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I muscoli di Childes si rilassarono un poco quando il gelo si attenuò di nuovo. Il torace si sollevava e abbassava in modo convulso. Guardò le ombre sull’altra parete. Qualcosa, qualcuno stava cercando, stava cercando di conoscerlo.
Quasi senza intervallo quel frugare riprese, facendogli tendere il corpo, infiltrandosi nella sua coscienza. NO! urlò la sua mente. «No!» urlò lui davvero. Ma era lì, dentro di lui, cercava, gli succhiava i pensieri. Lui ne sentiva la presenza, che gli frugava dentro come una specie di ladro psichico. Lo invase tutto osservandogli i pensieri, dell’isola, delle scuole in cui insegnava, pensieri di Amy, di Fran, di… Gabby. Di GABBY!
Sembrò indugiare interessato.
Childes si tirò su dal divano lottando contro quella coscienza estranea, strappando ognuno dei gelidi tentacoli quasi fossero entità fisiche. Sentì che allentavano la presa e lo sforzo lo fece cadere in ginocchio. Si sforzò di fissare il pensiero su una foschia biancastra, nient’altro, niente che potesse distrarlo o dare un appiglio all’intruso; dopo un poco la testa sembrò sgombrarsi.
Ma prima di sentire un vero e proprio sollievo, che lo lasciò esausto e tremante sul pavimento, sentì un suono così reale che si guardò intorno fin negli angoli più bui della stanza.
Era solo. Ma quella sinistra risata repressa sembrava vicina.
Jeanette era in ritardo. Le altre ragazze della camerata erano già tutte scese e lei era ancora lì in vestaglia a spazzolarsi vigorosamente i denti.
Ma proprio oggi accidenti! Esami! Bleah! Matematica! Jeanette era ormai convinta di essere una capocciona quando si trattava di numeri.
La luce del mattino inondava il bagno facendo luccicare la fila di lavandini di porcellana; l’acqua era sparsa in piccole pozzanghere sul pavimento di piastrelle testimoniando delle abluzioni delle ragazze. Era sola, preferiva così: le altre la mettevano in imbarazzo quando confrontavano dimensioni e forme del loro seno tutte ansiose di primeggiare nella gara verso l’adolescenza compiuta. Jeanette era buona ultima, molto indietro rispetto alle altre tredicenni e quattordicenni della sua classe e non ci teneva affatto a fare confronti. Questo stato di inadeguatezza era aumentato dal fatto che non le erano ancora venute le mestruazioni.
Jeanette si sciacquò la bocca, sputò nel lavandino e si asciugò il viso con un asciugamano. Poi buttò alla rinfusa le cose da toilette nella borsetta di plastica rosa. Saltellò con i piedi nudi fino alla porta e quasi scivolò sul pavimento, poi percorse il corridoio in ombra lasciando impronte umide mentre correva sull’impiantito di legno. Era vietato camminare a piedi nudi a scuola ma non aveva avuto tempo di cercare le pantofole disperse sotto il letto, e poi tutti, compreso il personale, erano giù a fare colazione.
Faceva freddo nella camerata che divideva con altre cinque ragazze, nonostante il sole fuori fosse già alto. Jeanette stese rapidamente sul letto disfatto gli indumenti, mutandine rigorosamente blu, come da regolamento, maglietta bianca. Si lasciò scivolare dalle spalle la vestaglia imbottita, si strappò via il pigiama senza sbottonarlo e lo lanciò sul letto accanto ai vestiti. Si strofinò le braccia per farsi passare l’improvvisa pelle d’oca e allungò il braccio per raccogliere la maglietta. Prima di infilarsela si guardò il torace e sospirò delusa. I capezzoli erano evidenti, ora eretti a causa del freddo, ma quei leggeri gonfiori da cui sporgevano non erano certo soddisfacenti. Si pizzicò i capezzoli per farli indurire di più e massaggiò i gonfiori sperando che ciò favorisse la loro crescita. Una leggera sensazione di caldo piacere la pervase tutta e lei s’immaginò di avere un seno già formato. Si sedette sul letto con ancora indosso i pantaloni del pigiama premendo sotto le mani i due gonfiori. Era piacevole e lei pensò che forse poteva… no, non c’era tempo per quella roba, era già abbastanza in ritardo.
