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Guidò la Mini attraverso lo stretto ingresso davanti alla vecchia casa di pietra, uno spiazzo che egli aveva ripulito dagli sterpi e dai rovi quando era arrivato. Spense il motore. Lasciò la borsa con le cose del mare e saltò giù dalla macchina cercando goffamente la chiave del portoncino. La chiave non voleva entrare nella toppa. Finalmente gli riuscì, sospinse la porta e infilò il corridoio, appena in tempo. Lo stomaco gli salì come un ascensore e vomitò nel fondo della tazza del piccolo bagno, ma gli parve di aver rigettato solo una piccola parte della roba che gli torceva le viscere. Si soffiò il naso con della carta e tirò lo sciacquone, guardando la carta morbida avvitarsi fin quando non venne rapidamente risucchiata. Si tolse gli occhiali dalla montatura scura e si lavò il viso con l’acqua fredda tenendo le dita premute sugli occhi, rinfrescandoli. Childes si guardò nello specchio mentre si asciugava il viso: il riflesso era pallido, le occhiaie scure sembravano finte. Allungò le mani tendendo le dita che non riusciva a tenere ferme.
Si rimise gli occhiali, passò nel soggiorno e si chinò per passare attraverso la porta; non era poi tanto alto ma l’edificio era vecchio, i soffitti bassi e ancor di più le porte. La stanza era di dimensioni ridotte, ma lui non vi aveva piazzato troppa roba; un vecchio divano logoro, una TV portatile, un tavolinetto quadrato, le basse scansie che incorniciavano il caminetto erano ricolme di libri; su una di queste, accanto a una lampada c’erano delle bottiglie con dei bicchieri. Jon prese una bottiglia di scotch e se ne versò una robusta dose.
Fuori la pioggia cadeva decisa. Egli rimase accanto alla finestra che dava sul giardinetto posteriore, guardando fuori incupito. Il cottage, in fila con altri appena distaccati tra di loro, sul retro dava su campi aperti. Una volta le case erano state alloggi per braccianti della tenuta, ma la tenuta era stata frazionata e venduta da un pezzo. Childes era stato fortunato a trovarne una in affitto, poiché sull’isola era difficile trovare case libere. Era stata la preside, Estelle Piprelly, ansiosa si avere a disposizione la sua abilità con i computer, ad indicargli quel luogo. Il suo notevole prestigio lo aveva aiutato poi ad ottenere il contratto di locazione.
In lontananza sulla penisola s’intravedeva appena il college, una strana accozzaglia di edifici che si era sviluppata negli anni in tanti stili poco armonici. La struttura principale, con una torre, era bianca. Ma da così lontano era appena una protuberanza grigiastra attraverso il velo della pioggia, contro il cielo abbrunato da nuvoloni rigonfi.
Quando Childes era fuggito dall’Inghilterra, dalla pubblicità perniciosa, dagli sguardi curiosi, non solo di amici e colleghi, ma anche di sconosciuti che avevano visto il suo volto alla televisione o nei giornali, l’isola aveva rappresentato un rifugio sicuro. Qui vi era una comunità chiusa in se stessa, le complicazioni della madrepatria erano tenute volutamente a distanza. Eppure, per quanto raggomitolata su se stessa, quella comunità non aveva avuto difficoltà ad accoglierlo tra i poco più di cinquantamila abitanti. L’interesse morboso, le accuse — il ricordo gli fece stringere forte il bicchiere — erano alle sue spalle, e voleva che rimanesse così.
Childes vuotò il bicchiere e se ne versò un altro; come il brandy di prima anche lo scotch aiutava a far scomparire dalla bocca il sapore amaro che vi ristagnava. Tornò alla finestra ma vide riflesso solo il fantasma di se stesso. La giornata stava già scivolando nell’oscurità.
Ma si trattava della stessa cosa? Le immagini che gli erano apparse sott’acqua potevano ancora avere a che fare con quei terribili incubi e visioni che lo avevano tormentato tanto tempo prima? Non sapeva cosa pensare, l’essere quasi affogato gli aveva alterato la memoria. Eppure per un attimo, mentre giaceva ansimante sulla spiaggia aveva avuto la certezza che le visioni fossero tornate.
