124218.fb2 La falce dei cieli - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 10

La falce dei cieli - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 10

CAPITOLO DECIMO

Il descend, réveillé, l’autre côté du rêve.

Hugo, Contemplations

Erano soltanto le tre del pomeriggio, e sarebbe stato suo dovere tornare in ufficio, al Dipartimento Parchi, per terminare i progetti delle aree di gioco della zona sudorientale della città; ma non tornò. Pensò una singola volta a tornare, poi se lo cancellò dalla mente. La memoria gli diceva che aveva quel lavoro da cinque anni, ma non credeva alla propria memoria; quel lavoro non gli pareva reale. Non era un lavoro da fare. Non era il suo lavoro.

Era consapevole che confinando nell’irrealtà un elemento importante dell’unica realtà, dell’unica esistenza, correva esattamente lo stesso rischio delle menti malate: la perdita del senso del libero arbitrio. Sapeva che quando si nega ciò che si è, si finisce con l’essere posseduti da ciò che non si è: dalle coazioni, le fantasie, i terrori che accorrono a colmare il vuoto. Ma il vuoto c’era. Questa vita mancava di realtà; era vuota. Il sogno, creando dove non c’era necessità di creare, era diventato logoro e sottile. Se questo era vivere, allora forse il vuoto era preferibile. Meglio accettare i mostri e le necessità esterne alla ragione. Meglio andare a casa, e non prendere farmaci, ma dormire e sognare senza preoccupazione.

Giunto in città, scese dalla funicolare, ma invece di prendere il tram si avviò a piedi verso la propria casa; gli era sempre piaciuto camminare.

Dietro Lovejoy Park era ancora in piedi un tratto della vecchia soprelevata: una larga rampa, che risaliva probabilmente alle ultime convulsioni della mania autostradale degli anni ’70; un tempo portava a Marquam Bridge, ma ora terminava bruscamente a mezz’aria, dieci metri sopra Front Avenue. Non era stata distrutta quando la città era stata ripulita alla fine degli Anni della Peste, forse perché era così grossa, inutile e brutta da risultare, per l’Occhio americano, pressoché invisibile. Era ancora lì: qualche arbusto aveva messo radice sulle corsie, e sotto di essa era cresciuto un mucchio disordinato di edifici, come nidi di rondine sotto un dirupo. In questa zona trasandata e interlocutoria della città rimanevano ancora negozietti, piccoli empori, trattorie poco appetibili e così via, che riuscivano a sopravvivere nonostante i rigori dell’onnipresente Razionamento dei Prodotti di Consumo e della schiacciante competizione della grande catena Mercato e Distribuzione, appartenente al Centro di Programmazione Mondiale, che monopolizzava il 90 per cento del commercio.

Uno di questi negozietti sovrastati dalla rampa stradale vendeva articoli usati; l’insegna diceva ANTICHITÀ, e una seconda scritta, tracciata alla buona sul vetro, avvertiva: RIGATTIERE. In una vetrina c’era del vasellame tozzo, fatto a mano, nell’altra una vecchia sedia a dondolo con uno scialle di Paisley sui braccioli, tutto mangiato dalle tarme, e, sparsa alla rinfusa intorno a questi articoli di prestigio, ogni sorta di spazzatura culturale: un ferro da cavallo, un orologio a molla, un misterioso attrezzo agricolo, una fotografia del Presidente Eisenhower con cornice, un globo di resina trasparente, leggermente opaca, contenente tre monete equadoriane, un asse da WC di plastica, con decorazioni di alghe e granchiolini, e una pila di vecchi 45 giri; il cartellino diceva «Quasi nuovi», ma erano certamente frusciati. Proprio il tipo di posto, si disse Orr, in cui potrebbe avere lavorato per qualche tempo la madre di Heather. Spinto da un impulso, entrò nel negozio.

L’interno era freddo, e piuttosto buio. Un pilone dell’autostrada formava una delle pareti: un’alta distesa di cemento scuro e vuoto, simile alla parete di una grotta sottomarina. Dal digradante orizzonte di ombre, mobili massicci, decrepite distese di quadri alla Pollock e di trottole imitazione antico (che ora cominciavano a diventare veramente antiche, anche se rimanevano inutili come allora), da questi tenebrosi reami di oggetti di nessuno, emerse una forma enorme, che parve avanzare galleggiando lentamente, silenziosamente, da rettile: il proprietario era un Alieno.

Sollevò il gomito sinistro e disse: — Buon giorno. Desiderate un oggetto?

— Grazie, davo soltanto un’occhiata.

— Prego, continuate questa attività — disse il negoziante. Si ritirò di qualche passo nell’ombra e rimase lì, perfettamente immobile. Orr osservò alcune vecchie penne di struzzo mangiate dai topi, poi un vecchio proiettore a passo ridotto del 1950, un servizio da tè bianco e azzurro, una raccolta di vecchi fascicoli di «Mad», molto cari. Prese un martello di acciaio inossidabile e lo soppesò per controllarne l’equilibrio; era un utensile ben fatto, un buon arnese. — È lei che sceglie queste cose? — domandò al proprietario, chiedendosi che cosa potesse piacere agli Alieni, in mezzo a quei relitti degli anni opulenti d’America.

— Quanto arriva è accettabile — rispose l’Alieno.

Atteggiamento molto simpatico. — Mi chiedo se potrebbe spiegarmi una cosa. Nel vostro linguaggio, qual è il significato della parola iahklu’?

Il proprietario tornò avanti lentamente, facendo passare con attenzione, tra gli oggetti fragili, l’ampia corazza a forma di guscio.

— Incomunicabile. Il linguaggio usato per la comunicazione con le persone-individui non può accogliere altre forme di relazione. Gior Gior. — La mano destra dell’Alieno (un’appendice enorme, verdastra, simile a una pinna) venne avanti in modo lento e forse dubbioso. — Tiua’c Ennebi.

Orr gli strinse la mano. L’Alieno rimaneva immobile, e probabilmente lo osservava, anche se non si scorgeva alcun occhio all’interno del casco scuro e pieno di vapori. Se era un casco. C’era davvero una forma concreta, all’interno di quella corazza verde, di quella poderosa armatura? Non lo sapeva. Si sentiva perfettamente a suo agio, però, con Tiua’c Ennebi.

— Non credo — disse, parlando di nuovo per impulso, — che lei abbia conosciuto una persona chiamata Lelache.

— Lelache? No. Cercate Lelache, voi?

— Ho perduto Lelache.

— Attraversando la nebbia — osservò l’Alieno.

— È così, all’incirca — disse Orr. Da un tavolino davanti a lui, affollato di simili figurine, prese un busto di gesso di Franz Schubert, alto cinque o sei centimetri: probabilmente doveva essere stato il regalo di un maestro di musica all’allievo. Sulla base, l’allievo aveva scritto: «E io mi preoccupo?». Il volto di Schubert era mite e impassibile: un piccolo Buddha occhialuto. — Quanto fa? — chiese Orr.

— Cinque nuovi centesimi — rispose Tiua’c Ennebi.

Orr gli porse una moneta della Federazione dei Popoli.

