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A Willow Bend c’era una porta sul retro e non c’era la facciata. Qui, dovunque potesse essere, c’era la porta principale ma non c’era retro.
Si alzò, gettò via il resto dei sassolini e si ripulì la mano sulle brache.
Ebbe con la coda dell’occhio la sensazione di un movimento; ed eccoli.
Scendeva le scale una fila di animaletti, se animali erano, uno dietro l’altro. Erano alti una decina di centimetri e camminavano a quattro zampe, sebbene si vedesse chiaramente che le loro zampe anteriori erano mani, non zampe. Avevano una faccia da topo, vagamente umana, dal naso lungo e appuntito. Sembrava che avessero scaglie invece della pelle, perché i loro corpi brillavano increspandosi intanto che procedevano. E avevano tutti la coda che assomigliava moltissimo a quelle code di filo arrotolato che hanno certi giocattoli; e le code si protendevano dritte su di loro, fremendo a ogni passo.
Scesero le scale in fila indiana, in perfetto ordine militare ciascuno distante dall’altro una quindicina di centimetri.
Scesero le scale e si avviarono nel deserto in fila dritta e decisa, come se sapessero con esattezza dove fossero diretti. C’era in loro qualcosa di simile a una determinazione mortale, eppure non si affrettavano.
Taine ne contò sedici e li guardò andare nel deserto finché non furono fuori di vista.
Ecco che se ne vanno, pensò, quelli che erano venuti a vivere con me. Sono quelli che hanno aggiustato il soffitto, riparato il televisore di Abbie e modificato la cucina e la radio. E più che probabilmente quelli che erano venuti sulla Terra in una strana macchina opalina, laggiù nei boschi.
E se erano venuti sulla Terra con quell’affare laggiù nei boschi, allora che razza di posto era questo?
Si issò sulla veranda, aprì la porta a rete e vide il foro accurato di quindici centimetri che gli ex ospiti vi avevano praticato per uscire. Prese nota mentalmente che un giorno o l’altro, quando avrebbe avuto tempo, doveva ripararla.
Entrò sbattendosi dietro la porta.
— Beasly — gridò.
Non ci fu risposta.
Towser strisciò fuori di sotto la poltrona con aria di scusa.
— Tutto bene, amico — disse Taine. — La squadra ha spaventato anche me.
Entrò nella cucina. La sbiadita luce centrale illuminava la teiera capovolta, la tazza rotta in mezzo al pavimento, la scodella delle uova sottosopra. Un uovo rotto era una chiazza bianca e gialla sul linoleum.
Taine scese nel pianerottolo e vide che la porta a rete era sfasciata al di là di ogni speranza di riparazione. La rete rugginosa era rotta, forse la parola più adatta era “esplosa” e parte del telaio era sfasciato.
Taine la fissò con meravigliata ammirazione.
— Poveraccio — disse. — Ci è passato attraverso senza neanche aprirla.
Accese la luce e scese le scale dello scantinato.
A metà strada si fermò in preda al più grande sbalordimento.
Alla sua sinistra c’era un muro… un muro dello stesso tipo di materiale usato per il soffitto.
Si curvò e vide che il muro correva immacolato per tutto lo scantinato dal soffitto al pavimento, rinchiudendo tutta la zona del laboratorio.
E dentro il laboratorio che c’era?
Per prima cosa, ricordò, il calcolatore che Henry aveva appena mandato la mattina. Tre camion, Beasly aveva detto, il contenuto di tre camion di apparati consegnato dritto nelle loro grinfie!
Debolmente Taine si lasciò andare a sedere sui gradini.
Dovevano aver pensato, si disse, che collaborava! Forse s’erano immaginati che lui avesse capito che cosa facevano e così se l’erano portato via. O forse avevano pensato che li voleva pagare per aver accomodato il televisore, la cucina e la radio.
Ma per cominciare dal principio, perché avevano riparato il televisore, la cucina e la radio? Una forma di pagamento di affitto? Un gesto amichevole? O una specie di corso di addestramento per determinare che cosa potessero fare con la tecnologia di questo mondo? Per determinare forse le possibili applicazioni della loro tecnologia ai materiali e alle condizioni del pianeta che avevano scoperto?
