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«Certo, in aereo. Potresti fermarti anche di più, fino al giorno in cui inizia la scuola.»
«Posso portare la mia micia? Sennò soffre di solitudine!» La gatta nera di Gabby le era stata donata per il suo terzo compleanno. Poi lo sviluppo della gatta aveva subito preso il suo ritmo naturale sorpassando in poco tempo la crescita della bambina, i comportamenti da cucciolo avevano ben presto ceduto all’altera presunzione tipica della sua razza molto prima che Childes se ne andasse.
«Non mi pare una buona idea, e poi la mamma si sentirebbe sola senza compagnia, ti pare?». Non vedeva la figlia da sei mesi e si chiedeva quanto potesse essere cresciuta; Gabby sembrava crescere a sbalzi, sorprendendolo ogni volta che la vedeva.
«Sì, forse hai ragione, volevi parlarci con la mamma?»
«Sì grazie!»
«Non c’è. Se vuoi ti passo Janet; è lei che bada a me adesso.»
«Oh, va bene, passami un attimo Janet.»
«Vado a chiamarla. Ciao papà. A proposito, ieri ho spruzzato la micia di porporina per farla luccicosa.»
«Scommetto che si è divertita un mondo.»
«No, invece! S’è incavolata un sacco e starnutisce di continuo e mamma dice che non gliela togliamo più.»
«Chiedi a Janet di passarle l’aspirapolvere addosso, vedrai che il grosso lo toglierete, sempre che riusciate a tenerla ferma.»
Gabby fece una risatina allegra. «Scommetto che si arrabbia da matti, dico a Janet che le vuoi parlare, va bene?»
«Brava!»
«Ciao pà, ti voglio bene!»
«Ti voglio bene anch’io.» rispose, sentendo il ricevitore sbattere prima ancora che avesse finito. Si sentirono i passetti risuonare in lontananza e la vocina gridare.
Altri passi, più pesanti, poi il ricevitore fece di nuovo un fruscio.
«Signor Childes?»
«Ciao Janet, come va?»
«Bene! Fran è al lavoro fino a tardi, quindi l’aspetto. Sono andata a prendere Gabby a scuola come d’accordo.»
«Per il lavoro tuo come va?»
«Niente ancora! Comunque ho un paio di colloqui la settimana prossima, non proprio quello che cerco ma a questo punto mi va bene tutto! Facciamo le corna.»
Lui le espresse la sua solidarietà. Janet era una ragazza sveglia ma con poche qualifiche. Con le difficoltà di impiego che c’erano, lei così giovane e inesperta, figuriamoci!
«Voleva lasciar detto qualcosa a Fran?» chiese Janet.
«No, no. Volevo parlare con Gabby. Chiamerò domani caso mai.»
«Le dirò che ha chiamato.»
«Sì, grazie Janet, e buona fortuna per i colloqui.»
«Mi ci vorrebbe proprio. Arrivederci signor Childes.»
La linea tornò muta e lui si ritrovò da solo nel cottage. C’era sempre una sorta di brutalità nel riattaccare il telefono in quei casi. La mano ferita gli faceva male, pulsava. La gola era estremamente secca. Rimase in piedi accanto al telefono per qualche momento. I suoi pensieri correvano alla bimba poi all’ispettore di polizia che si era occupato del caso dei bambini trucidati anni prima, e che era riuscito con il suo aiuto a rintracciare l’assassino maniaco. Le sue dita presero il ricevitore ma non riuscì a fare il numero. Amy aveva torto, non c’era motivo di chiamare la polizia. Cosa poteva dirgli? Non era ceno in grado di individuare la persona che aveva disseppellito il bimbo morto, non aveva nemmeno un indizio riguardo al dissacratore, né su dove potesse essere. Fin quando non aveva letto il giornale non sapeva nemmeno cosa fosse successo o se fosse accaduto in Inghilterra: aveva, sì, creduto che la visione fosse vera, non una fantasia, ma gli era sembrata più vicina, sull’isola. No, non aveva niente da dire alla polizia, proprio niente. Staccò la mano dal telefono.
