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«Da me?»
«L’altra volta si lasciò sfuggire di mano la situazione, non permetterebbe a Gabby di rivivere un’esperienza del genere. Anzi, mi sorprende che glielo abbia detto.»
«Non è stato lui, è stata la signora Childes; lui me l’ha riferito come un incubo.»
«Forse allora non avrei dovuto dirle niente.»
Stavolta si accorse che l’allegria di lei era svanita, e credette che si fosse pentita della rivelazione fatta. «Come ho detto, niente di importante. Lasciamo perdere, soltanto mi dispiace che ancora non si fidi di me. Sarebbe un brutto colpo se Childes mi nascondesse qualcosa di importante.»
«Sono sicura che non lo farebbe mai ispettore. Jon è un uomo molto spaventato in questo periodo.»
«Ad essere sinceri non è l’unico; ho visto le foto dell’obitorio, ho visto di che cosa è capace questo maniaco.»
«Credo proprio di non voler sapere niente altro, ispettore.» Diede un’occhiata al banco delle fragole. «Devo tornare dai miei clienti adesso, le ragazze sono sommerse di lavoro.»
«Io e l’ispettore Robillard saremo sempre in giro. Se nota qualcosa di sospetto lo faccia sapere a uno di noi. Non credo che possa accadere nulla con tutta questa gente, ma non si sa mai. E, signorina, se dovesse incontrarmi di nuovo, non mi chiami ispettore.» Le sorrise, ma lei pensava evidentemente ad altro e si allontanò senza ricambiare il saluto. «Me lo ricorderò» disse semplicemente, e scomparve nella folla attorno al banco.
Controllò l’ora: tra poco sarebbero iniziati il saggio di ginnastica e il balletto.
Childes tenne d’occhio i passanti mentre affluivano lentamente verso lo spiazzo sul retro. Continuava a sentirsi a disagio malgrado non fosse accaduto proprio nulla che potesse far pensare male. Non aveva incrociato nessuno che gli provocasse un brivido, o gli facesse drizzare i capelli sulla nuca, reazione che lui era sicuro avrebbe avuto solo vedendo quella persona, la creatura, che cercava. La creatura che cercava lui. Ma forse si sbagliava. Forse non era affatto sull’isola. No, ne era sicuro, la sensazione era troppo forte, troppo intensa.
Childes seguì gli ospiti e notò tra di loro il poliziotto dell’isola, Robillard; anche Overoy doveva essere poco lontano.
Intorno a lui la gente chiacchierava allegra, sorrideva, passeggiava colorata e festosa. L’atmosfera era di totale normalità. Ma perché lui si sentiva tanto a disagio? Non c’erano state premonizioni, nessuna vibrazione interna, nessuna sensazione di ansia nel cervello. Solamente una pesante coltre di preoccupazione, indefinita e sfumata. Sentì che qualcuno lo guardava ed ebbe quasi paura a voltarsi, ma si costrinse.
Paul Sebire era a pochi metri da lui apparentemente in conversazione con Victor Platnauer, ma in realtà fissava Childes. Il finanziere si scusò bruscamente e si diresse verso di lui. «Non intendo fare scenate qui, Childes, ma credo che sia giunta l’ora che io e lei facciamo una chiacchierata seria.»
Per un attimo Childes dimenticò il suo interesse contingente. «Sono pronto a parlare di Amy quando vuole» rispose con una calma che lo sorprese.
«È di lei che voglio parlare, non di mia figlia.»
Si affrontarono tra la folla, che passava loro accanto evitandoli come fossero stati due massi in un fiume.
«Ho scoperto certe cose di lei che non mi sono piaciute» continuò Sebire.
«Avevo immaginato che fosse stato lei a dare il via alle indagini sul mio conto. Deve essere rimasto sorpreso di scoprire che Amy sapeva già tutto.»
«Che lei l’avesse informata o meno non mi riguarda. Quello che mi interessa è che la polizia ha indagato sul suo conto.»
«Bene, allora sa di che cosa si trattava e non devo spiegarglielo io.»
«Sì, sì. L’hanno rilasciata perché non vi era nessun indizio contro di lei. Ma rimane il fatto che lei non mi sembra affatto una persona equilibrata, lo ha dimostrato quella sera a cena.»
«Guardi, non ho intenzione di discutere con lei adesso. Pensi come le pare, l’unico fatto importante è che io amo sua figlia e ormai dovrebbe aver capito che Amy ricambia il mio amore.»
«È accecata per ora, anche se non ne vedo il motivo. Si rende conto che non ho più visto mia figlia da quando è venuta a stare con lei?»
«Questo è un problema vostro, non sono certo io a costringerla a non vedere suo padre.»
«Non è fatta per uno come lei!» Aveva alzato la voce e alcune persone nei pressi si erano voltate a guardare.
