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«Mi ha toccata ed era tanto fredda, ghiacciata, mamma. Annabel era così triste.»
Nelle profondità della mente di Childes qualcosa si mosse, un ricordo dimenticato da tempo.
Il pacchetto arrivò il lunedì mattina con la prima posta ed era indirizzato a JONATHAN CHILDES. Sia il suo nome che l’indirizzo di Fran erano scritti in stampatello con una grafia minuta e ordinata. La busta era gialla e di formato normale.
Dentro c’era una scatoletta di dieci centimetri per dieci.
Dentro la scatola c’era della carta velina arrotolata.
Avvolti nella carta c’erano sei oggetti.
Cinque erano le piccole dita di una mano.
L’ultimo era una liscia, bianca pietra di luna.
La vita continuò, come al solito.
Childes fece ritorno all’isola dopo due giorni di interrogativi estenuanti da parte della polizia, e non prima di aver visto la figlia e l’ex moglie al sicuro in casa della nonna, che abitava in un tranquillo villaggio alle porte di Londra. Non le aveva accompagnate per evitare che qualsiasi dettaglio del viaggio gli rimanesse impresso nella memoria.
Nonostante non avesse potuto fornire alla polizia alcun indizio in più, era sicuro che soltanto le rassicurazioni dell’ispettore Overoy li avevano convinti a lasciarlo partire. Né il timbro postale, di un quartiere periferico di Londra, né la meticolosa calligrafia dell’indirizzo sul macabro pacchetto avevano fornito indizi utili alle indagini. Non c’erano tracce di saliva sull’involucro, la busta era del tipo autoadesivo, e non c’erano impronte chiare sulla busta o sulla scatola. Alla stampa non era stato fatto cenno della pietra di luna che era assieme alle dita mutilate; la polizia evitava sempre di provocare delitti di mitomani che imitavano gli altri. Che ci potesse essere un collegamento con altri casi non fu negato, anche se gli inquirenti si rifiutarono di spiegare il perché.
Childes beneficiò della discrezione delle autorità e riuscì a lasciare il paese prima che certe ovvie conclusioni venissero fatte dai mass media. Il suo contatto psichico con l’assassino era rimasto segreto. Il rapporto del medico legale dichiarò che le dita erano state mozzate quando la vittima era già morta, una magra consolazione dall’orrore.
Il corpo di Annabel non fu mai trovato e a lui non venne alcuna visione, malgrado cercasse più volte di scrutare nella propria mente.
Non doveva accadere più nulla per alcune settimane.
Nel sogno guardava il bambino dai capelli scuri e sapeva che quel bimbo era lui stesso.
Era seduto diritto sul piccolo letto con le lenzuola ammucchiate all’intorno, ed era piccolo, tanto piccolo. Parlava, ripeteva sempre le stesse parole come in una litania senza senso.
«…non puoi… non puoi essere…»
Ai piedi del letto una figura di donna, una statua d’avorio immobile nella luce della luna. Emanava una tristezza inconsolabile, e così come l’osservatore dormiente sapeva di essere quel bimbo, sapeva anche che la donna era sua madre. Ma era morta.
«…lui dice che… non puoi… non puoi essere…» mormorava il ragazzino, e la tristezza tra la donna e il bambino, tra madre e figlio, si fece immensa.
Poi il figlio si accorse dell’osservatore, i suoi occhi sorpresi guardarono in alto verso l’angolo più buio del soffitto, guardò se stesso dritto negli occhi.
Ma l’attimo svanì appena si sentirono dei passi pesanti nel corridoio. Svanì anche la visione spettrale della madre.
L’ombra scura e ondeggiante di un uomo si stagliò contro la porta; Childes fu colpito dalla sensazione di disperazione e di rabbia che fluiva dal padre in ondate minacciose, una furia carica di colpe che saturava l’aria. Childes si ritrasse, così come fece il se stesso bambino, quando l’uomo ubriaco avanzò con i pugni alzati.
«Te l’avevo detto,» urlò il padre, «mai più! Mai più…» Il ragazzino gridò sotto le coperte mentre cadevano i colpi.
Childes cercò di gridare, di dire al padre di lasciar stare quel bambino che non poteva fare a meno di evocare il fantasma, lo spirito della madre; che lei era tornata per rassicurarlo, per fargli sapere che l’amore non era morto con il suo corpo minato dal cancro, che l’amore vive sempre, che la tomba non era una prigione, che lei lo avrebbe amato sempre e che lui avrebbe potuto sempre saperlo grazie a questo suo dono particolare che gli permetteva di vederla… Ma il padre non ascoltava, non udiva, l’ira superava ogni sentimento, ogni emozione. Aveva detto al figlio che non vi era vita dopo la morte, che i morti non potevano fare ritorno per tormentare i vivi, che la madre era morta piena di odio e che aveva meritato la lunga sofferenza perché Dio condannava coloro che avevano l’animo corrotto dall’odio, e che non poteva risorgere per parlare d’amore quando era colma di rancore per lui, per il marito, il padre del suo bimbo, e che non esistevano gli spiriti o i fantasmi perché persino la chiesa negava la loro esistenza, e non c’era niente del genere, niente, niente…!
Le urla del bambino si erano trasformate in singhiozzi, la punizione stavolta era stata peggiore di tutte le altre. Ben presto la coscienza iniziò a svanire mentre il bimbo chiudeva la propria mente, rigettando volutamente ciò che stava accadendo, ciò che era accaduto. Childes, l’uomo, il testimone dormiente si rese conto che rigettava anche ciò che sarebbe accaduto in futuro.
Si svegliò piagnucolando, come aveva fatto tanti anni prima, da bambino.
«Jon, che cos’hai?»