La nascita di Gabby era stata difficile, un trauma.
Era uscita dall’utero a piedi in avanti di un colore blu violaceo tanto da aver quasi fatto svenire di paura Childes che era rimasto a fianco di Fran durante l’intero parto. Aveva pensato che un cosino così fragile e raggrinzito e di quel colore poi, non avrebbe mai potuto sopravvivere. L’ostetrica l’aveva capovolta estraendole del muco dalla cavità orale senza avere il tempo di rassicurare i genitori: si curava solo della vita del neonato. Riuscì a liberare la piccola dall’ostruzione, quindi soffiò forte nella piccola gola per stimolarne il respiro. Il primo grido fu appena un flebile lamento quasi impercettibile ma riuscì a dare sollievo a tutti i presenti, medici, infermieri e genitori compresi. Era stata fasciata e posta sul seno della madre, il cordone ombelicale reciso con destrezza. A quel punto Childes, che era mentalmente esausto quanto Fran lo era tìsicamente, sentì crescergli dentro una calda sensazione d’orgoglio e mentre le guardava le stanchezza gli si trasformò in una serena rilassatezza.
Fran aveva i lineamenti stravolti dalla fatica, invecchiati, la bimba ancora sporca e umida di sangue aveva il viso accartocciato e segnato come quello di un vecchio, ma ambedue riposavano dopo la battaglia per la vita. Lui si era chinato su di loro attento a non schiacciarle ma con il bisogno di sentirle vicine. L’odore sterile dell’ospedale si mischiava al puzzo di sudore e in quel momento lui pensò che nulla avrebbe potuto mai distruggere il loro sodalizio, la loro unità.
Durante le settimane successive era come se Gabby emergesse lentamente da un lungo e terribile trauma, ed era in fondo così, una transizione dal semplice esistere alla coscienza dell’essere. Egli iniziò allora a capire quale shock si accompagna sempre alla vita.
Il sonno si prendeva buona parte della sua vita in quei primi giorni, concedendo momenti dolcissimi in cui imparare, assorbire, alimentarsi; la trasformazione che si andava compiendo era meravigliosa ed affascinante da osservare. La sua crescita era per lui un miracolo, passava ore intere semplicemente a guardarla, vederla crescere, diventare una bimbetta che camminava con le gambette incerte, che aveva un grande amore per il proprio pollice e per uno straccio che una volta era stata la copertina della culla. La sua prima parola lo aveva deliziato anche se non era stata ‘papà’, e quel bisogno assoluto di lui e di Fran accompagnato da un amore senza remore aveva influito anche in altri campi della sua vita. Gabby gli aveva insegnato che tutti gli essere viventi sono altrettanto vulnerabili; la carriera inesorabile in un settore asettico fatto di macchine e teorie aveva smorzato in lui questa sensibilità.
Questa riscoperta passione lo aveva quasi distrutto quando aveva visto con la mente l’uccisione di quei poveri bambini.
Dopo tre anni quelle immagini lo sconvolgevano ancora e ora erano più vivide e potenti.
Childes aveva passato la serata preparando esercizi per la lezione del giorno dopo, quel martedì pomeriggio che aveva promesso alla Piprelly e che era già operativo. Tra non molto ci sarebbero stati gli esami e l’informatica ne avrebbe fatto parte. Era irritato dal fatto che i suoi pensieri continuassero ad andare a Gabby, agli anni di felicità che aveva trascorso in famiglia, anche se Fran non aveva mai del tutto rinunciato all’idea di riprendere la sua carriera di PR. Erano avvenute però troppe cose che avevano rovinato quella breve felicità, e gli anni successivi non erano stati sufficienti a disperdere l’angoscia.