«Questo sta ad Amy deciderlo.»
«No, non può decidere lei, io…»
«Ma non sia ridicolo!»
«Come si permette…!»
In quel momento un altro uomo si insinuò tra i due. «Paul, credo che dovremmo avviarci,» disse Victor Platnauer in tono suadente, «stanno per iniziare i saggi ed io devo tenere il solito discorsetto.» Ridacchiò. «Cercherò di non farlo troppo lungo viste le tue lamentele dell’anno scorso. Ci scusi, Childes. Dunque c’era quella questione del…». Condusse docilmente il finanziere lungo il vialetto continuando a parlargli pacatamente, evidentemente ansioso di evitare scenate che potessero disturbare l’andamento della giornata.
Childes li guardò mentre si allontanavano, si rammaricava di aver avuto uno scontro tanto aspro con Sebire ed era insoddisfatto. Non si era risolto niente. Non aveva inteso innamorarsi così tanto di Amy, ma chi non era vulnerabile in amore? Comunque ormai era successo e aveva intenzione di non lasciarla più. Certo che litigare in pubblico con il padre non serviva a molto. E nemmeno andare a letto con Fran. Rimosse quest’ultimo pensiero ma il senso di colpa rimase.
Non c’era più tanta gente attorno a lui, la maggior parte si era affollata sul campo dietro alla scuola. Childes fece un lungo giro controllando le zone meno frequentate dei giardini, scrutò attento i cespugli e i boschetti, guardò nei portoni e nelle rientranze delle palazzine.
In alto i gabbiani volavano pigramente, tuffandosi all’improvviso verso il basso sotto la linea della scogliera. Udì il rumore della risacca in lontananza infrangersi sotto sulle rocce. Un grosso calabrone svolazzava appesantito, vittima forse del gran caldo anch’esso. Il sole batteva forte provocando una leggera caligine all’orizzonte.
Childes continuò a camminare seguendo il calabrone. Un leggero fruscio da qualche parte vicino a lui lo turbò fin quando non si rese conto con un certo sollievo che i cespugli erano tanto bassi da non poter nascondere altro che un uccello o qualche animaletto.
Quando girò l’angolo fu colpito dal clamore delle voci, la vista formicolante del prato in netto contrasto con la quiete che si era lasciato dietro. C’erano lunghe file di panche e di sedie allineate davanti all’edificio con in mezzo uno spiazzo abbastanza grande da consentire lo svolgimento dello spettacolo e la successiva premiazione e i discorsi. Ospiti e alunne riempivano le sedie con i loro vestiti a colori vivaci sullo sfondo verde del prato. Un aereo giallo del servizio delle isole sorvolò l’adunata e quindi sparì dietro le chiome di un folto di alberi che si stagliava sulla cima della scogliera.
Childes s’incamminò lungo il vialetto di ghiaia ma quando vide che tutti i posti riservati agli insegnanti erano stati occupati proseguì verso le ultime file. Appena vide un posto libero si sedette ed attese che iniziassero i saggi.
Sulla terrazza la signorina Piprelly era seduta, con altri membri del consiglio della scuola, dell’associazione dei genitori, e alcuni insegnanti scelti, davanti a un lungo tavolo pieno di trofei, certificati, premi delle lotterie e di un microfono dall’aspetto piuttosto antiquato. Per accedere al terrazzo si doveva percorrere una breve scalinata in pietra. Alle spalle della stessa si ergeva l’antico edificio di pietra grigia, e subito dietro svettava la torre bianca dell’edificio costruito più di recente, dov’erano alloggiati i dormitori, il refettorio e la palestra.
La folla prese posto, quando la preside si alzò per prendere la parola, e Childes, che sentiva la calda carezza del sole sulle spalle, cominciò a pensare che forse aveva avuto torto a preoccuparsi.
Jeanette era distesa sul letto, appoggiata a una pila di cuscini con le ginocchia alzate e l’orlo del vestitino azzurro tirato a coprire le gambe. I piedi calzati di bianco erano infilati sotto la coperta. Teneva seduto sulla pancia un Pierrot bianco e nero non proprio immacolato; la schiena del pupazzo era appoggiata alle sue gambe, il cappellino nero inamidato ne incorniciava il volto melanconico che aveva visto tempi migliori. La ragazza giocherellava oziosamente con i bottoni di stoffa del suo panciotto.