— C’è qualche modo per controllare lo iahklu’, per farlo andare nel modo… nel modo in cui dovrebbe andare?

L’Alieno prese la monetina e scivolò maestosamente verso un registratore di cassa che Orr aveva scambiato per un oggetto d’antiquariato in vendita. Registrò l’importo e rimase immobile per alcuni istanti.

— Una singola rondine non fabbrica un’estate — disse poi. — Molte mani rendono leggero il lavoro. — S’interruppe, evidentemente non era soddisfatto di questo modo di superare la barriera linguistica. Stette lì fermo per una trentina di secondi, poi si avvicinò alla vetrina, e, con movimenti precisi, rigidi, attenti, prese uno dei dischi d’antiquariato in vendita e lo porse a Orr. Era una canzone dei Beatles: With a Little Help from My Friends, «Con l’aiuto dei miei amici».

— Dono — disse. — Accettabile, è?

— Sì — disse Orr, e prese il disco. — Grazie… molte grazie. Lei è molto gentile. La ringrazio ancora.

— Piacere — disse l’Alieno. Anche se la voce artificiale era priva di tonalità e l’armatura rimaneva impassibile, Orr era certo che Tiua’c Ennebi provava veramente piacere nel donarglielo; era molto colpito dal gesto.

— Posso ascoltarlo sul giradischi del mio padrone di casa; ha un vecchio fonografo automatico. La ringrazio ancora. — Si strinsero la mano, e Orr uscì.

Dopotutto, pensò, mentre si avviava verso Corbett Avenue, non c’è niente di strano nel fatto che gli Alieni siano dalla mia parte. In un certo senso, li ho inventati io. Ma non saprei in quale senso, naturalmente. È chiaro che non erano qui prima che li sognassi, prima che permettessi loro di esistere. Perciò ci deve essere, e ci deve essere sempre stato, un legame tra noi.

Naturalmente (anche i suoi pensieri non si affrettavano), se questo è vero, allora tutto il mondo che ora esiste dovrebbe stare dalla mia parte; buona parte di questo mondo l’ho sognata io. Be’, in fin dei conti è davvero dalla mia parte. Cioè, io ne sono un elemento. Non sono isolato da esso. Io cammino sulla terra e la terra è camminata da me; respiro l’aria e la trasformo; sono completamente interconnesso col mondo.

Haber, invece, è diverso, e ad ogni sogno la differenza cresce. È contro di me; la mia connessione con lui è negativa. E l’aspetto del mondo di cui è responsabile lui, l’aspetto del mondo che lui mi ha ordinato di sognare, ecco, questo è l’aspetto da cui mi sento alienato, verso di cui mi sento impotente, inerme…

Non si tratta del fatto che Haber sia cattivo. Anzi, Haber ha ragione, ognuno di noi dovrebbe cercare di aiutare le altre persone. Ma l’analogia col siero antiofidico non regge. Haber parlava di una persona che incontra un’altra persona che soffre. Così è differente. Forse ciò che ho fatto, ciò che ho fatto nell’aprile di quattro anni fa, era giustificato… (Ma i suoi pensieri si allontanarono subito, come sempre, dal mondo bruciato.) Bisogna aiutare il prossimo. Ma non è giusto giocare a fare la parte di Dio con le altre persone. Per fare il Dio occorre sapere cosa si sta facendo. E per fare veramente del bene non basta limitarsi ad avere ragione e ad avere delle buone intenzioni. Occorre anche… essere in contatto. E lui non è in contatto. Nessun altro, anzi nessuna cosa, ha una propria esistenza agli occhi di Haber; lui vede il mondo soltanto come uno strumento: un mezzo, per raggiungere dei fini. E non fa nessuna differenza che i suoi fini siano buoni: i mezzi sono le uniche cose che abbiamo… Haber non riesce ad accettare le cose come sono, a lasciar stare, a lasciar perdere. È pazzo… Ci porterà via tutti con sé, fuori contatto, se riuscirà a sognare come me. Cosa devo fare?

Arrivò alla vecchia casa della Corbett Avenue proprio mentre arrivava a porsi questa domanda.

Scese nel seminterrato per farsi prestare il vecchio fonografo da Mannie Ahrens, il padrone di casa. La cosa comportò come corollario di fermarsi a bere con lui una tazza di «tè». Era una bevanda che Mannie preparava espressamente per lui, perché Orr, che non aveva mai fumato, non riusciva ad aspirare il fumo senza tossire. Parlarono un po’ di come andavano le cose. Mannie aborriva le Manifestazioni Sportive; il pomeriggio rimaneva a casa a guardare le trasmissioni educative per i bambini ancora troppo giovani per entrare nei Centri Infantili. — Quel piccolo coccodrillo, Dooby Doo, è proprio un gran dritto — commentò. C’erano delle grandi lacune nella conversazione di Mannie, riflesso di grandi lacune nel tessuto della sua mente, corrosa dalla somministrazione di innumerevoli composti chimici nel corso degli anni. Ma nel suo disordinato appartamentino c’erano tranquillità e isolamento, e il debole tè di canapa indiana esercitava su Orr un effetto rilassante. Alla fine portò a casa sua il fonografo, e lo collegò a una presa del soggiorno senza mobili. Infilò il disco, e tenne sollevato il braccio dell’apparecchio per un istante. Che cosa desiderava?

Non lo sapeva. Aiuto, probabilmente. Bene: quanto arrivava era accettabile, come diceva Tiua’c Ennebi.

Appoggiò con cura la puntina sul solco e si stese accanto al fonografo, sul pavimento polveroso.

Do you need anybody?

I need somebody to love.

Hai bisogno di qualcuno?

Ho bisogno di qualcuno da amare.

Era un giradischi automatico; quando il disco giunse alla fine, l’apparecchio brontolò un istante, mosse le proprie interiora e riportò la puntina all’inizio del solco.

I get by, with a little help,

With a little help from my friends.

Ce la faccio, con un aiuto,

Con l’aiuto dei miei amici.

Nel corso dell’undicesima replica, Orr cadde addormentato.

Destandosi nella stanza buia, spoglia, dal soffitto alto, Heather rimase sconcertata. Ma dove diavolo?…

Si era addormentata. Addormentata seduta sul pavimento, con le gambe distese e la schiena appoggiata al pianoforte. La marijuana la faceva sempre addormentare, e la faceva sentire stupida, ma non si poteva offendere Mannie rifiutando di prenderla, povero vecchio tossicomane. George era steso sul pavimento come un gatto spellato, accanto al fonografo, la cui puntina stava lentamente scavando With a Little Help e tra un po’ avrebbe cominciato ad aggredire il piatto rotante. Abbassò lentamente il volume, poi spense l’aggeggio. George non si mosse; aveva le labbra un po’ aperte, gli occhi chiusi. Una cosa da ridere: addormentarsi tutt’e due al suono della musica. Si alzò e andò in cucina per vedere cosa ci fosse per pranzo.

