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«Ehi, dai, non dar retta alle lamentele di un vecchio. E così ti mancavo, ma se ci siamo lasciati dieci minuti fa.»
«Quando sono arrivata a casa mi sono sentita così… così… non lo so, eccitata, felice, sottosopra, male. Ti volevo insomma!»
«Brutti sintomi, dev’essere grave.»
«Lo è, Dio m’aiuti, lo è.»
«Ce l’ho anch’io!»
«Ma se…»
«Te l’ho detto, non badarci. Ogni tanto mi prendono le lune, sai.»
«Lo so. Posso invitarti a pranzo domani?»
«Scema!»
«Sì, sì!» La complice affettuosità era tornata.
«Sai che ti dico, perché non mangiamo qui, sempre che tu sopporti la mia cucina?»
«Ma abbiamo solo un’ora.»
«Bene, preparo stasera. Niente di speciale, solo surgelati.»
«Adoro i surgelati.»
«Io adoro te.»
«Jon…»
«Ci vediamo domani a scuola Amy.»
«Sì» rispose lei in un sospiro.
La salutò senza quasi udirne la risposta, si sentì il clic di fine comunicazione ma Childes rimase con la cornetta di plastica levigata tra le dita, lo sguardo fisso sul muro. Non aveva inteso lasciarsi sfuggire quelle ultime parole, non avrebbe voluto infrangere quell’ultima membrana con una ammissione che ambedue conoscevano ormai. Ma che importanza poteva avere? Di cosa aveva ancora paura? Non era poi tanto difficile da capire.
Quella bizzarra visione di due settimane prima, seguita dall’incubo, lo aveva lasciato con quella familiare e deprimente apprensione, un riattizzarsi dell’angoscia che lo aveva quasi distrutto già una volta. Aveva sconvolto la sua vita con Fran e Gabby, non voleva fare del male a Amy. Pregò di essersi sbagliato, che non stava accadendo tutto di nuovo, che era solamente un parto della sua fantasia.
Childes si strofinò gli occhi accorgendosi di quanto fossero indolenziti. Tirò un respiro profondo poi espulse l’aria con forza come se si liberasse dei cattivi pensieri; entrò nel piccolo bagno al pianoterra e aprì l’armadietto. Tirò fuori una bottiglietta di plastica e la custodia delle lenti, richiuse l’armadietto e scrutò la propria immagine riflessa nello specchio. Aveva gli occhi venati di rosso e si accorse di uno strano pallore del volto. Ancora la fantasia, si disse, si stava stupidamente lasciando andare a una morbosa introspezione che poi cresceva e mutava. Diventava un balzo all’indietro, lo scoppio ritardato di un avvenimento vecchio, e basta. Quando era quasi affogato probabilmente era stato troppo a lungo sottacqua, senza accorgersi che i suoi polmoni erano allo stremo. La mancanza di ossigeno aveva provocato le immagini confuse. Poi l’incubo… era solo un incubo, senza significati particolari. Stava dando troppo peso ad una esperienza spiacevole ma senza importanza, forse si poteva giustificare, con quello che era accaduto a pungolare i ricordi. Dimenticare! Le cose erano cambiate. La sua vita era diversa ora.
Sbirciando lo specchio da vicino Childes si spremette delicatamente la lente morbida dall’occhio destro, la lavò nel palmo della mano con il liquido e la infilò nel contenitore pieno di fluido. Ripeté l’operazione con la lente sinistra.
Uscito nell’ingresso infilò la mano nella valigetta e ne estrasse gli occhiali, gli occhi già meno irritati di prima. Stava per entrare in cucina per vedere cosa riusciva a mettere insieme per il pranzo del giorno dopo quando udì un leggero tonfo al piano di sopra. Trattenne il respiro e volse lo sguardo fino all’angolo della stretta scalinata. Attese, con quel miscuglio di sensazioni che si avvertono in piena notte, quando non si vuole sentire più quel rumore sospetto e misterioso, ma di cui, al tempo stesso, si vuole una conferma. Iniziò a salire le cigolanti scale di legno con addosso un irragionevole nervosismo. Girò l’angolo e vide che la stanza da letto era aperta. Niente di strano, l’aveva lasciata aperta quella mattina, lo faceva sempre. Salì gli ultimi gradini e fece i pochi metri del corridoio spalancando la porta della stanza da letto. La stanza era vuota e lui si rimproverò d’essersi comportato come una zitella paurosa. Vi erano due finestre, una di fronte all’altra nella stanza: ad una di queste si vedeva tremolare qualcosa di piccolo e delicato. Egli si avvicinò sentendo vibrare sotto il suo peso le vecchie assi del pavimento. Fece schioccare la lingua quando riconobbe l’oggetto tremolante: era una piuma, di gabbiano o di piccione, non ne era sicuro. Era già accaduto; gli uccelli vedevano oltre le due finestre il cielo e tentavano di volare attraverso la stanza, colpivano il vetro da quel lato ma si procuravano appena un attimo di stordimento e un po’ di mal di testa, lasciando sul vetro qualche piuma attaccata. Mentre guardava un alito di vento mosse la piuma e la fece volteggiare via.