Jeanette avrebbe dovuto essere insieme alle compagne di classe, ma era riuscita a svignarsela perché aveva solo voglia di star sola. Tutte avevano lì parenti e genitori, fratelli e sorelle, mentre lei non aveva nessuno, stare con loro voleva dire solo farle sentire maggiormente la mancanza dei genitori. Eppoi non era stata scelta né per il balletto né tantomeno per il saggio ginnico dove sapeva bene di non avere alcuna possibilità. Sapeva anche che non c’erano premi o certificati di merito ad aspettarla sul tavolone. Non ce n’erano mai! Una volta aveva vinto un premio di ricamo ma non le aveva certo cambiato la vita. Forse era un bene che i genitori non avessero affrontato il lungo viaggio dal Sudafrica soltanto per stare seduti a guardare le altre ragazze ricevere premi vari. Suo padre faceva l’ingegnere di qualche tipo, anche se non aveva mai capito bene esattamente di cosa. Utilizzava l’isola come base di partenza per i suoi viaggi, e la madre l’accompagnava spesso. Stavolta stavano via diciotto mesi. Diciotto mesi! Ma poi avrebbe passato due interi mesi con loro, tutta l’estate. Loro le mancavano terribilmente ma non era così sicura di mancare altrettanto a loro. Loro dicevano di sì, ma questo era normale no? “Ma certo che ti vogliamo bene cara, ma non è il caso che tu venga in giro per il mondo interrompendo di continuo il tuo corso di studi. Certo che ti vorremmo con noi, ma bisogna dare la precedenza all’educazione”. Jeanette lasciò cadere il Pierrot che le scivolò di dosso finendo in terra. La sua aria triste l’aveva ormai contagiata.
Chiuse gli occhi, il viso rivolto verso il soffitto, l’unica treccia (era convinta così di assomigliare alla signorina Sebire) stesa attraverso il cuscino. Se qualcuno la beccava nel dormitorio erano guai; per fortuna gli insegnanti erano tutti troppo indaffarati con i genitori per avere il tempo di venire a controllare i piani superiori, altrimenti non avrebbe corso il rischio. Le piaceva ogni tanto rimanere da sola, l’unico guaio era che dopo un po’ si sentiva sola.
Janette sospirò e si immaginò Kelly che marciava sicura a ritirare i propri trofei; migliore oratrice nei dibattiti, voto più alto in matematica e fisica, premio per i migliori progressi nel campo dei computer, ecc, ecc, ecc. Quanto le sarebbe piaciuto essere come lei! Ed era anche tanto bella. Non bisogna essere invidiose, si disse Jeanette, ma qualche volta, qualche volta avrebbe voluto essere come la sua compagna. Non lo sarebbe mai stata però, questo era un dato di fatto, ma tutti avevano per lo meno un pregio, qualcosa che li rendeva uguali agli altri; per quanto la riguardava era solo un po’ difficile scovarlo. Ma un giorno si sarebbe rivelata al mondo, forse tra non molto, forse quando le sarebbero cominciati i cicli sarebbero scomparsi quegli orrendi brufoli, e magari le sarebbe cresciuto anche il seno. E forse avrebbe sognato un po’ meno e forse sarebbe anche diventata più alta e…
… le sculture mobili si stavano muovendo.
Ma certo, le finestre erano spalancate per lasciar passare un po’ d’aria, una brezzolina muoveva le figure di carta. Jeanette si arrabbiò con se stessa. Le altre la canzonavano spesso perché dicevano che aveva paura della sua stessa ombra, e qualche volta era vero. Non le piacevano gli angoli bui, i film paurosi, odiava tutto ciò che strisciava, i cigolii della vecchia palazzina, lo sbattere delle imposte che la tenevano sveglia mentre attorno a lei tutte dormivano tranquillamente. E le ombre soprattutto, anche sotto ai letti.
Jeanette si drizzò sul letto ma non posò subito le gambe a terra; prima si chinò a controllare sotto il letto.
Soddisfatta del fatto che non vi fossero bestie strane che la potessero trascinare nel loro antro oscuro Jeanette posò i piedi per terra. Rimase ancora seduta sul letto ascoltando attentamente, senza sapere bene che cosa stesse ascoltando. Forse era il rumore del parquet nelle stanze vicine, oppure quel misterioso grattare che poteva sì essere un topolino, ma forse no, poteva essere una cosa immonda che vagava per i corridoi trascinando il proprio corpo viscido, oppure una figura gigantesca ammantata di nero in agguato dietro alla porta, che attendeva con le unghie protese, aguzze…
Smettila! Di nuovo si stava mettendo paura da sola. C’erano delle volte in cui Jeanette odiava quella sua sciocca fantasia che le faceva vedere fantasmi di sua pura invenzione. Era pieno giorno, la scuola era piena di gente, e lei si stava tormentando apposta con queste lugubri fantasie. Jeanette allungò i piedi infilandoli dentro le scarpe, aveva deciso che era ora di raggiungere gli altri.
Aveva calzato una scarpa tenendola ferma con l’altro piede quando udì dei passi avvicinarsi. Guardò con curiosità i peli del braccio drizzarsi, la sensazione di paura le prese anche la schiena facendola rabbrividire.