Oh, per l’amor di Dio, fegato di maiale. Era nutriente, e, tra ciò che si poteva prendere con tre tagliandi carne, era la cosa che rendeva di più in peso. L’aveva acquistato al Mercato, ieri. Be’, tagliato molto sottile, e soffritto con cipolla e pancetta… puah! Oh, cribbio, basta, aveva una fame sufficiente da indurla a mangiare anche il fegato di maiale, e George non aveva mai fatto storie. Se c’era qualcosa di buono lo mangiava e lo gustava, e se c’era soltanto dello schifoso fegato di maiale lo mangiava e basta. Sia lode al Signore, da cui viene ogni benedizione, compresi i mariti che si accontentano.

Mentre preparava il tavolo e metteva a cuocere due patate e mezzo cavolo, fu costretta a fermarsi di tanto in tanto. Si sentiva strana. Disorientata. Per quella maledetta marijuana, e per essersi addormentata sul pavimento a un’ora inconsueta, senza dubbio.

Arrivò George, tutto scarmigliato e con la camicia sporca di polvere. Prese a fissarla. Lei gli disse: — Oh. Buon giorno!

George rimase fermo a fissarla e a sorridere: un sorriso aperto e raggiante, di pura gioia. Lei non aveva mai ricevuto un complimento simile in tutta la vita; era imbarazzata da quella gioia, che lei stessa aveva causato. — La mia cara mogliettina — disse George, prendendole le mani. Le fissò, palma e dorso, e se le portò alla faccia. — Dovresti essere scura — disse, e lei, con sgomento, gli vide spuntare delle lacrime di rimpianto. Per un istante, esattamente allora, ebbe coscienza di ciò che era successo; ricordò di essere stata scura, e ricordò il silenzio notturno del villino, il rumore del ruscello e molte altre cose, tutto in un lampo. Ma George era una considerazione più pressante. Lo strinse, com’egli stringeva lei. — Sei esaurito — gli disse, — sei scosso, ti sei addormentato per terra. È quel maledetto Haber. Non tornare più da lui. Non tornarci più, e basta. Non m’interessa sapere cosa fa; voglio mandarlo in tribunale, anche se dovesse appiopparti un’ingiunzione di Controllo Coercitivo e ti ficcasse al Linnton: troverò un altro psichiatra e riuscirò a farti uscire. Non puoi continuare con lui, ti sta distruggendo.

— Nessuno può distruggermi — disse lui, e rise piano, nel profondo del petto; quasi un sospiro. — Almeno, non può distruggermi finché avrò l’aiuto dei miei amici. Ritornerò da lui: ha quasi finito. Non mi preoccupo più di me, ormai. Ma tu non devi preoccuparti… — Rimasero stretti l’uno all’altra, in contatto con tutte le superfici disponibili, assolutamente unificati, mentre il fegato e le cipolle sfrigolavano nella padella. — Anch’io mi sono addormentata — gli disse, parlandogli nel collo, — mi è venuto sonno a forza di scrivere quelle lettere sceme del vecchio Rutt. Ma il disco che hai comprato mi piaceva molto. Andavo pazza per i Beatles, quando ero ragazzina, e oggi le stazioni governative non li suonano più.

— Era un regalo — disse George, ma il fegato nella padella cominciò a rumoreggiare, e Heather dovette sciogliersi per andare a vedere. A cena, George continuò a osservarla; anche lei continuò a osservarlo. Erano sposati da sette mesi. Si scambiarono soltanto qualche frase di poca importanza. Lavarono i piatti e andarono a letto. A letto fecero l’amore. L’amore non è una cosa che è lì e si limita a stare lì ferma, come una pietra: è una cosa che deve venire fatta, come il pane; rifatta ogni volta, rifatta nuova. Quando l’ebbero fatto, rimasero l’uno nelle braccia dell’altra, tenendo stretto l’amore, addormentati. Nel sonno, Heather udì il fruscio di un ruscello, pieno dei canti dei bambini non ancora nati.

Nel sonno, George vide le profondità del mare aperto.

Heather era la segretaria di un vecchio e accidioso sodalizio di avvocati, Ponder e Rutt. Quando uscì dall’ufficio alle quattro e mezza del pomeriggio seguente, venerdì, invece di dirigersi alla monorotaia e poi al tram per tornare a casa, prese la funicolare fino a Washington Park. Aveva detto a George che forse lo avrebbe accompagnato al SURA, visto che la sua seduta terapeutica non cominciava fino alle cinque, e poi sarebbero potuti tornare in città assieme per mangiare a uno dei ristoranti del Centro Programmazione, nell’International Mall. — Andrà tutto bene — le aveva detto George, che aveva capito i suoi motivi e voleva dirle che sarebbe andato tutto bene con Haber. Lei gli rispose: — Lo so. Ma sarebbe bello mangiare fuori, e ho da parte alcuni tagliandi. Non siamo mai stati al Casa Boliviana.

Arrivò al SURA in anticipo, e attese sugli ampi gradini di marmo. George arrivò con la cabina successiva. Lo vide scendere, insieme con altre persone che non osservò. Un uomo ben fatto, non molto alto, con un’aria assai tranquilla e un volto simpatico. Camminava con eleganza, anche se era un po’ curvo, come quelli che lavoravano sempre alla scrivania. Quando la vide, i suoi occhi, che erano chiari e trasparenti, parvero divenire ancora più chiari, ed egli le sorrise: di nuovo quel sorriso da strappare il cuore, un sorriso di gioia completa. Lo amò violentemente. Se Haber gli avesse fatto nuovamente del male, sarebbe entrata lì dentro e lo avrebbe fatto a pezzetti. Di solito i sentimenti violenti le erano alquanto estranei, ma non quando si trattava di George. E, comunque, chissà perché, oggi si sentiva diversa dal solito. Si sentiva più dura, più arrogante. Aveva esclamato «cacca!» due volte, sul lavoro, facendo sobbalzare il vecchio Mr. Rutt. In precedenza non aveva quasi mai esclamato «cacca!» a voce alta, e anche quelle due volte non aveva intenzione di dirlo, eppure lo aveva fatto, come se si fosse trattato di una vecchia abitudine, troppo difficile da abbandonare…

— Ciao, George — gli disse.

—  Ciao — le rispose, prendendole le mani. — Sei bellissima. Bellissima.

Chi poteva pensare che quest’uomo fosse malato? D’accordo, faceva dei sogni strambi. Ma era meglio questo, che essere brutti, meschini e odiosi come buona parte delle persone che conosceva.

— Sono già le cinque — disse lei. — Ti aspetto qui. Se piove sono nell’atrio. Là dentro è come la Tomba di Napoleone, tutto marmo nero e ambiente funereo. Ma qui fuori è bello. Si sentono perfino ruggire i leoni dello zoo.

