ho una riunione del comitato. Dobbiamo decidere per i fuochi d’artificio.»

«Buon per te. Falli esplodere in tutta la città!»

«Norman!»

«Joyce», esclamò, «se vuoi davvero sistemare tutto, faresti meglio a chiudere il becco.»