Tirò via il pigiama e si infilò rapidamente le mutandine, la maglietta e le calze bianche recuperate in fondo al cassetto accanto al letto. Dato che il tempo andava facendosi bello le ragazze del La Roche avevano avuto il permesso di indossare le divise estive, vestitino azzurro con maniche corte. Jeanette se lo infilò e poi le scarpe, che avevano bisogno di una buona lucidata. Rimise in ordine il letto nascondendo sotto le lenzuola gli indumenti da notte. Poi prese una spazzola strapazzandosi i capelli ingarbugliati facendo smorfie di dolore. Il piccolo specchio bordato di blu con una farfallina dipinta in un angolo rifletteva il risultato, non del tutto soddisfacente. Nonostante la fretta Jeanette cercò i segni di qualche fioritura notturna. Aveva quasi del tutto eliminato la cioccolata dalla sua dieta, e faceva di tutto per finire tutte le verdure che le venivano date fino a sfiorare quasi la nausea, eppure puntualmente quei maledetti foruncoli apparivano ogni volta che c’era qualche occasione particolare. Ma oggi non era un giorno speciale, solo quegli accidenti di esami, e la sua pelle era pulita, senza un segno. Avrebbe scommesso chissà che cosa che il giorno del suo matrimonio ce ne sarebbero stati in quantità e lei avrebbe dovuto portare il velo per tutta la durata della cerimonia con addosso la paura di baciare il suo sposo a cui lei sarebbe sembrata come un gelato alla crema con dentro pezzi di fragola.
Jeanette avvicinò ancora di più lo specchio guardando i propri occhi scuri, sognando di poterci leggere il suo futuro. Era stata spesso sgridata, sia dai genitori che dai docenti perché, passava troppo tempo a sognare e troppo poco a pensare; aveva tentato di pensare alle cose serie ma dopo qualche minuto i pensieri le sfuggivano e si perdevano in fantasie. Ci provava, ci provava tanto, ma sembrava che i suoi pensieri avessero una volontà tutta loro. Vedere il cielo attraverso una finestra significava immaginare di volare sopra gli alberi, sopra le onde increspate di bianco, non come un uccello ma come uno spirito libero. Il sole sul viso la portava in deserti assolati, spiagge dorate, giornate calde trascorse… e la parola la faceva eccitare terribilmente… con il suo amante. Odorare il profumo di un fiore dava corso a tutta una serie di pensieri sull’origine della vita, animali piccoli e grandi, e di cos’era lei. Vedere la luna…
Un’ombra le passò dietro.
Si girò ma non c’era nessuno, solo lei, la camerata era vuota.
Poster e ritagli di giornale lastricavano i muri con cantanti pop, attori, tennisti, tagli di capelli, modelli di vestiti, e stupidaggini varie. C’erano un paio di orsacchiotti e di bambole rappezzate, tenute più come mascotte che per la tenera compagnia che avevano fatto negli anni precedenti. Delle sculture mobili appese sopra ai letti rotearono come se ci fosse stata una brezza.
Non c’era nessuno, eppure Jeanette sentiva una presenza.
Le tornò la pelle d’oca sulle braccia. Il sole sembrava meno luminoso. Si scostò dall’armadietto e con passi cauti passò tra le file dei letti tenendosi bene al centro, controllando l’ombra sotto ognuno di essi come se dovesse uscirne una mano per agguantarle la caviglia. Poi accelerò il passo verso la porta.
Con un balzo fu fuori, si voltò a guardarsi indietro, ma non vide altro che una camerata vuota piena di poster colorati, imbottite vivaci sui letti vuoti. Il sole riempiva la stanza disperdendo le ombre.
Non c’era proprio nessuno. Lei comunque si allontanò di corsa.
Allargò le gambe sopra di lui scuotendo vigorosamente i capelli, inondandolo di goccioline salate. Lui aprì un occhio schermandolo con la mano dai raggi ancora forti, nonostante fosse pomeriggio inoltrato. La pioggia di gocce sul petto lo rinfrescò gradevolmente.
«Com’è?» chiese Childes.
«Fredda!» rispose Amy inginocchiandosi accanto a lui, mentre strofinava rapidamente i capelli con un grosso asciugamano di spugna. «Ma stupenda. Perché non fai un tuffo anche tu?»