Childes stava per voltarsi quando vide in lontananza la scuola. Il cuore sembrò arrestarsi e le mani abbrancarono il davanzale quando vide il rogo. Ma tirò subito un sospiro di sollievo quando s’accorse che l’edificio bianco rifletteva soltanto il fiammeggiare del sole al tramonto.
Ma l’immagine gli si impresse nella mente e gli tremavano le mani mentre si sedeva sul letto.
Guardava da sotto un albero. L’allegra giornata solatia strideva contro la mestizia del cimitero.
I parenti erano raccolti attorno alla fossa aperta, i vestiti scurì inondati di sole. Le croci bianche macchiate, le lapidi, angioletti sorridenti e crepati, attorniavano apatici il campo pieno di ossa sepolte. Il lento scorrere del traffico si sentiva di lontano; da qualche parte una radiolina venne spenta, un becchino si era accorto della cerimonia in corso. La voce del prete arrivava come una cantilena soffocata nel fossato all’ombra del tasso dove la figura attendeva.
Quando la piccola cassa fu calata nella fossa una donna barcollò in avanti come per fermare quell’ultima violazione del figlio morto. Un uomo al suo fianco la sorresse trattenendola mentre la donna si accasciava. Altri ancora chinarono la testa o allontanarono lo sguardo, il dolore della madre straziante quanto la prematura morte. Le mani salivano ai volti con fazzolettini umidi stretti in pugno. Le facce degli uomini erano come congelate, come stampate in una plastica rigida.
Osservava la scena dal suo nascondiglio, sorridendo segretamente.
La minuscola bara sparì dalla vista, ingoiata dalla terra umida, l’apertura bordata di verde come fauci. Il padre gettò qualcosa dietro alla bara, un oggetto a colori vivaci, un giocattolo, un pupazzo, qualcosa che il bimbo aveva amato, poi la terra ricoprì la tomba. Il gruppo di persone a lutto iniziò ad allontanarsi con apparente riluttanza, ma con intimo sollievo. La madre dovette essere sostenuta da altre due donne, trascinata via, la testa continuamente voltata come se il piccolo la richiamasse, la pregasse di non lasciarlo lì, solo, al freddo, alla putrefazione. Lo strazio ebbe il sopravvento e la donna fu quasi portata di peso alle macchine nere in attesa.
Sotto l’albero la figura attese che la tomba fosse riempita. Per ritornare a notte fonda.
«Grazie Helen. Sparecchia pure ora.» Vivienne Sebire notò con soddisfazione che la cena tanto amorevolmente preparata — mousse di salmone, anatra alle mele e visciole accompagnata da zucchine e broccoli — era stata divorata con gusto e appetito. Notò anche che Jonathan Childes non aveva mostrato altrettanta golosità.
Grace Duxbury, seduta accanto al padrone di casa, Paul Sebire, che era a capotavola, disse con la sua voce squillante: «Meravigliosa Vivienne. Non me ne andrò di qui finché non mi avrai svelato il segreto di quella mousse.»
«Sì!» assentì il marito, «un antipasto veramente eccellente. Com’è Grace, che a te riesce raramente l’avocado con i gamberi se non chiamiamo un cuoco?»
L’avrebbe pagato caro quel commento, pensò Vivienne, se poco poco conosceva Grace. «Il segreto è semplicemente nella quantità di pasta d’acciughe che ci metti, un pochino più di quel che dice la ricetta, ma non troppo.»
«Deliziosa!», commentò nuovamente George Duxbury.