— Sali con me — disse lui. — Sta già piovendo. — E in effetti pioveva già: l’interminabile pioggerellina calda della primavera… il ghiaccio dell’Antartide che ricadeva dolcemente sulla testa dei figli di coloro che l’avevano fatto fondere. — Ha una bella sala d’aspetto. Probabilmente dovrai dividerla con i vari pezzi grossi della Federazione e tre o quattro Capi di Stato. Tutto il contorno danzante del Direttore del SURA. E io devo passarci in mezzo facendomi piccolo, e farmi mostrare a tutti, ogni volta. Lo psicopatico personale del dottor Haber: non morde. La sua esibizione. Il suo paziente da parata… — La guidò per l’ampio atrio, sotto la cupola del Pantheon, e poi lungo i nastri trasportatori, fino a una scala mobile elicoidale che pareva non finisse mai. — Il SURA comanda davvero il mondo, vedo — disse. — Non posso fare a meno di chiedermi perché Haber desideri altre forme di potere. Ne ha già abbastanza, Dio sa. Perché non può fermarsi qui? Credo che sia come Alessandro il Grande, che abbia bisogno di nuovi mondi da conquistare. Non sono mai riuscito a capirlo. Com’è andato il lavoro, oggi?

Era teso: per questo parlava tanto; ma non pareva depresso o preoccupato, come era stato per settimane. Qualcosa gli aveva restituito il suo naturale equilibrio. Lei non aveva mai creduto che potesse perderlo per un tempo così lungo, perdere la rotta, uscire di contatto; eppure negli ultimi tempi era stato in una condizione miserevole, che peggiorava continuamente. Adesso non lo era più, e il cambiamento era stato talmente brusco e completo che Heather si chiese quale ne fosse stata la causa. Il momento in cui era avvenuto era quando, sedendo nel loro soggiorno ancora da arredare, e ascoltando quella canzone sciocca e sottile dei Beatles, il pomeriggio del giorno prima, si erano addormentati tutt’e due. Da quel momento in poi, George era ritornato se stesso.

Nella grande, elegante sala d’aspetto di Haber non c’era nessuno. George mormorò il proprio nome a un pannello vicino alla porta: un auto-receptionist, spiegò a Heather. Lei stava per rispondergli ironicamente, quando una porta si spalancò, e sulla soglia comparve Haber.

Heather l’aveva incontrato una volta soltanto, e brevemente, quando Haber aveva preso in cura George. Aveva dimenticato quanto fosse grosso quell’uomo, che enorme barbone avesse, l’effetto drasticamente impressionante che faceva. — Entri, George! — disse con voce tonante. Heather era intimorita. Era imbarazzata. Haber la vide. — Signora Orr… lieto di vederla! Lieto che sia venuta! Venga dentro, anche lei!

— Oh, no. Io volevo soltanto…

— Oh, sì! Non pensa che questa sarà probabilmente l’ultima seduta di George? Non gliel’ha detto? Oggi pomeriggio sciogliamo le riunioni. Ed è bene che lei sia presente, certo! Venga. Ho fatto uscire prima dell’orario i miei assistenti. Non li ha visti correre come una mandria imbizzarrita, mentre venivate su con la scala mobile? Mi pareva preferibile avere l’ufficio tutto per me, questa sera. Ecco, si sieda qui. — E continuò a parlare; non c’era bisogno di dire nulla di significativo in risposta. Heather era soggiogata dal comportamento di Haber, dal tipo di esaltazione che trasudava da lui; non ricordava quanto era prorompente e cordiale, come se vivesse su una scala più grande di quella delle persone normali. Ed era veramente incredibile che un uomo come lui, una delle personalità più importanti del pianeta, un grande scienziato, avesse perso tutte quelle settimane a fare la terapia personale a George, che non era nessuno. Ma, naturalmente, il caso clinico di George era molto importante, dal punto di vista della ricerca.

— Un’ultima seduta — stava dicendo, mentre regolava le manopole di un apparecchio simile a un computer, posto sulla parete accanto al divano. — Un ultimo sogno controllato, e poi, credo, avremo risolto il problema. È pronto, George?

Heather notò come Haber pronunciasse spesso il nome di suo marito. Ricordò cosa aveva detto George, un paio di settimane prima: — Continua a chiamarmi per nome; credo lo faccia per ricordare a se stesso che è presente anche un’altra persona.

— Certo, sono pronto — disse George, e si sedette sul divano, alzando un poco la testa; lanciò un’occhiata verso Heather e sorrise. Haber cominciò subito ad attaccargli sulla testa tutti i suoi affarucci col filo, aprendogli i capelli per farlo. Heather ricordava il processo: una volta le avevano preso l’impronta cerebrale, nel corso di uno dei vari test e registrazioni che venivano fatti a ciascun cittadino della Federazione. Non le piaceva vederlo fare su suo marito. Come se gli elettrodi fossero delle piccole ventose che succhiavano dalla testa di George ogni pensiero e lo trasformavano in scarabocchi su un pezzo di carta; la scrittura senza significato dei pazzi. Il volto di George aveva un’espressione di estrema concentrazione. A cosa pensava?

Haber portò bruscamente la mano alla gola di George, come per strangolarlo, e, allungando l’altra mano, accese un registratore che ripeteva con la sua voce la formula dell’ipnotista: — Lei sta entrando nello stato ipnotico… — Dopo alcuni secondi, fermò il nastro e controllò l’ipnosi. George era in trance.

— Bene — disse Haber, e si fermò; evidentemente stava valutando la situazione. Enorme, come un orso grizzly rizzato sulle zampe posteriori, si ergeva tra lei e la piccola, passiva figura stesa sul divano.

— Ora ascolti con attenzione, George, e ricordi cosa le dico. Lei è in uno stato di ipnosi profonda, e seguirà esplicitamente tutte le istruzioni che le darò. Lei si addormenterà quando io glielo ordinerò, e farà un sogno. Farà un sogno efficace. Sognerà che lei è completamente normale… che è come tutti gli altri. Sognerà che una volta aveva, o pensava di avere, la facoltà di fare sogni efficaci, ma che questo non è più vero. I suoi sogni, d’ora in poi, saranno esattamente come i sogni di tutti gli altri; avranno significato soltanto per lei, non avranno effetto sulla realtà esteriore. Lei sognerà tutto questo; qualunque sia il simbolismo da lei usato per esprimere il sogno, il suo contenuto le impedirà di sognare, in futuro, in modo efficace. Sarà un sogno piacevole; lei si sveglierà quando pronuncerò tre volte il suo nome, e si sentirà perfettamente desto e riposato. Dopo questo sogno lei non sognerà mai più in modo efficace. Ora, si sdrai. Si metta comodo. Sta per addormentarsi. Lei dorme. Anversa!

Quando disse questa parola, le labbra di George si mossero, e pronunciarono qualcosa nella debole, remota voce di coloro che parlano nel sonno. Heather non poté capire cosa avesse detto, ma le venne subito in mente la sera prima: stava quasi per addormentarsi, raggomitolata accanto a lui, quando gli aveva sentito dire qualcosa: «erbe e renne», pareva. — Cos’hai detto? — gli aveva chiesto, ma lui non le aveva risposto, dormiva già. Come ora.

Provò una stretta al cuore vedendolo steso sul divano, con le braccia immobili ai fianchi, vulnerabile.

Haber si era alzato, e premeva un pulsante bianco sul fianco della macchina che era accanto al divano; alcuni elettrodi erano collegati a questa macchina, altri alla macchina dell’EEG, che Heather conosceva. La macchina toccata da Haber doveva essere l’Aumentore, la cosa su cui verteva tutta la ricerca.