Fu preso dal terrore. Aveva freddo eppure il sudore gli bagnava le tempie. L’ansia gli strinse la gola, una nuova angoscia lo colpì.
Uscì nell’ingresso, alzò il telefono e compose un numero. Dopo poco rispose una voce ansimante.
«Fran?», chiese dipingendone il viso sul muro di fronte con la fantasia.
«E chi sennò? Sei tu Jon?»
Seguì una lunga pausa, poi la sua ex moglie disse: «Beh? Mi hai chiamata, avevi qualcosa da dirmi?»
«Dov’è… come sta Gabby?»
«Sta bene tutto sommato. È qui accanto da Annabel, giocando a chi fa più casino. Credo che Melanie avesse intenzione di esiliarle in giardino, ma ci si è messo il tempo, qui sta diluviando. Lì come va?»
«Lo stesso, credo che sia in arrivo un temporale.»
Ancora un silenzio.
«Senti Jonathan, ho un po’ da fare. Devo essere in città per le quattro.»
«Lavori anche di sabato adesso?»
«In un certo senso. Oggi arriva a Londra un nuovo autore. L’editore vuole che lo coccoli un po’, devo spiegargli il programma del giro che farà la prossima settimana.»
«Non poteva pensarci Ashby?»
Rispose secca. «Mandiamo avanti l’agenzia in due, io faccio la mia parte. E poi còs’altro t’aspetti da una carrierista rinata a nuova vita?»
L’accusa, appena velata, colpì nel segno, e lui si chiese se lei sarebbe mai riuscita ad accettare il fatto che lui se ne era andato. Scappato, avrebbe detto lei.
«E di Gabby chi si cura?»
«Cenerà da Melanie, poi passa Janet a prenderla.» Janet era la ragazza che Fran aveva assunto come baby-sitter quotidiana. «Rimarrà con Gabby fin quando non torno. Va bene così?»
«Senti Fran… non volevo dire…»
«Nessuno t’ha costretto, potevi fare a meno di andartene.»
«Potevi fare a meno di restare lì.» rispose quieto.
«Mi chiedevi di rinunciare a troppe cose.»
«Ma l’agenzia era solo part-time, allora.»
«Ma per me era importante. E adesso lo è ancora di più, deve esserlo. È poi c’erano altre ragioni, la nostra vita.»
«Era diventata un inferno.»
«E di chi è stata la colpa?». La voce le si ammorbidi, come se si pentisse delle proprie parole. «Va bene, lo so, le cose sfuggivano al tuo controllo: ho cercato di capire, di affrontarle. Ma sei stato tu a voler scappare.»
«C’era dell’altro, e tu lo sai.»
«Io so che alla fine tutto si sarebbe risolto!». Sapevano entrambi cosa intendeva dire.
«Non ne puoi essere certa.»
«Senti, adesso non ho tempo di discuterne, mi devo sbrigare. Darò i tuoi baci a Gabby e magari ti chiamerà domani.»
«Vorrei vederla presto.»
«Beh, non lo so. Forse a fine trimestre. Vedremo.»
«Fammi un favore Fran.»
Lei sospirò, la rabbia era svanita ormai. «Dimmi.»
«Passa da Gabby prima di andare via. Un salutino, sai! Assicurati che stia bene.»
«Ma che ti piglia, Jon? L’avrei fatto comunque, ma cosa ti viene in mente?»
«Niente, niente, sarà questa vecchia casa vuota. Uno si preoccupa, sai com’è.»
«Mi sembri strano. Sei veramente tanto giù?»
«Passerà! Scusa il disturbo.»
«Non ti preoccupare. Ti serve qualcosa, Jon, vuoi che ti mandi qualcosa?»
Gabby! Mandami mia figlia. «No, grazie, non mi serve niente. Va tutto bene. Grazie lo stesso.»
«Okay. Adesso devo proprio andare.»
«Buona fortuna col tuo autore.»