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Quando Rupert Boyce diramò gli inviti per la festa, la somma delle distanze espresse in miglia o chilometri risultò impressionante. Per elencare soltanto i primi dodici invitati, c’erano i Foster, che venivano da Adelaide, in Australia, gli Shoenberger da Haiti, i Farran da Stalingrado, i Moravia da Cincinnati, gli Invanko da Parigi e i Sullivan dai paraggi immediati dell’Isola di Pasqua, ma a quattro chilometri di distanza, presumibilmente, sul fondo dell’oceano. Fu un omaggio particolare a Rupert che, sebbene fossero stati invitati una trentina di ospiti, si presentarono alla villa più di quaranta persone: la percentuale che più o meno Rupert aveva previsto. Soltanto i Krause lo delusero, ma fu perché non avevano tenuto conto della differenza di data a causa dei fusi orari, e arrivarono così ventiquattr’ore più tardi.
A mezzogiorno una raccolta imponente di aerei si era radunata nel parco, e gli ultimi arrivati dovettero percorrere un bel tratto a piedi, dopo aver trovato un punto favorevole all’atterraggio. Gli apparecchi parcheggiati erano di ogni tipo, dai Fitterburg monoposto alle Cadillac per famiglia, molto più simili a palazzi aerei che a nervose macchine volanti. In quell’èra tuttavia non si poteva dedurre lo stato sociale degli invitati dai loro mezzi di trasporto.
«Ma che brutta villa» disse Jean Morrei, mentre il loro Meteor scendeva a spirale. «Sembra una scatola su cui qualcuno abbia appoggiato un piede.»
George Greggson, che aveva un’antipatia d’altri tempi per gli atterraggi automatici, modificò l’angolo d’inclinazione prima di rispondere. «Non si può giudicare la villa guardandola da quassù. A livello del terreno si presenta in tutt’altro modo. Oh, povero me!»
«Che cosa è successo?»
«Ci sono anche i Foster. Riconoscerei quelle sfumature di vernice ovunque.»
«Be’, nessuno ti obbliga a rivolgere loro la parola, se non vuoi. C’è questo vantaggio almeno, alle feste organizzate da Rupert: puoi sempre nasconderti in mezzo alla folla degli invitati.»
George aveva scelto un punto d’atterraggio e ora vi stava scendendo in picchiata. Andarono a posarsi librandosi lievi tra un altro Meteor e un coso che nessuno dei due riuscì a identificare. Aveva l’aria di essere velocissimo, pensò Jean, e terribilmente scomodo. Uno dei tecnici amici di Rupert, immaginò lei, l’aveva probabilmente costruito con le sue mani. Le pareva che ci fosse una legge che proibiva questo genere di cose. Il calore li colpì come la vampa di una fiamma ossidrica nell’istante in cui smontarono dall’apparecchio. Parve succhiare tutta l’umidità dei loro corpi, e George ebbe l’impressione che gli scricchiolasse la pelle. In parte era colpa loro, però. Erano partiti dall’Alaska tre ore prima, e avrebbero anche potuto pensare a condizionare la temperatura della cabina concordemente.
«Che razza di posto per abitare!» boccheggiò Jean. «Credevo che questo clima fosse condizionato!»
«Così è infatti» rispose George. «Qui era tutto deserto, un tempo; e guarda adesso che vegetazione! Vieni, staremo divinamente, una volta entrati in casa.»
La voce di Rupert, un po’ più alta del volume naturale, rimbombò allegramente nelle loro orecchie. L’ospite era ritto presso l’aereo, un bicchiere in ogni mano, e li guardava dall’alto in basso con aria sorniona. Ma li guardava dall’alto in basso per la semplice ragione che era alto almeno tre metri e mezzo ed era anche semitrasparente. Si poteva guardare attraverso il suo corpo senza la minima difficoltà.
«Bello scherzo da fare all’ospite, che dovrebbe essere sacro!» protestò
George. Aveva allungato una mano verso i bicchieri, e la mano c’era passata attraverso, come se i bicchieri fossero fatti d’aria. «M’auguro che tu abbia qualche cosa di meno rarefatto, per noi, quando saremo dentro.»
