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Verso il tardo pomeriggio, Elena salì sul picco più alto dell’isola a due gobbe per guardare le prime fasi dell’eruzione. L’aveva accompagnata una moltitudine di ragazzi e bambini, piccole creature dalla pelle gialla, graziosamente sgambettanti, storditi dalla gioia all’idea di accompagnare la donna della Terra. Le rotolavano e sgambettavano accanto, mentre la processione risaliva la strada di montagna, e quando il gruppo, dopo aver girato intorno al cono, giunse in un punto da cui si poteva vedere l’altro picco, uno dei ragazzi disse:
«Vedi il fumo, Elena? Presto ci sarà anche il fuoco.»
Era Vondik che le aveva parlato, uno dei suoi prediletti, uno dei più agili e forse il più intelligènte. Quando Elena si spostò sul ciglio della strada per godere una visuale migliore, il ragazzo le scivolò accanto. La sua fredda mano a sei dita si posò casualmente sulla pelle nuda della gamba sinistra di lei, pochi centimetri sotto il fianco. Poi Vondik sollevò lo sguardo al viso di Elena per rendersi conto se lei disapprovava quel contatto. Certo, in una situazione diversa, sulla Terra per esempio, tra, alunno e maestra un simile contatto sarebbe stato assolutamente inammissibile. Ma quella non era la Terra, e Vondik voleva semplicemente dimostrare la sua premura. Aveva circa nove anni, quindi gli mancavano un paio d’anni per entrare nell’età adulta. Elena, comunque, si disse che in quel contatto innocente non c’era niente di sessuale.
Gli altri ragazzi chiacchieravano tra loro e indicavano il picco lontano. Elena aveva difficoltà a capirli per la rapidità con cui parlavano. L’avvicinarsi dell’eruzione li aveva eccitati e resi frenetici. Erano come scimmie, pensò Elena. Agili scimmie gialle che diventavano nervose all’avvicinarsi del temporale.
«Verrà il fuoco» disse Vondik. «Le pietre si scioglieranno e copriranno tutto. Capisci? Le colate di fuoco avanzeranno sui villaggi e li distruggeranno.»
«Fra quanto tempo?» domandò Elena.
Le dita di Vondik si strinsero sulla gamba della ragazza.
«Due tramonti, o tre. Domandalo ad Haugan. Domandalo al capo. Questa notte, quando vai a dormire con lui, fattelo dire.» Vondik scoppiò a ridere. «Vedi, c’è del fuoco. Lo vedi, Elena?»
Lei girò lo sguardo per la valle, che, da quel punto, offriva un panorama magnifico. Si potevano vedere i verdi pendii dell’altra montagna e due dei tre villaggi che erano sorti sotto la vetta del vulcano dopo l’ultima eruzione, avvenuta alcune generazioni prima. L’isola a due gobbe misurava circa dieci chilometri di diametro, e sorgeva con ripide sponde dalle scure acque del Lago Muuk. Il lago era un gigantesco bacino di qualche antico cratere, la base di quella che doveva essere stata una montagna incredibile. Misurava trenta chilometri di larghezza. A est, Elena poteva vedere il corso a zig-zag del Golden River, giallo per il fango delle montagne. Il fiume scendeva dal nord, sgorgando da fredde zone marnose per rifornire d’acqua il lago che si era formato nel cratere. Il lago pareva che non avesse sbocco. Elena immaginò che una corrente sotterranea portasse via il flusso giornaliero della nuova acqua. Le tonnellate di fango giallo che affluivano quotidianamente si perdevano nelle profondità del Lago Muuk, che rimaneva ostinatamente scuro e ostinatamente profondo, senza mai cambiare, nonostante tutto quello che il Golden River riversava nelle sue acque. Più lontano, oltre le rive del lago, Elena vide l’immensa savana tropicale, abitata da tribù ostili. La gente del lago, autosufficiente, non lasciava mai l’isola, benché le due montagne fossero vulcani attivi, e la più piccola delle due fosse prossima a una eruzione.