Haber si avvicinò a lei, che era seduta in una poltrona molto soffice, coperta di cuoio. Autentico; si era dimenticata come fosse il contatto del vero cuoio. Era un po’ come il vinil-cuoio, ma molto più interessante sotto i polpastrelli. Aveva paura. Non capiva cosa stava succedendo. Lanciò un’occhiata verso l’immenso uomo che le stava davanti, l’orso-sciamano-dio.

— Siamo al culmine, signora Orr — disse Haber, abbassando la voce, — di una lunga serie di sogni indotti mediante suggestione. Da settimane andavamo gettando le basi per questa seduta, per questo sogno. Sono lieto che lei sia venuta; non avevo pensato a chiederle di venire, ma la sua presenza contribuisce a farlo sentire sicuro e fiducioso. George sa ehe non posso giocargli nessun tiro, se c’è lei presente! Giusto? A dire il vero, sono piuttosto sicuro del successo. Questa volta ce la faremo. La dipendenza da farmaci sonniferi scomparirà, una volta cancellata la paura ossessiva di sognare. È soltanto una questione di condizionamento… Devo dare un’occhiata all’EEG; ormai starà sognando. — Svelto e massiccio, Haber attraversò la stanza. Heather rimase a sedere, immobile, osservando il volto calmo di George, da cui era sparita l’espressione di concentrazione, anzi ogni espressione. Pareva morto.

Il dottor Haber era indaffarato con le sue macchine: vi trafficava senza interruzione, torreggiava al di sopra di esse, regolandole, sorvegliandole. Non si interessava affatto di George.

— Ecco — mormorò… ma non a lei, pensò Heather; Haber stesso era il proprio uditorio. — Così. Ora. Adesso una piccola interruzione, un periodo di sonno di stadio 2, tra i sogni. — Compì qualche manipolazione sul pannello di comandi alla parete. — Poi faremo una piccola prova… — Si avvicinò di nuovo a lei; Heather avrebbe preferito che Haber la trascurasse del tutto, invece di fingere di parlarle. Quell’uomo pareva ignorare gli usi del silenzio. — Suo marito ha dato un aiuto inestimabile alle nostre ricerche, signora Orr. Un paziente insostituibile. Ciò che abbiamo appreso sulla natura dei sogni, e sull’impiego dei sogni nella terapia di condizionamento, sia positivo che negativo, avrà un valore letteralmente inestimabile in ogni campo della vita. Lei certo sa cosa significa la sigla SURA: «Servizi Umani: Ricerca e Applicazioni.» Ebbene, ciò che abbiamo appreso da suo marito renderà un servizio immenso, letteralmente immenso, all’uomo. Una cosa stupefacente, nata da quello che pareva un caso banalissimo di parziale abuso di farmaci. E la cosa più stupefacente è che quei pasticcioni della Clinica Universitaria abbiano avuto il buon senso di riconoscere che si trattava di un caso eccezionale e che l’abbiano passato a me. È raro trovare un simile acume negli psicologi clinici accademici. — Aveva continuato a tenere d’occhio l’orologio, e ora disse: — Be’, torniamo alla macchina. — Riattraversò rapidamente la stanza. Pasticciò di nuovo con i comandi dell’Aumentore e disse forte: — George. Lei sta ancora dormendo, ma può ascoltarmi. Può ascoltarmi e comprendermi perfettamente. Accenni di sì col capo se mi sente.

Il volto calmo non cambiò espressione, ma la testa fece un cenno d’assenso. Come la testa di un burattino mosso dai fili.

— Ottimo. Ora, mi ascolti attentamente. Lei farà un altro sogno vivido. Lei sognerà che… che c’è una fotografia murale sulla parete, qui nel mio ufficio. Una grande fotografia di Monte Hood, tutto coperto di neve. Lei sognerà di guardare la riproduzione sulla parete dietro la scrivania, proprio qui nel mio ufficio. Bene. Ora lei dormirà e sognerà… Anversa.

Tornò a occuparsi della macchina. — Ecco — mormorò. — Ecco… Bene… Così.

Le macchine erano immobili. George era immobile. Perfino Haber cessò di muoversi e di mormorare. Non c’erano suoni nella stanza grande e poco illuminata, con la parete di vetro che dava sulla pioggia. Haber era accanto all’EEG, e fissava la parete dietro la scrivania.

Non accadde nulla.

Heather mosse le dita della mano sinistra, tracciando piccoli cerchi sulla superficie resistente e granulosa della poltrona, su quel materiale che un tempo era stato la pelle di un animale vivente, la superficie di separazione tra una mucca e il resto dell’universo. Il motivetto del vecchio disco suonato il giorno prima le tornò alla mente e si rifiutò di allontanarsene.

What do you see when you turn out the light?

I can’t tell you, but I know it’s mine…

Cosa vedi quando spegni la luce?

Non posso dirlo, ma so che è mio.

Non credeva che Haber riuscisse a starsene fermo, a starsene zitto, per un tempo così lungo. Solo una volta le sue dita corsero a una manopola. Poi ritornò immobile, con lo sguardo puntato sulla parete spoglia.

George sospirò, alzò una mano assonnata, si scosse e si destò. Batté le palpebre e si rizzò a sedere. I suoi occhi corsero immediatamente a Heather, come per assicurarsi che fosse ancora lì.

Haber si aggrottò, e con uno scatto premette il pulsante in fondo all’Aumentore. — Che diavolo! — esclamò. Fissò lo schermo EEG, su cui si rincorrevano ancora vivacemente le sottili linee spezzate. — L’Aumentore stava trasmettendo segnali di stadio-d; come diavolo ha fatto a svegliarsi?

— Non lo so — rispose George, sbadigliando. — Mi sono svegliato, e basta. Non è stato lei a ordinarmi di svegliarmi alla fine del sogno?

— Di solito faccio così, infatti. Al mio segnale. Ma come diavolo ha potuto vincere il segnale dell’Aumentare? … Dovrò modificare l’intensità; è chiaro che mi sono affidato un po’ troppo all’improvvisazione. — In questo momento, Haber parlava al suo Aumentore. Non potevano esserci dubbi. Terminata la conversazione, si volse bruscamente a George e gli disse: — D’accordo. Cos’ha sognato?

— Ho sognato che c’era una fotografia di Monte Hood sulla parete, dietro mia moglie.

Gli occhi di Haber corsero alla parete ricoperta di pannelli di legno, priva di fotografie, e poi a George.

— Nient’altro? Un sogno precedente… ne ricorda qualche elemento?

— Mi pare di sì. Aspetti un istante… Mi pare d’avere sognato che stavo sognando. Era un po’ confuso. Ero ai grandi magazzini… da Meier Frank, per comprarmi un vestito nuovo, con la tunica blu perché stavo per cambiare lavoro, o qualcosa di simile, non ricordo. Comunque, avevano una tabellina che mostrava quanto si doveva pesare con una certa altezza, e viceversa. E io ero proprio nel mezzo della scala delle stature e della scala dei pesi per uomini di corporatura media.