Taine alzò la mano e bussò con le nocche nel muro della scala, e la morbida superficie rimandò un suono squillante.
Appoggiò l’orecchio contro il muro e ascoltò attentamente: gli sembrava di sentire un mormorio in chiave di basso, ma era così debole da non poterne essere del tutto sicuro.
La falciatrice del banchiere Stevens era là, dietro il muro, insieme a un sacco di altre cose in attesa di essere riparate. Gli avrebbero tolto la pelle di dosso, pensò, specialmente il banchiere Stevens. Stevens era tirchio.
Beasly dev’essere diventato mezzo matto dalla paura, pensò. Quando aveva visto quegli esseri che salivano dallo scantinato non doveva aver capito più niente. Era passato dritto attraverso la porta senza neanche provare ad aprirla e ora era certamente in paese a latrare in viso a chiunque si fermasse ad ascoltarlo.
In genere nessuno prestava molta attenzione a Beasly, ma se avesse blaterato abbastanza a lungo e abbastanza forte, sarebbero probabilmente venuti a controllare. Sarebbero venuti a frotte, avrebbero esaminato il luogo, sarebbero rimasti con gli occhi sbarrati di fronte alla facciata e ben presto qualcuno di loro avrebbe faticosamente cercato di ricostruire come erano andate le cose.
E non erano affari loro, si disse Taine caparbio, con il suo sempre presente senso degli affari che riaffiorava. C’era proprio un sacco di terreno là fuori nella sua aia, e l’unica maniera per chiunque di raggiungerlo era di passare attraverso casa sua. Stando così le cose, ne conseguiva che tutto quel terreno là fuori era suo. Forse non era di alcuna utilità. Avrebbe potuto anche non esserci niente. Ma prima che l’altra gente vi dilagasse, avrebbe fatto meglio ad andare ad assicurarsene.
Salì le scale e uscì verso il garage.
Il sole si trovava ancora a nord dell’orizzonte e non c’era nulla che si muovesse.
Trovò un martello, dei chiodi, qualche asse, e li portò in casa.
Vide che Towser aveva approfittato della situazione e dormiva nella poltrona dalla tappezzeria dorata. Taine lo lasciò stare.
Taine chiuse la porta sul retro e vi inchiodò sopra qualche asse. Serrò le finestre della cucina e della camera da letto e inchiodò qualche asse anche su di loro.
Questo avrebbe trattenuto i paesani per un po’, si disse, quando sarebbero venuti a far danni per vedere che succedeva.
Prese il fucile da cervi, una scatola di cartucce e da un cassetto un binocolo e una vecchia borraccia. Riempì la borraccia al rubinetto della cucina e cacciò nel sacco del cibo per sé e per Towser, cibo da mangiare strada facendo, perché di fermarsi a mangiare non c’era tempo.
Poi andò nel soggiorno e sbatté giù Towser dalla poltrona con la tappezzeria dorata.
— Andiamo, Towser — disse. — Andiamo a vedere come stanno le cose.
Controllò la benzina del camion: il serbatoio era quasi pieno.
Vi salì col cane e mise il fucile a portata di mano, innestò la marcia indietro, fece fare un mezzo giro al camion e partì in direzione nord, verso il deserto.
Il viaggio era facile: il deserto era piano come un pavimento. Ogni tanto aveva qualche asperità, ma non peggiore di quelle che c’erano in tante strade che aveva percorso a caccia di antichità.
Il paesaggio non cambiava. C’erano basse colline qua e là, ma principalmente il deserto continuava a essere livellato, dipanandosi in quell’orizzonte troppo lontano. Taine continuava a puntare a nord, in direzione del sole. Incappò in qualche banco di sabbia, ma la sabbia era dura e compatta e non gli procurò fastidi.
Mezz’ora dopo capitò sui piccoli esseri, tutti e sedici, che avevano lasciato la casa. Andavano ancora in fila, col loro passo fermo.
Rallentando, Taine si mise per un poco ad andare di fianco a loro, ma senza grandi risultati: continuavano per la loro strada, senza guardare né a destra né a sinistra. Taine accelerò e se li lasciò dietro.