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— …e io porto questo in c3. Mi dai un’altra birra?
Un’ora e un quarto dopo, Martin abbandonò la partita. La pioggia aveva smesso e l’ombrello era stato chiuso.
— Un’altra partita? — propose Grend.
Il pomeriggio passò. Ora la tensione era calata. Questa volta Martin giocava solo per divertimento. Martin provò delle combinazioni arrischiate, vedendo davanti a sé con molta chiarezza, come gli era successo quel giorno…
— Stallo — annunciò Grend molto più tardi. — Questa, però, è stata una bella partita davvero. Hai migliorato notevolmente.
— Mi sentivo più rilassato. Un’altra?
— Magari più tardi. Raccontami ancora un po’ di questa faccenda dei bar adesso.
Così fece Martin. Alla fine chiese: — Tutta quella birra ti fa qualche effetto?
— Mi gira un po’ la testa. Ma va benissimo così. Con la terza partita ti ridurrò in poltiglia.
E così fece.
— Non sei male per essere un umano, però. Tornerai anche il mese prossimo?
— Sì.
— Bene. Porterai ancora della birra?
— Fintanto che mi basteranno i soldi.
— Oh. Porta del gesso allora. Io ti farò delle belle impronte e tu ne potrai fare il calco. Mi sembra di capire che si vendano bene.
— Me ne ricorderò. Martin raccolse gli scacchi.
— Arrivederci, allora.
— Ciao.
Martin si rimise a spolverare e lustrare, trasportò dentro un piano e sparse della segatura sul pavimento. Installò un nuovo barilotto di birra. Appese alle pareti delle riproduzioni di poster d’epoca e degli atroci quadri a olio che aveva trovato in un negozio d’anticaglie. Sistemò delle sputacchiere negli angoli strategici.
Quando ebbe finito si sedette al bar e aprì una bottiglia di acqua minerale. Poi si mise ad ascoltare il vento nel Nuovo Messico che fischiava lamentosamente e i granelli di sabbia che sfregavano contro i vetri della finestra.
Si chiese se tutto il mondo avrebbe avuto quel rumore lugubre se Tlingel avesse trovato il mezzo di eliminare l’umanità o, pensiero inquietante, se i successori della sua specie avrebbero trasformato il mondo in qualcosa che assomigliasse alla mitica terra del mattino.
Questo pensiero l’angustiò per un po’. Poi prese la scacchiera e ricollocò i pezzi nella disposizione precedente fino al pedone nero in d6. Quando si voltò per riordinare il bar vide una linea di impronte dallo zoccolo fesso sulla segatura che venivano verso di lui.
— Buona sera, Tlingel — disse. — Cosa prendi?
Improvvisamente l’unicorno apparve senza nessun preliminare pirotecnico. L’essere si accostò al bar e posò uno zoccolo sulla sbarra d’ottone.
— Il solito.
Mentre Martin spillava la birra, Tlingel si guardò attorno.
— Questo posto è migliorato parecchio.
— Lieto di sentirtelo dire. Ti andrebbe un po’ di musica?
— Sì.
Martin trafficò sul retro del piano e individuò l’interruttore del piccolo computer a batteria che controllava i meccanismi e sfruttava la propria memoria elettronica invece dei cilindri. La tastiera si animò immediatamente.
— Molto bene — affermò Tlingel. — Hai deciso la tua mossa?
— Sì.
— Allora cominciamo.
Martin riempì il boccale dell’unicorno e glielo portò al tavolo.
— Pedone in e6 — disse, spostando il pezzo.
— Cosa?
— Faccio questa mossa.
— Dammi un minuto. Voglio studiarla.
— Prendi pure tutto il tempo che vuoi.
— Io mangio il pedone — disse poi Tlingel dopo una lunga pausa e essersi scolato un altro boccale.
— Allora io mangio questo cavallo.
Più tardi, Tlingel disse: — Cavallo in e7.
— Cavallo in c3.
Passò un intervallo di tempo molto lungo prima che Tlingel spostasse il cavallo in g6.
Col cavolo che avrebbe chiesto consiglio a Grend, decise improvvisamente Martin. Ormai aveva già esaminato quella mossa un sacco di volte. Spostò il proprio cavallo in g5.
— Cambia subito quella lagna! — sbottò Tlingel.
Martin si alzò in piedi e obbedì.
— Non mi piace neanche quella. Trovane una migliore o chiudi l’apparecchio!
Dopo altri tre tentativi, Martin spense il piano.