Amy si sporgeva su di lui, i suoi capelli gli carezzavano la guancia. «Avevi un incubo, come l’altra volta, ripetevi sempre le stesse parole, poi hai gridato a qualcuno di smetterla, di fermarsi.»
Aveva il fiato corto, rapido, il torace gli pompava come un mantice. Lei aveva acceso la lampada sul comodino e il suo dolce viso era un sollievo dopo l’incubo, nonostante l’angoscia evidente.
«Mi… mi ha costretto lui…» mormorò.
«Chi, Jon? Cosa?»
Si stava riprendendo velocemente. Childes rimase sdraiato ancora qualche momento, raccogliendo le idee. Poi si tirò su in modo da poggiare la schiena contro il muro. Amy era accoccolata al suo fianco, le ombre accentuavano le curve del suo corpo sinuoso e il lenzuolo le cadde attorno ai fianchi. Con la mano gli tolse i capelli scuri davanti agli occhi.
«Cosa ho detto nel sonno?» le chiese.
«Borbottavi qualcosa come ‘non può essere’, anzi no, ‘non puoi essere’. Continuavi a ripetere la stessa frase, poi hai iniziato a gridare.»
Malgrado l’ora tarda non c’era un filo di vento, non una brezza passava attraverso la finestra spalancata a rinfrescare l’aria.
«Oh Amy, Amy. Adesso comincio a capire.» Le parole suonarono quasi come un lamento.
Lei lo abbracciò e gli posò la testa sul petto. «Mi spaventi Jon. parlami, spiegami tutto, non nascondermi niente.»
Lui le accarezzò la schiena assorbendo con piacere il suo calore attraverso le dita sensibili. Iniziò a parlare, con voce bassa, esitante dapprima, come se dovesse lui stesso capire ciò che diceva.
«Quando Gabby… quando ha visto… ha creduto di vedere… Annabel… quella notte… dopo che era stata rapita, qualcosa in me si è risvegliato: un pensiero, una sensazione, un ricordo. Qualcosa che avevo tenuto nascosto per tanto tempo. È difficile, non so se riuscirò a spiegartelo completamente, ma ci devo provare.»
Amy si staccò da lui per poterlo guardare meglio.
«Nessuno, credo, vuole odiare il proprio padre,» continuò, «e poi ricordati che per anni è stato il mio unico genitore, quindi possono essere intervenuti anche dei sensi di colpa nel mio non accettare certe verità sul mio conto. Non sono sicuro di niente, sto solo cercando delle risposte, un filo logico, capisci Amy?»
Rimase silenzioso, come se cercasse nei suoi pensieri, come se tentasse di mettervi ordine. Amy suggerì. «Il sogno Jon, perché non parti da lì?»
Childes si passò le dita sugli occhi chiusi. «Sì!» disse. «Il sogno, deve essere quello la chiave di tutto. Solo che non credo che sia stato solo un sogno, Amy.» Le prese la mano tenendosela in grembo e guardando la finestra sull’altro lato della stanza. «Ho visto me stesso bambino, avevo più o meno l’età di Gabby, mi sembrava di guardarlo dal soffitto, guardavo me stesso, come se fossi seduto su in alto in un angolo della mia stanza. Il bambino era seduto nel letto, aveva paura, eppure a me sembrava che fosse felice. C’era qualcun altro nella stanza, illuminata dalla luna, era una donna, guardava il ragazzo come facevo io. Io so che era mia madre.»
Childes tirò un respiro profondo mentre Amy aspettava in silenzio. Aveva il viso teso e gli occhi lucidi di emozione per la scoperta fatta e di tristezza al tempo stesso. Lei si irrigidì quando lui disse. «Ma mia madre era morta da almeno una settimana.»
«Jon…»
«No, ascoltami fino in fondo Amy. Gabby non ha sognato quella notte che ha visto Annabel. Non capisci? Gabby ha il mio stesso potere, è una sensitiva, una medium… io non so come accidenti definirla perché ho evitato queste cose per tutta la vita. Gabby e io siamo uguali, ha ereditato da me questo ‘dono’. Ma mio padre, che Dio lo aiuti, mi ha picchiato tanto da farmele scordare certe idee; lui si rifiutava di ammettere che ci potesse essere un potere del genere, e ha fatto in modo che neanche io lo accettassi. Nel sogno l’ho visto entrare nella stanza e picchiare il bambino, picchiare me fin quando non ho perso conoscenza. E non era la prima volta, e nemmeno l’ultima. Mi ha costretto a rimuovere queste capacità, questo extra-senso dalla mia mente.»
Fece una pausa, per riprendere fiato; le ultime parole erano state come un torrente in piena. «Non credo che saprò mai tutta la verità Amy. Posso solo raccontarti quello che ho sentito. Ho sempre rifiutato razionalmente tutto ciò che ha a che fare col sovrannaturale, come tutti i ragazzini a cui viene detto per anni, di continuo, che una cosa è sbagliata o contro natura. Eppure il potere è rimasto racchiuso dentro di me tutto questo tempo. Ma ti immagini che razza di conflitto deve esserci stato nel mio cervello di bambino? Io amavo mia madre e mi mancava, avevo bisogno del suo conforto, del suo amore, e mio padre è riuscito a costringermi a rifiutarla, e con lei, quel mio particolare potere. Probabilmente alla fine il raziocinio ha vinto la battaglia, ma non poteva durare in eterno.»
Amy ritrasse la mano per carezzargli il viso. «Spiegherebbe tante cose di te. Anche il perché hai scelto una professione così razionale e logica per esempio. L’unica sorpresa è che tu non sia pieno di nevrosi.»
«E chi lo dice?» Si spostò sul letto per allentare la tensione del corpo. «Ma perché adesso Amy? Perché tutto questo è venuto fuori adesso?»