— Normale, in altre parole — disse Haber, e rise. Rise molto rumorosamente. Heather sobbalzò, dopo la tensione e il silenzio.

— Ottimo, George. Davvero, ottimo. — Diede una pacca sulla spalla a George e cominciò a staccargli dalla testa gli elettrodi. — Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo terminato. Lei è a posto! Lo sa?

— Penso di sì — rispose George, in tono mite.

— Il pesante fardello le è stato tolto dalle spalle. Giusto?

— Ed è passato sulle sue?

— Ed è passato sulle mie. Giusto! — Di nuovo quella risata tempestosa, immensa, ma, questa volta, leggermente sforzata. Heather si chiedeva se Haber era sempre così, o se era momentaneamente in uno stato di estremo eccitamento.

— Dottor Haber — disse suo marito, — non ha mai parlato dei sogni con un Alieno?

— Un aldebaraniano, vuol dire? No. Forde, a Washington, ha provato alcuni dei nostri test su un paio di Alieni, oltre ai soliti test psicologici, ma ha ottenuto dei risultati privi di significato. Noi, semplicemente, non abbiamo ancora risolto il problema della comunicazione. Sono intelligenti, ma Irchevsky, il nostro migliore xenobiologo, ritiene che forse non si tratta affatto di esseri razionali, e che quello che pare comportamento socialmente integrativo in mezzo agli uomini non è altro che una specie di istintivo mimetismo adattativo. Ma non si può dire. Non si può fare loro un EEG, e, in realtà, non si può neppure sapere se dormono o no, tanto meno se sognano.

— Conosce il termine iahklu’?

Haber tacque un istante. — L’ho sentito. È intraducibile. Lei ha deciso che vuol dire «sogno», «sognare»; è così?

George scosse il capo. — Non so cosa significhi. Non voglio darmi le arie di sapere cose che lei non sa, ma credo davvero che lei, prima di procedere con… l’applicazione della nuova tecnica, dottor Haber, prima di sognare, dovrebbe parlare con uno degli Alieni.

— E quale? — L’ironia era chiara.

— Uno qualsiasi. Non ha importanza.

Haber rise. — Parlare di che cosa, George?

Heather vide gli occhi di suo marito brillare, mentre alzava lo sguardo sull’uomo più alto. — Parlare di me. Dei sogni. Dello iahklu ’. Non importa. Basta che lei ascolti. Gli Alieni sanno cosa lei intende fare. In queste cose hanno più esperienza di noi.

— In quali cose?

— Nel sognare. Nelle cose di cui il sogno costituisce un aspetto. Essi le fanno da molto tempo. Da sempre, credo. Io non lo capisco, non posso esprimerlo a parole. Ogni cosa sogna. Il gioco delle forme, dell’esistenza, è il sogno della sostanza. Le rocce fanno un sogno, e la terra cambia… Ma quando la mente diviene cosciente, quando la velocità dell’evoluzione aumenta, allora bisogna andare molto cauti. Cauti, questa è la parola. Occorre imparare la via. Occorre imparare la tecnica, l’arte, i limiti. Una mente cosciente deve fare parte del tutto, intenzionalmente e cautamente, come la roccia fa inconsciamente parte del tutto. Capisce? Queste parole significano qualcosa, per lei?

— Non sono concetti nuovi per me, se questo è ciò che lei intende dire; l’anima del mondo e così via. Sintesi pre-scientifica. Il misticismo è uno dei modi di affrontare la natura del sogno, o della realtà, anche se non è accettabile da coloro che intendono usare la ragione, e che sono capaci di usarla.

— Non so se sia vero — disse George, senza il minimo risentimento, in tutta onestà. — Però, anche soltanto per pura curiosità scientifica, provi almeno a fare una cosa: prima di provare l’Aumentore su se stesso, prima di accenderlo, quando comincerà ad auto-suggestionarsi, pronunci queste parole: Er’ perrehnne. A voce alta o nella sua mente, non importa. Le pronunci una volta. Chiaramente. Ci provi.

— E perché?

— Perché serve.

— «Serve» a cosa?

— A ricevere aiuto dai suoi amici — disse George. Si alzò. Heather lo fissava terrorizzata. Aveva detto cose folli… la cura di Haber l’aveva fatto impazzire: lei ne aveva da tempo il presentimento. Ma Haber non gli rispondeva (o gli rispondeva?) come avrebbe risposto a un discorso psicotico o incoerente.

— Lo iahklu’ è una cosa troppo grande perché una persona possa maneggiarla da sola — diceva George. — Sfugge di mano. Gli Alieni sanno come controllarlo. Anzi, non proprio controllarlo, non è la parola giusta; ma tenerlo al suo posto, fargli seguire la giusta strada… Io non lo capisco. Forse potrà capirlo lei. Chieda il loro aiuto. Dica la frase Er’ perrehnne prima di… di schiacciare il pulsante di accensione.

— Forse c’è qualcosa d’interessante nelle sue parole, George — disse Haber. — Forse vale la pena di svolgere una ricerca. Me ne interesserò. Farò venire qui uno degli aldebaraniani del Centro Culturale, e vedrò di procurarmi qualche informazione sulla cosa… Tutto arabo, per lei, vero, signora Orr? Suo marito doveva fare lo psicologo, il ricercatore; è sprecato come disegnatore. — Perché diceva questo? George era un urbanista che si occupava di parchi e aree da gioco. — Ha l’intuito che occorre, ci arriva naturalmente. Non avevo mai pensato di sperimentare la macchina sugli aldebaraniani, ma potrebbe essere una buona idea. Però, forse lei, signora, sarà lieta che non sia uno psicologo, eh? Terribile avere un marito che analizza i nostri desideri inconsci dall’altra parte della tavola, eh? — Continuò a parlare con voce stentorea mentre li accompagnava all’uscita. Heather era sconvolta, quasi sul punto di piangere.

— Lo odio — disse con ferocia, mentre scendevano con la scala mobile elicoidale. — È un uomo odioso. Falso. Uno smisurato ciarlatano!

George le strinse il braccio. Non disse nulla.

— Hai finito? Hai davvero finito? Non avrai più bisogno di sonniferi, e non dovrai più venire a queste spaventose sedute?

— Credo di sì. Archivierà il mio caso, e tra sei settimane riceverò il certificato di proscioglimento. Se mi comporterò come si deve. — Sorrise, un po’ stanco. — Per te è stata dura, cara, ma non per me. Non questa volta. Però ho fame. Dove andiamo a cena? Al Casa Boliviana?

— Al Chinatown — disse lei, e subito s’interruppe. — Oh — fece ancora. Il vecchio quartiere cinese era stato demolito insieme con il resto del centro cittadino, almeno dieci anni prima. Chissà come mai, se ne era completamente dimenticata per un istante. — Volevo dire da Ruby Loo — aggiunse, confusa.

George le strinse ancora il braccio. — Andrà bene — disse.