Fissò senza vederli i fogli sparsi sul tavolino di fronte a lui, la lampada da tavolo gettava all’intorno ombre cupe. Dormiva Gabby? Con gli occhiali accanto al cuscino per darle sicurezza? Guardò l’orologio, le nove e mezza. Doveva essere a letto. Chissà se Fran leggeva ancora una storiella per farla addormentare, ma forse di questi tempi era troppo impegnata, troppo stanca quando arrivava a casa. Childes raccolse le carte pensando preoccupato al fatto che quando aveva fatto un giro di domande botta e risposta alle ragazze, alcune di loro non avevano ancora capito la differenza tra computer digitali ed analogici, o che ve ne erano di misti. Roba facile, basilare, che non avrebbe dovuto creare problemi. L’idea degli esami era un dramma, confidava comunque che gli esercizi pratici avrebbero sortito risultati migliori della teoria.
Si passò una mano sugli occhi stanchi, le lenti parevano carta vetrata sulle pupille. Cibo, pensò, dicono che il cibo faccia bene. Sono stanco, tanto. Un panino, va’! E un bicchiere di latte, anzi forse un bicchierino di qualcosa di forte.
Stava per alzarsi quando un dolore gelido, lancinante, lo colpì dentro la testa.
Childes si mise entrambe le mani sulle tempie stordito dall’inaspettata sensazione. Strinse gli occhi, cercò di liberarsi dal gelo. Ma invano.
Fuori udiva il vento far frusciare le fronde degli alberi. Da qualche parte scricchiolò una trave che si assestava dopo il tepore della giornata.
Il dolore si attenuò e lui scosse la testa come se avesse avuto le vertigini. Troppo scrivere, pensò, troppa concentrazione, fino a tarda ora. Un concentrarsi disturbato dai pensieri di Gabby. E di altre cose.
Un goccetto potrebbe farmi rilassare un poco. Si alzò, premendo con le mani sulla scrivania. Il gelo gli prese di nuovo i nervi facendolo ondeggiare; si attaccò al bordo della scrivania per sorreggersi.
I pensieri gli si accavallarono nella testa, il gelo ora somigliava a delle dita che gli frugassero nella mente, cercando di carpirgli i pensieri e… e… sembrava… nutrirsene. Le spalle gli si incurvarono, la testa appesantita. Le labbra si ritirarono come per un dolore, ma non vi era dolore, solo quel terribile gelo e la confusione mentale. Gli sfuggì un grugnito.
Poi la mente gli si liberò. Rimase in piedi appoggiato alla scrivania, il respiro pesante, aspettando che passasse del tutto. Sembrò un tempo molto lungo, eppure Childes sapeva che erano stati solamente pochi secondi. Attese che i nervi scossi si quietassero poi attraversò la stanza e si versò un bel po’ di whisky. Stranamente non sapeva di niente.
Il sorso successivo quasi gli andò di traverso, il sapore era tornato forte. Sputando si passò il dorso della mano sulle labbra. Che accidenti gli capitava? Assaggiò di nuovo la bevanda stavolta con attenzione, a piccoli sorsi. Si sentì riscaldare.
Childes si guardò attorno incerto di quel che cercasse, sentendo però un’altra presenza. Sciocco, non c’era nessuno oltre a lui nella stanza, non era entrato nessuno di nascosto mentre lavorava alla scrivania.
Le ombre gettate dal lume lo infastidirono e si diresse verso l’interruttore sul muro accanto alla porta, allungò la mano fasciata per accendere la luce centrale, poi si guardò le dita sorpreso del formicolio improvviso che avvertiva, come se avesse preso una scossa prima ancora di toccare l’interruttore. Guardò poi l’altra mano mano che reggeva il bicchiere di whisky; anche quella ora formicolava, sembrava anzi che fosse il bicchiere stesso a tremare. Quelle invisibili, insidiose dita ripresero a frugare.
Il corpo gli cedette e si lasciò andare sul divano accasciandosi nella sua morbidezza come se portasse un peso. Il bicchiere cadde a terra, il liquido si sparse sul tappeto. Childes chiuse gli occhi sentendo aumentare il senso di intrusione. Tante immagini gli vorticavano nella mente, matrici numeriche, visi, la stanza in cui era ora, numeri, simboli, sparivano e riapparivano, avvenimenti del passato, il suo stesso viso, la sua anima, le paure, sogni dimenticati da tempo venivano richiamati e frugati a fondo.