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Da dove stavano si vedeva il largo viale del lungomare che costeggiava il porto dove, ondeggiavano le cime degli alberi degli yatch allineati.
«Manca ancora un po’ all’ora di pranzo» disse alle ragazze, «perché non facciamo un giro giù al porto?»
Strillarono di contentezza e si misero ordinatamente su due file. Childes si mise alla testa, chiedendo soltanto che chiacchierassero facendo meno rumore. Per la prima volta quella settimana sentiva un ritorno di equilibrio mentale. Il sole, le chiacchiere delle ragazze, la normalità dei dintorni contribuivano all’effetto. Dopo l’esperienza con la pietra gli era rimasto addosso uno strano senso di inutilità, e dopo la conversazione con Amy erano venuti a galla dei ricordi che sarebbe stato meglio lasciare sepolti. I giorni seguenti gli episodi oscuri e la rigidità della sua educazione erano tornati a tormentarlo, anche se capiva di non avere più odio per il padre. Aveva rimosso da un pezzo quel sentimento, insieme ad altri purtroppo. Stranamente proprio il padre lo aveva costretto a quell’esercizio di autocensura. Ed era per questo che adesso teneva testa alle situazioni, con un autocontrollo che nasceva da quell’antica abitudine a reprimere. Persino gli ultimi macabri eventi e il nuovo manifestarsi del suo potere potevano essere sconfitti con l’aiuto del sole e della normalità. Erano le notti, le notti buie che erano alleate dell’orrore.
Childes adocchiò una panchina libera di fronte a uno degli stabilimenti balneari e sei delle ragazze ci si lanciarono sopra quando lui la indicò, stringendosi a spintoni nel poco spazio. Le altre si appoggiarono alla ringhiera di fronte.
Il porto era gremito di turisti e residenti, macchine e autobus bianchi circolavano lentamente lungo il perimetro, le banchine erano affollate di auto parcheggiate. Due stabilimenti racchiusi da moli di cemento erano pieni di yatch e motoscafi di ogni tipo e misura, i pescherecci dell’isola erano ancorati a moli più isolati e tranquilli dall’altro lato del porto. Dall’estremità di una delle banchine si ergeva un faro dipinto di bianco mentre sull’altro un fortino era a guardia del porto. Negozi e bistrò si affacciavano sul mare con le facciate a colori vivaci. All’intorno alcune gradinate sfociavano in ripidi vicoli che tagliavano la collina a terrazze e come freschi corridoi in ombra conducevano verso la cittadina in alto.
«Due di voi oggi faranno la loro buona azione quotidiana a favore di un anziano» disse Childes avvicinandosi. Lo guardarono con curiosità e lui indicò con il pollice. «Su, fate sedere il professore.»
«Isobel conta per due, professore?» chiese Kelly con allegra malizia indicando la compagna grassottella seduta all’altro capo della panchina. Si udirono altre risate e una protesta indignata.
«Penso che prenderò il tuo di posto, Kelly. Così potrai fare anche tu una buona azione.»
Lei si alzò senza una smorfia, ma negli occhi c’era sempre un lampo di sfida. «Tutto ciò che desidera, signore.»
Lui tirò fuori il portafoglio. «Potete scegliere crema o fragola, niente frutti misti, cioccolato doppio con le mandorle, niente triplo mango o mandarino o kiwi. Niente che ci possa complicare la vita, OK? E poi ci vogliono altre due volontarie che vadano con Kelly.»
Con un’espressione golosa e con sospetta rapidità Isobel si alzò mentre le altre gongolavano e si offrì. «Vado io, signore.»
«Oh, no!» si lamentò qualcuna. «Non ci rimarrà più niente ora che torna.» Vi furono altre risate e un’occhiataccia da parte della ragazzina grassoccia.
«Va bene» disse Childes, sedendosi nel posto lasciato da Kelly e porgendo due biglietti estratti dal portafoglio. «Perché non vai anche tu Jeanette?». Sorrise alla ragazzina appoggiata alla ringhiera e la vide mettersi sull’attenti. «Penso di poterti affidare la grana, no?». Lei prese i soldi quasi con timidezza evitando di guardarlo negli occhi. «Tu prendi le ordinazioni Einstein,» disse rivolto a Kelly, «il mio alla vaniglia, e state attente alla strada, la signorina Piprelly non me la perdonerebbe mai se tornassi con la combriccola decimata.»
Si avviarono, Kelly e Isobel che ridacchiavano insieme mentre Jeanette le seguiva più lentamente. Childes le tenne d’occhio fin quando non ebbero attraversato il viale pieno di traffico, poi spostò l’attenzione sul porto per guardare il traghetto dall’Inghilterra avvicinarsi cautamente al molo. Più al largo alcune vele bianche punteggiavano il mare calmo come piccoli coni rovesciati; sopra di loro un Trislander giallo, un velivolo a dodici posti che faceva la spola tra le isole quasi come un autobus, iniziò la discesa con il suo ronzio sordo, monotono quanto quello delle api.