Helen era una donna tarchiata con un viso allegro e le sopracciglia che si univano a punta sul naso; era la governante-cameriera dei Sebire. Iniziò a ritirare i piatti mentre la padrona di casa si beava delle lodi ricevute. Amy, che era seduta di fronte a Childes si alzò dalla sedia. «Ti do una mano» disse a Helen, cercando con lo sguardo Childes con cui scambiò un sorriso complice.
«Ciò che vorrei sapere è come ha fatto un vecchio reprobo come te a sposare una cuoca meravigliosa come Vivienne e a ritrovarsi una figlia affascinante così.». Fu Victor Platnauer a fare la battuta, uno dei consiglieri dell’isola nonché membro del consiglio d’amministrazione del college La Roche. La moglie Tilly, seduta accanto a Childes, lo sgridò scherzosamente ridacchiando come gli altri ospiti.
«Semplicissimo, caro Victor,» rispose Sebire asciutto come sempre, «furono proprio le doti culinarie della mia dolce moglie a farmela sposare, e i miei geni hanno prodotto la nostra bella Aimée». Aveva sempre insistito nel chiamare la figlia con il nome vero.
«No, no! Amy ha preso la bellezza dalla madre non dal padre. Non è vero, Childes, eh, Jonathan?»
«Ha le migliori qualità di entrambi i genitori» disse Childes diplomaticamente, asciugandosi le labbra con un tovagliolo.
Uno a zero, pensò Amy mentre sostava sull’uscio della cucina; qualcuno applaudì e gridò: «Bravo!». Fin qui tutto bene. Aveva osservato attentamente il padre tutta la serata mentre studiava Jon con quello sguardo calcolatore e critico che riservava sempre ai clienti potenziali, ai colleghi o ai rivali. Ciò nonostante era stato un ospite perfetto, cortese e attento, dando a Jon tanto spazio quanto agli altri ospiti, compreso un socio in affari di Marsiglia. Amy aveva il sospetto che Edouard Vigiers non fosse stato invitato solamente perché si trovava sull’isola per discutere certi accordi finanziari, ma anche perché era giovane, brillante, di successo, sicuramente un buon partito. Un genero ideale agli occhi di Paul Sebire. Amy incominciava a pensare che l’unico motivo che il padre aveva di invitare Jon era che così lei, Amy, avrebbe potuto mettere a confronto i due. Le differenze balzavano agli occhi.
Dovette ammettere che il francese era attraente oltre che vivace e simpatico, ma il padre sbagliava ad usare un metro tanto ovvio e superficiale. Sapeva che Paul Sebire era un uomo generoso e giusto nonostante l’astuzia brutale che adoperava negli affari e una certa ostinazione. Lei lo amava, quanto può una figlia. Sfortunatamente la possessività che egli non voleva ammettere lo portava ad imporre l’immagine dell’uomo da destinare a sua figlia: uno della sua razza, se non addirittura una copia più giovane di se stesso. Un tentativo goffo, anche se lui credeva di essere astuto; come sempre sottovalutava gli altri, soprattutto la sua unica figlia.
Amy ripensò sognante al pranzo con Jon quella settimana, il loro primo incontro da soli, nel suo cottage, dopo essersi resi conto di quanta strada aveva fatto il loro rapporto, quanto profondo era diventato e quanto si desideravano. C’era stato poco tempo a disposizione, ma le carezze, il toccarsi, il tenersi, avevano preso un nuovo sapore, una nuova intensità.
«Vorrei quei piatti quando ha finito di origliare, signorina Amy». La voce divertita di Helen, appoggiata al lavandino con una mano sul fianco, interruppe i ricordi di Amy.
«Beh, non stavo origliando.» Sorrise arrossendo. «Stavo sognando ad occhi aperti. Mi ero perduta da qualche parte.»
Victor Platnauer si sporgeva sul tavolo guardando Childes dritto negli occhi. Poco più che sessantenne Platnauer era ancora un uomo robusto, con quella rozzezza del volto così frequente tra i nativi dell’isola, la voce rauca e i modi bruschi. Al contrario la moglie Tilly aveva una voce morbida, quasi un mormorio, l’aspetto e i modi simili a quelli di Vivienne Sebire.
«Mi fa piacere sapere che ha deciso di dedicare un po’ più di tempo al La Roche» disse Platnauer.
«Solo un pomeriggio in più» rispose Childes. «Ho dato conferma proprio questa settimana.»