Era facile arrivarci; la funicolare faceva capolinea dall’altra parte del fiume, nel vecchio Lloyd Center, uno dei più grandi centri d’acquisto del mondo, prima del Crollo. Oggi i grandi parcheggi a più piani avevano fatto la fine dei dinosauri, e molti dei negozi che fiancheggiavano il corso erano vuoti, sfitti. La pista per pattinaggio su ghiaccio era chiusa da vent’anni, e nelle strane, romantiche fontanelle di ghisa non scorreva acqua. Gli alberelli piantati a scopo ornamentale erano cresciuti rigogliosamente; le loro radici avevano incrinato il marciapiede per vari metri intorno ai pozzetti cilindrici. Il suono di voci e di passi risaltava vuoto e chiaro, davanti e dietro, mentre percorrevano quei lunghi porticati illuminati insufficientemente, a metà abbandonati.

Rudy Loo era sul terrazzino superiore. Le fronde di un ippocastano nascondevano buona parte della vetrina. In alto, il cielo aveva un colore verde intenso e delicato: il colore che si può scorgere brevemente nelle sere di primavera, quando c’è una schiarita dopo la pioggia. Heather alzò lo sguardo verso quel paradiso di giada, remoto, improbabile, sereno; il suo cuore s’innalzò, sentì che l’ansia cominciava a staccarsi da lei, come una pelle vecchia. Ma quella sensazione non durò. Ci fu uno strano rovesciamento, uno scivolamento. Qualcosa parve trattenerla, fermarla. Rallentò il passo e abbassò gli occhi dal cielo di giada ai portici davanti a lei, vuoti e oscuri. Quel posto le era diventato estraneo. — Lassù mi fa quasi paura — disse.

George scosse le spalle; ma il suo volto era teso, corrucciato.

Si era alzato un vento, troppo tiepido per l’aprile dei vecchi giorni; un vento umido e caldo che agitava le grandi fronde dell’ippocastano, che faceva turbinare le cartacce negli androni deserti. La rossa insegna al neon dietro le fronde pareva offuscarsi e ondeggiare col vento, cambiare forma; la scritta non diceva più Ruby Loo’s, anzi pareva non dire più niente. Nulla diceva più niente. Nulla aveva più significato. Il vento soffiava vuoto nei vuoti porticati. Heather si staccò da George e si diresse al muro più vicino; piangeva. Nel dolore, il suo istinto la portò a nascondersi, a correre verso un angolo e a non farsi vedere.

— Cosa c’è, cara? … Non c’è niente. Resisti, andrà tutto bene.

Divento pazza, pensò lei; non era George, il pazzo; non lo è mai stato; ero io.

— Non succederà niente — le sussurrò ancora una volta, ma lei capì, dalla voce, che George parlava senza convinzione. Capì dalle mani che non lo credeva.

— Cosa c’è? — esclamò disperata. — Cosa succede?

— Non lo so — rispose lui, quasi automaticamente. Aveva alzato la testa e l’aveva scostata un po’ da lei, anche se continuava ad abbracciarla per fermare la crisi di pianto. George pareva guardare, osservare, ascoltare. Lei sentì che il cuore gli batteva più velocemente.

— Heather, ascolta. Devo tornare.

— Tornare dove? Cosa sta succedendo? — la sua voce era sottile e acuta.

— Da Haber. Devo andare. Adesso. Aspettami… nel ristorante. Aspettami. Non seguirmi. — Si allontanò. Ma lei doveva seguirlo. George percorse senza guardarsi indietro, rapidamente, le scale, le arcate, superò le fontanelle asciutte e giunse alla stazione della funicolare. Una cabina era in attesa: George vi saltò dentro. Anche lei vi salì, senza fiato, mentre cominciava a muoversi. — Che cacchio, George? …

— Mi spiace. — Anche lui era senza fiato. — Devo andare lassù. Non volevo coinvolgere anche te.

— Coinvolgere in cosa? — Lo detestò. Si sedettero l’uno di fronte all’altra, ansanti. — Cos’è questa improvvisa follia? Perché vuol tornare?

— Haber sta… — La gola di George si seccò per un istante. — Sta sognando — disse. Un profondo terrore irragionevole si impadronì di Heather; lo ignorò.

— Sognando cosa? E allora?

— Guarda dal finestrino.

Heather aveva guardato soltanto lui, mentre correvano e mentre erano nella cabina. In questo momento la funicolare stava attraversando il fiume, alta al di sopra del livello dell’acqua. Ma non c’era acqua. Il fiume era asciutto. Il suo letto, illuminato dalle luci dei ponti, era screpolato e pieno di rigagnoli, sporco, pieno di sudiciume e ossa e rottami e pesci morti. Le grandi navi giacevano riverse e in rovina accanto ai moli alti e fangosi.

Le costruzioni della zona centrale di Portland Capitale del Mondo, gli alti, nuovi, armoniosi cubi di vetro e di marmo inframmezzati da misurate dosi di verde, le fortezze del Governo… Ricerca e Applicazioni, Comunicazioni, Industria, Pianificazione Economica, Controllo Ambientale… si stavano sciogliendo. Diventavano molli e tremolanti, come gelatina al sole. Gli spigoli erano già scivolati giù per le facciate, formando grandi gocce cremose.

La funicolare andava molto in fretta e non si fermava alle stazioni: doveva essere successo qualcosa al cavo, si disse Heather, senza sentirsene direttamente interessata. Passarono rapidamente sopra la città in dissoluzione, ma abbastanza a lungo da udire crolli e urla.

Quando la cabina si innalzò, apparve Monte Hood, dietro le spalle di George. Vedendo sul volto, o forse sugli occhi, di Heather, che gli stava davanti, il riflesso della sua luce cupa, George si voltò subito a fissare il grande cono rovesciato di fuoco.

Il vagoncino oscillò nell’abisso, tra la città che si stava sformando e il cielo senza forma.

— Tutto va per storto, quest’oggi — disse una donna dal retro della vettura, con voce tremante.

La luce dell’eruzione era terribile e magnifica. Il suo vigore possente, materiale, geologico era rassicurante, a confronto con l’area vuota che adesso si stendeva davanti alla cabina, al capolinea del Parco.

Il presentimento che aveva colpito Heather quando aveva distolto gli occhi dal cielo di giada era adesso una presenza. Era laggiù. Era un’area, o forse un tempo, che conteneva una sorta di vuoto. Era la presenza dell’assenza: un’entità che non poteva venire espressa in nessun modo, né quantitativamente, né qualitativamente, e in cui ogni cosa precipitava, senza che nessuna ne venisse restituita. Era orribile, e non era nulla. Era il modo sbagliato: il modo in cui le cose non dovevano andare.

In tutto questo si tuffò George, quando la cabina della funicolare si arrestò alla fine della corsa. Mentre vi entrava si guardò alle spalle, dicendo: — Aspettami, Heather! Non seguirmi, non venire!

Ma anche se lei cercò di obbedirgli, la cosa la raggiunse. Si estendeva come da un centro, rapidamente. Heather scoprì che tutto era scomparso e che lei era perduta nel buio spaventoso, e gridava senza voce il nome del marito, desolatamente; infine si lasciò andare a terra, raggomitolata intorno al centro del proprio essere, e cadde per sempre nell’abisso riarso.