Si ricordò che per fortuna il traffico e il caos che lo circondavano erano solo una parentesi stagionale, una breve interruzione alla pace e alla calma dell’isola, e anche ora bastava guardare al largo, i gabbiani in picchiata sul mare leggermente increspato, per sentirsi pervadere da una calma serenità.
Si rilassò, felice di vedere che anche le ragazze stavano bene in sua compagnia; queste gite divertivano loro tanto quanto lui. Incominciò a fare delle domande relative alla sala dei computer della Rothschild per appurare quanto avessero capito e assorbito, ma presto la conversazione andò oltre i limiti scolastici: egli trovò i commenti delle ragazze interessanti e qualche volta anche divertenti, e si ricordò che spesso queste gite favorivano una maggiore conoscenza tra docente e alunni. Childes decise di pianificare una sortita simile anche con i ragazzi del Kingsley; non sarebbe stata forse una mattina così piacevole, Childes già anticipava di dover applicare una maggiore disciplina per poter tenere a freno la maggiore aggressività dei maschi.
Kelly, Isobel e Jeanette tornarono cariche di coni gelato tra l’entusiasmo delle compagne. Childes fece un sorriso a Jeanette che, infilatasi una mano in tasca, ne trasse il resto.
«Grazie» le disse.
«Grazie a lei, signore» rispose, una parte di timidezza scomparsa.
«Hai capito qualcosa di ciò che hai visto stamattina?» le chiese.
«Oh sì, credo di sì… beh… qualcosa per lo meno.»
«Non è difficile come sembra, una volta che ci fai l’abitudine tutto va al suo posto, una volta che hai capito bene le cose basilari. Vedrai!» aggiunse consolante. Poi rivolto alle altre esclamò: «Ehi, chi l’ha preso il mio?»
«Oohh. Mi scusi» disse Kelly ridendo. «Non lo mangiavo mica sa.»
Il gelato si andava già sciogliendo, scivolando in rivoli bianchi lungo la mano che lo reggeva.
Lui prese il gelato e lei si portò subito la mano alla bocca per leccarsi via la crema sciolta.
In quel mentre gli arrivò alle narici l’odore di bruciato. Un odore singolare. Come di carne che cuoce, no peggio, molto peggio. Come di carne bruciata.
Guardò Kelly: la mano che teneva alla bocca era annerita, pelle bruciacchiata appesa all’osso nudo. Una mano deforme, un artiglio carbonizzato.
Sentiva le risate delle ragazze attorno a sé, ma parevano giungere da lontano. Sentì qualcosa di appiccicoso sulla coscia, abbassò lo sguardo e vide una goccia di crema bianca scivolargli lungo i pantaloni.
Quando guardò di nuovo Kelly, stava mangiando il gelato con tutte le altre e si leccava la mano sana, integra.
La strada era ampia e tranquilla, scarso il traffico.
Le case erano tutte indipendenti, con garage privati e piccoli giardini sul davanti, tutti molto ben tenuti. I giardini sul retro dovevano essere grandi: il tipo di zona, benestante senza essere ricca, lo indicava chiaramente. La macchina si muoveva lentamente, l’autista alla ricerca di un numero, una casa particolare. L’auto si arrestò dolcemente davanti a quella casa e il suo occupante la osservò attentamente.
Sapeva che lui non ci sarebbe stato: la bambina con la vocina buffa come lo erano spesso le voci infantili, aveva detto al telefono che papà era andato a vivere su un’isola, certo che ricordava il nome dell’isola, aveva sette anni e mezzo, no?
Attese in macchina, guardando inosservato, era un sabato mattina presto, un’ora in cui gli abitanti delle case riposavano dopo le fatiche quotidiane della settimana. Ora che aveva trovato la casa l’autista sarebbe ritornato con il buio, la notte lo avrebbe protetto.
Ma d’un tratto si fece più attento: una bambina aveva girato l’angolo della casa correndo dietro a un gatto nero. Un fremito percorse tutto il suo laido corpo.
Il gatto saltò sopra un muretto che delimitava il giardino e si arrestò quando fissò la forma oscura raggomitolata nella macchina parcheggiata. Il pelo dell’animale si arruffò, la coda si irrigidì e gli occhi gialli fiammeggiarono. Poi sparì, costretto alla fuga dalla paura.
Al suo posto apparve il visetto di una bimba, che sbirciava oltre il muretto.