Una volta, dieci anni prima, Elena era salita sul Vesuvio. Era andata fino in cima e aveva guardato nella nera profondità della terra. Poi, rabbrividendo, aveva guardato verso la morta Pompei. Qui, però, non poteva avvicinarsi molto al cratere: per quella gente era terreno proibito. I villaggi sorgevano nella valle e si arrampicavano sui pendii per centinaia di metri. Sopra le ultime abitazioni si stendeva una grande cintura di foresta fitta, di terra mai coltivata, inviolabile e sacra. Più sopra ancora, si allargava la zona delle ceneri, che raggiungeva la sommità. Quando si erano sentiti i primi brontolii sotterranei, Elena aveva pensato di salire la montagna per valutare il pericolo da vicino. Haugan però glielo aveva proibito. Lui non era soltanto marito. Era anche il capo dei tre villaggi, il Re del Golden River, e non si poteva disobbedire. Così ora Elena si trovava sulle pendici della montagna disabitata, intenta a guardare dall’altra parte della valle, verso il vulcano minaccioso.
«Semina molta morte, quando scoppia» disse Vondik.
«Ma tutti saranno oramai in luogo sicuro» disse Elena.
I ragazzi scoppiarono a ridere. Fu un coro squillante e acuto, che, poco a poco, si affievolì. Quando era arrivata su quel pianeta aveva trovato la risata degli indigeni intollerabile. Poi si era abituata, e ora la trovava affascinante. Ma era logico ridere davanti a un vulcano minaccioso?
Il cielo si stava facendo scuro. Masse di nuvole rossastre si stavano avvicinando da est, dall’oceano, cariche di pioggia. Contro lo sfondò scuro del cielo, Elena poteva perfettamente vedere il materiale incandescente che veniva proiettato nell’aria dall’imbuto di cenere, e che ricadeva sull’isola. Si sentivano sibili e boati. Una fontana di ceneri e di pomice, di color rosso acceso, scaturiva dal cratere e ricadeva lungo i pendii. Attraverso le lenti di osservazione, Elena vide una pioggia di piccole particelle rosse zampillare nell’aria per poi ricadere e perdersi nel grigio delle ceneri che orlava la vetta. Ebbe un brivido. Quanto tempo sarebbe ancora passato prima che il vulcano lanciasse il materiale incandescente fino alla foresta sacra che ricopriva i fianchi della montagna e riversasse la lava fino ai villaggi affollati? La terra sembrava tremare, anche lì, a molti chilometri dal pericolo. Elena sapeva che sotto quell’isola, sotto i due picchi, si agitava una massa di fuoco liquido. Un mostro gigantesco che si stava risvegliando sotto i suoi piedi.
Adesso la mano di Vondik non era più sulla sua gamba. Elena si guardò attorno, e vide l’agile sagoma nuda del ragazzo in cima a un albero: Vondik colse un frutto dorato e lo lanciò. Gli altri ragazzi lo afferrarono al volo e vennero trionfanti verso di lei.
«Un frutto dell’allegria per te.»
Elena accarezzò la guancia del ragazzo per ringraziarlo, poi prese il frutto e lo addentò: i ragazzi rimasero a guardare ansiosi. Lei sorrise, per far capire che il frutto era polposo e squisito. I frutti dell’allegria venivano lasciati maturare sull’albero; ma se vi rimanevano troppo a lungo, il loro sapore diventava aspro. Elena provò un leggero stordimento quando l’alcool del frutto le scese nel corpo. I ragazzi le fecero delle piroette attorno. Come potevano essere così spensierati? Le loro abitazioni stavano per essere distrutte. Quella gente non era semplice e ignorante anzi era acuta e sensibile, in un modo tutto particolare. Eppure nessuno dava l’impressione di essere preoccupato.
Markun, una delle tante sorelle di Vondik, fece dei salti e alzò una mano.
«Adesso arrivano i lampi.»
Si era fatto buio con rapidità tropicale. Il cielo perlaceo era diventato color cenere, e ora la fontana di pomice brillava come una gigantesca candela, avvolta dalla nuvola nera dei gas dell’eruzione. E nella nuvola saettavano delle bianche striature di fulmini. In un primo momento, Elena pensò che provenissero dalla nuvole rossastre che aveva visto poco prima, poi si accorse che provenivano dalla nuvola che si stendeva come un velo sulla cima degli alberi della foresta, ai margini della zona di cenere. I fulmini erano qualcosa che aveva a che fare con le forze che si liberavano dal vulcano. Esplodevano e si allargavano con furia demoniaca.
