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I passi erano lenti, pesanti. Si avvicinavano. Il suono la ipnotizzava.
Sentiva il cuore che le batteva forte, molto forte.
I passi si fermarono, e per un attimo ebbe l’impressione che le si fosse fermato anche il cuore.
Ma sentiva davvero qualcuno respirare dietro la porta?
Si alzò lentamente, sfilandosi la scarpa. Rimase immobile accanto al letto, quasi senza respirare, il Pierrot la fissava con il pianto congelato sul viso.
Non avrebbe voluto avvicinarsi alla porta, ma forse per vincere la paura si diresse piano piano verso l’uscita. I piedi con le sole calze erano silenziosi sul legno lucido mentre avanzava con circospczione. Aveva le mani chiuse a pugno.
Ebbe ancora un’esitazione prima di varcare la soglia. Non era mai stata tanto spaventata in vita sua.
Dietro alla porta qualcosa aspettava.
I saggi di ginnastica e di ballo erano terminati, la signorina Piprelly aveva fatto il suo discorso breve e succinto prima di presentare il consigliere Platnauer. Il discorso di questi fu più pacato e aveva per lo meno un accenno di umorismo. Nonostante ciò Childes ebbe difficoltà a concentrarsi su quel che veniva detto perché stava osservando senza sosta la folla riunita davanti a sé, cercando il pur minimo segnale che qualcuno non fosse quello che sembrava.
Non solo non aveva veduto niente di sospetto, ma non sentiva niente di strano. Era tutto a posto, spettatori attenti, tempo splendido, anche se forse un po’ troppo caldo. Ottimi i saggi delle alunne, e i discorsi erano stati meno noiosi del solito.
Era appena iniziata la distribuzione dei premi quando un movimento attirò il suo sguardo. Sbatté gli occhi, non era sicuro che non fosse solo un gioco di luce, un riflesso in uno dei vetri della palazzina dall’altro lato del prato. Eppure c’era qualcosa che prima non aveva notato, qualcosa che aveva sentito più che visto. Gli occhi gli caddero in un punto su in alto dell’edificio davanti a lui.
C’era un viso, affacciato a una delle finestre dell’ultimo piano.
Troppo lontano per poter vedere bene, ma per istinto sapeva a chi apparteneva quel volto.
Il sangue gli si gelò nelle vene.
Childes era stordito, non riusciva a muoversi, incollato alla sedia da una paura di piombo. Aprì la bocca per parlare, gridare, ma sembrava che la sua gola fosse stretta in una morsa d’acciaio, gelida, che gli bloccava la laringe.
Il volto era immobile, pareva che avesse gli occhi fissi su di lui.
Poi la macchia bianca scomparve.
Childes si alzò barcollando, le gambe sembravano pesargli troppo per riuscire a muoverle, riuscì comunque a scavalcare la panca. Si guardò attorno cercando Overoy, la semiparalisi dovuta allo shock stava passando, ma non riuscì comunque a vederlo. Non poteva aspettare. Qualcosa di grave accadeva dentro la scuola, qualcosa di terribile che lo faceva rabbrividire di terrore.
Costeggiò le file di sedie e si affrettò lungo il vialetto inghiaiato verso l’edificio. Dietro di lui scrosciarono applausi mentre una delle ragazze saliva le scale per andare a ritirare il suo premio. In pochi notarono la sua figura frettolosa, tra questi Overoy che si era fermato sotto un albero ai margini del prato da dove aveva goduto di una posizione dominante. Sfortunatamente era dall’altro lato del pubblico, a una certa distanza dal sentiero che stava seguendo Childes; il poliziotto decise di aggirare l’ostacolo per poi raggiungere Childes sul retro dell’edificio. Overoy si infilò velocemente la giacca e s’incamminò verso l’ingresso principale della scuola.
Childes imboccò la prima porta che trovò, e rabbrividì involontariamente, all’interno l’aria era più fresca. Salì una breve rampa di scale e si trovò nell’atrio che occupava la parte anteriore dell’edificio. Il volto si era affacciato a una finestra del terzo piano dove si trovavano i dormitori delle ragazze più grandi. Si avviò verso la scalinata principale, i suoi passi risuonavano sul legno lucido del parquet.
Passò davanti alla biblioteca, alla saletta docenti e alla sala d’attesa per i genitori prima di raggiungere l’ampia scalinata. Allungò il collo come se si fosse aspettato di vedere qualcuno affacciarsi su in alto. Le scale erano deserte.