Lui richiuse gli occhi e rispose pigramente. «Troppa fatica togliermi le lenti». Non accennò al fatto che era da quella disgraziata volta quando erano andati a pesca che non nuotava. Quel quasi annegamento di un mese prima lo aveva lasciato piuttosto timoroso dell’acqua.
«Ma dai! Staresti bene dopo una bella rinfrescata.» Gli piazzò una mano umida sulla pancia ridendo della immediata contrazione dei suoi muscoli.
Lui la tirò verso di sé godendo del suo corpo bagnato, del sapore di sale e di mare. «Devo riposarmi, non sforzarmi.»
«Riposarti? Ma se non fai proprio niente da una settimana, grazie agli esami.»
«Giusto, e non intendo che cambi.»
Amy si avvolse nell’asciugamano lasciando cadere i lembi attorno ai loro corpi stesi. Premendogli sul torace gli mordicchiò le labbra. «Bello!» fece lui. «È come baciare un’ostrica.»
«Non ho capito bene se è un complimento o no». I lunghi capelli umidi bagnarono il viso di lui che si allungò a leccarle brevemente il mento.
C’erano poche persone sulla spiaggia a quell’ora, le orde di turisti inglesi ed europei non erano ancora arrivate, e la popolazione dell’isola era ancora alle prese con il lavoro quotidiano. L’insenatura aveva una bella striscia di sabbia dominata a un capo da un bunker tedesco a tre piani, un gigantesco monolite di calcestruzzo a ricordare le terribili e ancora recenti vicende. Rocce aguzze, che sembravano appena cadute dalla scogliera chiudevano l’altro lato.
«Hai fatto la pace con papà?» chiese Childes.
Amy sapeva bene che quell’uso della parola papà era teneramente scherzoso, una presa in giro del suo modo di chiamare il padre, e ormai non si offendeva più. «Beh, io tengo il broncio a lui e lui lo tiene a me. Ma alla fine dovrà accettare i fatti.»
«Non ne sarei troppo convinto, sai.»
«Non è mica un orco, Jon. Non ce l’ha con te personalmente.»
«A me era sembrato proprio di sì la settimana scorsa, quando ha messo la pulce nell’orecchio alla Piprelly.»
«Pip non si lascia dire quello che deve fare da nessuno. E comunque per essere giusti con papà… devi ammettere che qualcosina di strano nel tuo passato c’è.»
Lui sorrise arrotolandosi i capelli di lei attorno a un dito. «Ti turba ancora, eh?»
«Come non potrebbe Jon? Soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti. Sai quanto ti amo, come posso dimenticarmi certe cose.»
«Non è più successo niente, Amy, più niente dalla cena. Non sono più tanto a disagio, non salto più su per un nonnulla. Non so spiegartelo ma è come se mi fossi tolto un grosso peso, per adesso almeno.» Non le aveva detto niente di quella sera da solo nel cottage quando quella strana tensione nella sua mente lo aveva messo in ginocchio. Nei giorni successivi quella sensazione di angoscia si era andata dissolvendo come se dall’esterno qualcuno alleggerisse un peso, una fattura malefica. Egli sentiva che la minaccia lo aveva scansato. Nonostante ciò l’eco di quella risata maligna gli risuonava ancora nella mente.
«Lo spero Jon» disse Amy per concludere il discorso, allontanando gli ultimi dubbi. «Io preferivo il vecchio Jon, quello che avevo incontrato allora. Tranquillo, senza problemi, alle volte buffo…», gli tirò dolcemente i capelli, «alle volte sexy.» Lui la prese per i capelli tirandola a sé, la baciò sulle labbra teneramente poi con furia crescente, le lingue si cercavano freneticamente rincorrendosi nelle loro bocche umide. Il corpo di lei si avvinghiò al suo con foga.
«Ehi, andiamo piano,» disse lui ansimando, «ho solo il costume addosso e siamo in un luogo pubblico.»
«Non ci vede nessuno» fece lei carezzandogli il collo e premendolo forte con le cosce.
«Non si comporta così una collegiale.»
«La scuola è finita.»
«Anch’io sarò finito se continui così.»
«Uh. Fai vedere se si è svegliato.»
«Amy!» l’ammonì lui.
Lei ridacchiò.