«Ci conviene avviarci verso il villaggio» disse Elena con un certo nervosismo. «È tardi, e si sta facendo buio.»
I ragazzi non fecero obiezioni. Gridando e saltando, si avviarono giù per il pendio, fermandosi di tanto in tanto ad aspettare che lei li raggiungesse.
La discesa fu molto più difficile della salita: la forza di gravità era leggermente inferiore a quella della Terra. Elena era in perfette condizioni fisiche, aveva trent’anni ed era molto forte, ma il sentiero della montagna era scavato con un’inclinazione spaventosa. La salita aveva richiesto soltanto energia, cosa che lei aveva in abbondanza. La discesa le imponeva uno sforzo continuo di reni. Arrivarono ai piedi della montagna, e presto si trovarono a camminare sul terreno ondulato della valle. Comparvero le prime case. I fuochi per la cena erano già stati accesi. Presto Elena, al posto dei venti ragazzi che l’avevano accompagnata in cima alla montagna, venne a trovarsi circondata da cinquanta, cento, centocinquanta ragazzi, che la salutarono con acute grida di gioia, le si strinsero attorno, e le sfiorarono il corpo nudo con le mani.
Le era stato abbastanza facile abituarsi a circolare nuda, però non si era ancora abituata a vedere tanti bambini. Sulla Terra, dove le nascite venivano rigidamente controllate, i bambini si vedevano di rado. Su quel pianeta, il controllo delle nascite era sconosciuto, e, per di più, tra la razza indigena i parti plurimi erano normali. Elena non aveva mai sentito dire che una donna di quel pianeta avesse dato alla luce meno di tre gemelli. Anche sei e sette gemelli non erano una grande rarità. E i bambini prosperavano. L’aria era calda e pura, la valle fertile, e il lago dava pesce in abbondanza.
Con grida gioiose, i ragazzi accompagnarono Elena fino alla Divisione delle Vie.
Quello era un popolo unito, e di una sola cultura. Tuttavia, i tre villaggi erano divisi da barriere di costumi e di casta, alti quanto immense pareti. Largo, il villaggio che sorgeva nella valle, era un agglomerato agricolo; Hulgo, ai piedi del vulcano, era un villaggio di artigiani e di vasai; Gilgo, il villaggio sul pendio, era abitato dai lavoratori incaricati dei lavori pesanti, dai boscaioli, e dai costruttori di canoe. Elena non vedeva una ragione plausibile per questa divisione arbitraria, se non quella di dare agli abitanti dell’isola una struttura esogamica. Un uomo di Gilgo sposava una donna di Largo o di Hulgo. Nessuno sposava mai una donna del proprio villaggio. Questo creava una continua mescolanza delle popolazioni. Ma, a parte i matrimoni, c’erano pochissimi contatti tra gli abitanti di un villaggio e l’altro.
Haugan, il capo dei tre villaggi, abitava nella parte alta di Gilgo. Governava i due villaggi più bassi tramite incaricati. Non c’era molto da fare, tranne il proclamare le celebrazioni e le feste, e amministrare occasionalmente la giustizia. Elena prese la strada per Gilgo, seguita da Vondik, Markun e da pochi altri ragazzi. Sull’isola era discesa un’oscurità umida. Elena cominciava a sentire la stanchezza. Respirava a fatica e sentiva la pelle appiccicosa. Si appoggiò pesantemente al bastone che Vondik le aveva tagliato. Quando entrarono in Gilgo, Elena si fermò a riposare: era soltanto una bionda donna della Terra, esile e nuda, lontana da casa, avvolta in un mantello di preoccupazioni e di umidità.
Guardò verso l’alto, verso la vetta fumante visibile attraverso le piante. Una gigantesca nuvola, orlata da una continua accensione di lampi, sovrastava il picco. A Elena parve che il brontolio sotterraneo si fosse fatto più forte ed ebbe l’impressione che l’aria fosse piena di minuscole particelle di cenere. Si sentì il corpo sudicio, ma passandosi le dita sul petto non si produsse quelle striature che si era aspettata. Riprese a camminare in fretta, avviandosi verso la grande capanna che divideva con Haugan.