Per pura forza di volontà, che riesce a essere davvero grande quando è esercitata nel modo giusto al momento giusto, George Orr si scoprì sotto i piedi i gradini di marmo che portavano alla torre del SURA. Avanzò, mentre i suoi occhi lo informavano che camminava sulla nebbia, sul fango, su cadaveri sfatti, su innumerevoli forme putride. Faceva molto freddo, eppure c’era puzzo di metallo rovente e di carne e pelo bruciati. Attraversò l’atrio; le lettere dorate dell’aforisma della cupola balzarono su di lui, UOMO U MO A A A. Le «A» cercarono di farlo inciampare. Salì su un nastro trasportatore, anche se non lo vedeva; passò su una scala mobile che lo fece salire verso il nulla, e che doveva essere sorretta costantemente dalla fermezza della sua volontà. Non chiuse neppure gli occhi.

Su, all’ultimo piano, il pavimento era di ghiaccio. Era spesso circa un dito, e trasparente. Al di sotto si vedevano le stelle dell’emisfero meridionale. Orr vi mise il piede sopra, e tutte le stelle emisero un suono forte e falso, come campane rotte. Il puzzo era molto intenso, e lo faceva soffocare. Andò avanti, tendendo le mani. Davanti a lui c’era la prima porta degli uffici di Haber: non poteva vederla, ma sentì il suo contatto. Un lupo ululò. La lava avanzò verso la città.

George avanzò ancora e giunse all’ultima porta. La spalancò. Dall’altra parte c’era il nulla.

— Aiutatemi — disse forte, perché il vuoto lo aspirava, lo tirava a sé. Da solo non aveva la forza di attraversare il nulla e di uscire dall’altra parte.

Ci fu una sorta di opaco risveglio nella sua mente; pensò a Tiua’c Ennebi, e al busto di Schubert e alla voce di Heather che esclamava con furia: — Ma che cacchio, George? — Forse erano le uniche cose che possedeva per attraversare il vuoto. Avanzò. E mentre avanzava, sapeva di doverle perdere.

Entro nell’occhio dell’incubo.

Era un’oscurità fredda, vagamente mobile, rotante, fatta di paura, che lo scagliava via, lo faceva a pezzi. Sapeva dove si trovava l’Aumentore. Tese la sua mano mortale nella direzione in cui vanno le cose. Toccò l’Aumentore; cercò il pulsante in basso e lo premette una volta.

Poi si stese a terra, coprendosi gli occhi e nascondendosi, perché la paura aveva fatto presa sulla sua mente. Quando alzò la testa e guardò, il mondo re-esisteva. Non era in buone condizioni, ma c’era.

Non si trovavano nella torre del SURA, ma in un ufficio più ordinario, più sporco, che George non aveva mai visto. Haber giaceva sul divano: massiccio, con la barba puntata verso l’alto. La barba aveva ripreso il suo colore rosso scuro, e la pelle era di nuovo bianca, non grigia. Gli occhi erano semiaperti e non vedevano.

Orr distaccò gli elettrodi, i cui fili correvano come vermi dal cranio di Haber all’Aumentore. Lanciò un’occhiata alla macchina, che aveva tutti i portelli aperti; bisognava distruggerla, pensò. Ma non aveva idea di come si potesse farlo, né aveva intenzione di provare. La distruzione non era il suo mestiere; e una macchina è perfino più irreprensibile, più innocente di un animale. Non ha altre intenzioni se non quelle che le diamo noi.

— Dottor Haber — disse, scuotendo leggermente le sue spalle massicce e pesanti. — Haber! Si svegli!

Dopo un poco, il grande corpo si mosse, e infine si rizzò a sedere. Era debole e rilasciato. La grande, bella testa ciondolava sulle spalle. La bocca era aperta. Gli occhi fissavano direttamente innanzi a sé, nel buio, nel vuoto, nell’an-essenza che era il centro di William Haber: non erano più opachi, erano vuoti.

Orr provò fisicamente paura di lui, e arretrò.

Devo trovare aiuto, pensò, non posso occuparmene da solo… Lasciò l’ufficio, attraversò una sala d’attesa che non conosceva, scese di corsa le scale. Non era mai stato in questo edificio e non aveva idea di cosa fosse, o di dove si trovasse. Quando giunse in strada, vide che era una via di Portland, ma nient’altro. Non era nei pressi di Washington Park, né nelle alture occidentali. George non era mai passato in quella via.

La vacuità dell’essere di Haber, l’incubo efficace che si era irradiato dal cervello sognante, aveva infranto molte connessioni. La continuità che aveva sempre regnato tra i mondi, o linee temporali, dei sogni di Orr, adesso era interrotta. Il Caos vi era penetrato. Orr conservava pochi, incoerenti ricordi della sua attuale esistenza; quasi tutto ciò che sapeva veniva dalle altre memorie, dagli altri tempi-sogno.

Altre persone, meno coscienti, forse erano meglio equipaggiate di lui per questo spostamento di esistenza: ma certo dovevano essere più atterrite di lui, dato che non avevano spiegazioni per quanto era successo. Avrebbero scoperto che il mondo era cambiato radicalmente, insensatamente, improvvisamente, senza che il cambiamento avesse una possibile causa razionale. Al sogno del dottor Haber sarebbero seguiti molto terrore e molti morti.

E perdite. E perdite.

Sapeva di averla perduta; lo sapeva da quando era penetrato, con il suo aiuto, nel vuoto terrificante che circondava il sognatore. Era andata perduta insieme con il mondo delle persone grige e con il grande, illusorio edificio in cui George si era precipitato, lasciandola sola nella rovina e nella dissoluzione dell’incubo. Era perduta.

Non cercò di trovare aiuto per Haber. Per Haber non si poteva fare più niente. E neppure per lui. Aveva fatto tutto ciò che era in suo potere di fare. Proseguì il suo cammino per le strade sconvolte. Dalle insegne, vide che era nella parte nordest di Portland, una zona che non conosceva. Le case erano basse, e dagli angoli si profilava a volte la montagna. Si accorse che l’eruzione era cessata; in effetti non era mai cominciata. Il Monte Hood si ergeva violaceo nel cielo d’aprile sempre più scuro, ed era spento. La montagna dormiva.

E sognava.

Orr continuò a camminare senza meta, seguendo prima una strada e poi un’altra; era esausto, e a volte provava la tentazione di stendersi per terra e di riposare per un po’, ma continuò ugualmente ad andare avanti. Ora si stava avvicinando a un quartiere commerciale, nei pressi del fiume. Nella città, semidistrutta e semitrasformata, miscuglio di piani grandiosi e di ricordi incompleti, la gente formicolava come impazzita; il fuoco e la follia si propagavano da una casa all’altra. Eppure c’era anche qualcuno che badava come sempre alle proprie faccende: laggiù c’erano due uomini che saccheggiavano una gioielleria, e dietro di loro veniva una donna che, con in braccio il figlio urlante e congestionato in viso, si dirigeva coscienziosamente verso casa.

Dovunque fosse «casa».