Overoy imprecò, sottovoce. Aveva dimenticato che il collegio non aveva una pianta regolare, nel tempo vi erano state varie aggiunte e modifiche ed egli si trovò separato da Childes dalla bianca struttura della torre che si univa ad angolo retto all’edificio principale. Poteva scegliere di girarci intorno oppure di entrare. Vide una porta e l’aprì.
Primo piano. Childes scrutò i corridoi a destra e a sinistra. Niente. Dall’alto si udì un rumore.
Si sporse oltre il corrimano. Rumori secchi, qualcosa veniva trascinato. Guardò in alto.
«No!» urlò. «Non farlo!»
Salì le scale a tre alla volta aiutandosi con il corrimano, il viso di un pallore mortale, non solo per lo sforzo della corsa.
Secondo piano. Non si udivano più rumori di sopra. Proseguì la rincorsa e avvertì uno scalpiccio.
Continuò a salire: un rumore come di un respiro strangolato.
Terzo piano, quasi. Un’ombra — che si muoveva in modo goffo e impacciato — sembrò scivolare nell’ombra dietro un angolo. Gli parve di udire dei passi ma tutta la sua attenzione era rivolta a quel piccolo corpo che penzolava e si dibatteva nella tromba delle scale.
Quando roteò verso di lui poté vederne il viso che già diventava paonazzo. Aveva gli occhi fuori delle orbite e cercava disperatamente di sciogliere il cappio che aveva attorno al collo. Le gambe scalciavano furiosamente.
«Jeanette!» gridò Childes.
Era quasi in cima quando inciampò cadendo sul pianerottolo, ma si rimise subito in movimento fingendo di non sentire il dolore lancinante al ginocchio sbattuto malamente in terra. Non tentò nemmeno di alzarsi ma proseguì carponi verso la balaustra sporgendosi in basso verso quel corpo che si contorceva. Trovò le sue braccia e le strinse forte cercando di sostenerla.
Gli sembrò di percepire un movimento dietro di sé ma era tutto concentrato nel tentativo di sollevare la ragazza impiccata. Fece forza ma era in una posizione scomoda. Poteva solo rimanere lì, supino e ansimante, proteso all’infuori con le mani serrate attorno ai polsi della ragazzina.
La sentiva scivolare.
«Non ti dimenare, Jeanette. Cerca di stare ferma… dai… lascia fare a me!»
Ma non poteva resistere, ormai il suo respiro era ridotto ad un sibilo strozzato. Con le dita cercava di sciogliere il nodo attorno alla sua gola graffiandosi a sangue nella frenesia disperata.
Childes sentì che la ragazza gli stava sfuggendo.
Passi di corsa lungo le scale. Overoy che fi fissava con gli occhi sbarrati, correndo con tutta la forza che possedeva.
Childes serrò ancor più le dita, distendendo le gambe lungo il pavimento per fare da contrappeso e appoggiò il viso alla ringhiera di ferro. Si sforzò di tenere duro, sentendosi via via indebolire, e con la coda dell’occhio scorse un oggetto vicino sul pavimento.
Era piccolo. Era tondo. Era una pietra di luna.
Il traffico nella zona del porto era intenso e Childes guidava con molta cautela, ancora con i nervi a fior di pelle e le mani che tremavano. Accanto a lui Amy era pensosa, evidentemente scossa dagli avvenimenti, eppure stranamente riservata.
Si fermò al semaforo di un incrocio vicino ai moli. Dei turisti passeggiavano nel tepore della sera; in basso, nel porticciolo, gli equipaggi degli yacht sorseggiavano vino discutendo oziosamente sulla mancanza di vento. Altri turisti di ritorno da qualche altra isoletta sbarcavano dall’aliscafo attraccato in fondo alla lunga banchina centrale. Le gru di colore verde chiaro utilizzate per merci varie erano piegate ad angoli strani, dando l’impressione di essere in segreta conversazione.
Diede un’occhiata ad Amy. «Stai bene?»
«Sono spaventata Jon.» Lo guardò brevemente, poi si voltò di nuovo.
«Anch’io lo sono. Adesso la polizia dovrà aumentare la sorveglianza.»
«Povera piccola Jeanette.»
«Ce la farà! Aveva la gola contusa e una compressione della laringe e della trachea. Quel pazzo ha usato una cravatta, ma ce la farà.»
«Sto pensando al trauma che ha subito. Riuscirà mai a dimenticare quello che è successo?»
Il semaforo scattò e Childes premette l’acceleratore svoltando a destra per costeggiare il porto.