Il re le venne incontro e l’abbracciò solennemente.
«Cos’hai visto?»
«Fuoco, fumo e lampi. Haugan, sta per verificarsi una eruzione.»
«Non ancora, non ancora. La cena è pronta.»
La fece entrare. Era più alto di lei… Era l’uomo più alto di tutto il villaggio, come si conveniva, e si muoveva con grazia che la faceva sempre sentire in stato di inferiorità in sua presenza. Malgrado fosse così diverso da lei, Elena gli aveva sempre risposto in un immediato modo fisico, fin dal giorno in cui era arrivata su quel pianeta, spintavi dal suo sciocco desiderio di cercare la verità sugli altri pianeti. Non aveva immaginato di poter diventare la moglie di un extraterrestre.
Certo, Haugan non era molto diverso da un uomo. Aveva troppe dita e troppe articolazioni, la sua pelle era strana e gli occhi erano tutta pupilla; non aveva né capelli né unghie, e lei non riusciva a immaginare come fossero gli organi interni; tuttavia, la conformazione generale del suo corpo era umana. L’evoluzione, rispetto alle specie mammifere dominanti, era arrivata alle identiche conclusioni della Terra. Haugan si teneva eretto, due delle sue quattro membra erano adibite alla deambulazione e due alla prensione e manipolazione degli oggetti; aveva la fronte, gli occhi e i denti sullo stesso piano facciale, e, nell’atto sessuale, si comportava esattamente come gli umani. Elena aveva smesso di considerarlo “diverso”.
Si sdraiarono sul giaciglio.
La cena, composta di carne in umido, vino verde e vegetale, venne servita in silenzio da Leegar, una serva di Haugan. Leegar era al sesto mese di una nuova gravidanza! Haugan logicamente era il padre. Era una prerogativa del capo, quella di poter prendere delle concubine. La ragazza era riservata, ma lasciava trasparire una certa spavalderia. Nel mettere il piatto di fronte a Elena sorrise. “Tu puoi essere la moglie del re” parve dire Leegar “ma io faccio i suoi figli.”
Elena non si era ancora completamente abituata alla vista delle donne con la tripla fila di seni che partivano dal collo e arrivavano all’ombelico. Era una cosa naturale, considerando il fatto che quelle donne avevano sempre parti multipli, tuttavia a Elena sembrava una cosa indicibilmente strana, superiore alle stranezze del corpo di Haugan. Quella sensazione sembrava reciproca. Di notte, quando erano coricati uno accanto all’altro, le mani di Haugan si fermavano spesso sul suo ventre piatto, quasi in continua meraviglia per la mancanza dei seni inferiori.
«Non hai fame?» domandò Haugan.
«Il vulcano mi ha fatto paura, Haugan.»
«Dio ci manda tutte le benedizioni. Siamo preparati a tutto ciò che può succedere.»
«Ma io l’ho visto chiaramente» disse Elena. «Sembra una pentola in ebollizione. Da un momento all’altro ci può seppellire nella lava.»
«I sacerdoti lo stanno osservando. La lava non verrà per diversi giorni ancora.»
«Diversi giorni! Ma…»
Esitò. Spesso si era trovata a dargli spiegazioni, scivolando nel ruolo dell’intelligente donna della Terra che narra cosa sia l’universo. Ma lei odiava quella rappresentazione di se stessa. Quello era il suo mondo, la sua isola, il suo reame. Ed era stupido immaginare di essere superiore ad Haugan per il semplice fatto che la civiltà terrestre possedeva scafi interstellari, mentre quella gente fabbricava ancora vasi di terracotta.
«Che cosa consigli?» domandò Haugan con calma.
«Non so. Mi sembra logico…»
«Cosa?»
«Cominciare l’evacuazione dei tre villaggi e far spostare tutti sull’altra montagna. Non restiamo fermi qui, sotto il cratere, in attesa di essere uccisi.»
«C’è tempo per l’evacuazione.»