La figura nella macchina guardò ancora un attimo, poi aprì la portiera dell’auto.
Fran si stiracchiò, spalancando la bocca in un gigantesco sbadiglio, assaporando il languore del risveglio, mugolando di piacere. Si girò su un fianco e i capelli chiari le caddero sul cuscino.
Un fine settimana da sola, finalmente. Niente impegni, niente clienti a cui badare, niente incontri, niente telefonate. E nemmeno giornalisti starnazzanti e produttori televisivi che chiedevano interviste a clienti che comunque rifiutavano all’ultimo momento per un capriccio qualsiasi. Neanche quel continuo dover tenere a bada soci in affari e clienti, anzi, soprattutto clienti. Credevano tutti che qualsiasi divorziata anche solo belloccia fosse a disposizione di tutti. Un’occasione per poter passare un po’ di tempo con Gabby, povera piccola abbandonata, la più brava bambina del mondo. Dio dammi t forza di alzarmi a prepararle una colazione come si deve, pensò. Ancora dieci minuti a letto, però.
Gabby era già entrata prima per il bacino del risveglio e per un fugace abbraccio sotto le coperte. Dopo aver promesso alla sua mammina una buona tazza di tè, era poi scomparsa; si erano solo sentiti gli strilli per chiamare a sé l’adorata micia.
Fran era contenta che Douglas non si fosse fermato per la notte. Non che fosse implicito, ci teneva alla famiglia lui. Douglas Ashby era un ottimo socio in affari, e un amante splendido e fantasioso; sfortunatamente per lei era anche un bravo marito (con una sola infedeltà, lei) e non stava mai via di casa più del necessario. Mah, forse era meglio così, gliene era bastato uno di uomo importante nella vita. Sapeva che a Gabby il padre mancava molto, e negli ultimi due anni c’erano state delle volte in cui aveva rimpianto di essere stata così intollerante nei suoi confronti, ma il troppo è troppo. Avevano dovuto affrontare entrambi la verità, che non erano fatti l’uno per l’altra.
Però sarebbe stato bello avere un uomo accanto nel letto adesso. Strano come una nottata di splendido amore le facesse l’effetto di svegliarsi ancora vogliosa. Il lamento soffocato questa volta era segnato da un accenno di frustrazione. Il tè Gabby, il tè. Salva tua madre dalla vergogna.
Fran si alzò a sedere sul letto ammucchiando i cuscini dietro la schiena. Contemplò la propria immagine nello specchio di fronte al letto dall’altro lato della stanza. Niente male, si disse. Seni sodi e poca ciccia da pizzicare. I capelli lunghi e folti senza ombra di tintura. Lo specchio, troppo lontano, pietosamente non rifletteva quelle rughette fastidiose attorno agli occhi e al collo. Alzò il lenzuolo per guardarsi la pancia. Beh, qualche esercizio ci vuole prima che ciò che per ora si può definire un po’ rilassato diventi ‘flaccido’. Le cosce erano OK invece: snelle e ben tornite come sempre. Peccato che un corpicino così venisse poco adoperato. Fran lasciò cadere il lenzuolo.
Sollevò la testa a guardare il soffitto; bisogna che faccia qualcosa con la piccola oggi, pensò. Potremmo andare a fare shopping, poi a pranzo fuori in qualche posto. Sì, le piacerebbe. Forse anche al cinema stasera, si potrebbe invitare anche Annabel. Anche questo le piacerà. Devo passare più tempo con Gabby, accidenti al lavoro! La figlia stava diventando precocemente matura, forse un po’ troppo responsabile per una bambina della sua età. Gli anni dell’innocenza sono troppo preziosi per bruciarli così. Era sorprendente, considerando quanto poco si vedessero, quanto incominciava a somigliare al padre. Erano entrambi miopi, ma la somiglianzà andava al di là dei tratti somatici. Fran udì il rumore di una macchina fuori che partiva allontanandosi lungo la strada.
Chiuse gli occhi, ma era inutile: anche se era stanca il sonno se n’era andato, la testa ormai le ronzava, piena di pensieri, la maggior parte inutili. Ma perché, perché, quando poteva rilassarsi, il cervello non glielo permetteva? E dov’era Gabby con quella benedetta tazza dite?
Si alzò dal letto e raccolta una finissima sottoveste dalla sedia, se l’infilò andando verso la porta. Sporgendosi oltre la balaustra chiamò: «Gabby! Sto morendo di sete, io! Arriva questo tè?»
Non ci fu risposta.
Lei si girò nel letto, Childes rimase immobile per non svegliarla.
Aveva un seno scoperto, le curve delicate lo tentarono. Ma resistette. Il desiderio di assaggiare quelle labbra appena schiuse nel sonno era però irresistibile.