«Non ti preoccupare» disse Rupert. «Ordina da qui e troverai ogni cosa che ti aspetta appena sarai entrato!»
«Due birre grandi raffreddate in aria liquida» disse George prontamente.
«Arriveremo fra un minuto.»
Rupert annuì, depose uno dei suoi bicchieri su un’invisibile tavola, regolò una leva altrettanto invisibile e scomparve di colpo.
«Però!» disse Jean. «È la prima volta che vedo uno di questi congegni in azione. Come ha fatto Rupert a procurarselo? Credevo che solo i Superni li avessero.»
«Hai mai saputo che Rupert non sia riuscito ad avere qualche cosa che voleva?» rispose George, «È proprio il balocco che fa per lui. Mentre se ne sta tranquillamente seduto nel suo studio, può andarsene in giro per mezza Africa. Niente caldo, niente insetti, nessuno sforzo, e il bar sempre a portata di mano. Sarei curioso di sapere che ne avrebbero detto Stanley e Livingstone!»
Il sole troncò ogni altro scambio di parole fino a quando non furono davanti alla villa. Erano giunti sulla porta, che non era molto facile a distinguersi dal resto della parete di vetro che si levava loro dinanzi, quando la porta si spalancò automaticamente fra un tripudio di fanfare. Jean pensò, e a ragione, che ne avrebbe avuto fin sopra i capelli di quelle fanfare, prima che la festa fosse finita.
La signora Boyce del momento li accolse nella deliziosa frescura dell’ingresso. A dire la verità, era lei la principale ragione di tanto concorso di invitati. Non più della metà sarebbe venuta in ogni caso per vedere la nuova villa di Rupert: gli incerti si erano decisi in virtù di ciò che si diceva della nuova moglie di Rupert.
Soltanto un aggettivo poteva descriverla adeguatamente: sconvolgente. Anche in un mondo dove la bellezza muliebre era ormai comune, gli uomini voltavano la testa al suo passaggio. Doveva avere nelle vene, sospettò
George, una discreta percentuale di sangue negro: il profilo era squisitamente greco, e i capelli lunghi, folti e morbidi. Solo la trama bruna, compatta, della pelle, la troppo usata parola «cioccolata» era l’unica che potesse definirla, rivelava la sua origine mista.
«Siete Jean e George, non è vero?» disse la bella donna porgendo la mano. «Sono così lieta di conoscervi! Rupert sta facendo non so che cosa complicata con le bibite… Su, accomodatevi, e fate la conoscenza di tutti gli altri!»
Aveva una voce vibrante, da contralto, che fece correre piccoli brividi per la spina dorsale di George, come se qualcuno gli stesse suonando il piffero sulla colonna vertebrale. Lanciò un’occhiata inquieta a Jean, che era riuscita a mettere insieme un sorriso alquanto artificioso, e finalmente ritrovò la voce. «È un gran piacere conoscervi» disse, penosamente. «Non vedevamo l’ora di venire alla vostra festa.»
«Rupert dà sempre delle feste meravigliose» intervenne Jean. Ma dal modo con cui aveva calcato la voce su quel «sempre», si capiva che aveva voluto dire: «Ogni volta che si sposa». George arrossì lievemente, e lanciò a Jean un’occhiata di rimprovero, ma non ci fu nessun indizio che la loro ospite avesse accusato la frecciata. Cordialità fatta persona, li introdusse nel salone già gremito da una bella rappresentanza di amici di Rupert. Lui sedeva davanti al quadro di una specie di telecamera: il congegno, senza dubbio, ritenne George, che aveva proiettato la sua immagine nel parco per dare loro il benvenuto. In quel momento era occupatissimo a darne dimostrazione, sorprendendo altri due invitati nell’istante in cui scendevano nella zona di atterraggio, e s’interruppe giusto il tempo per salutare Jean e George e scusarsi per aver fatto servire le loro birre a un’altra coppia.
«Troverete tutta la birra che vorrete laggiù» disse, sventolando vagamente una mano, mentre con l’altra girava le manopole del suo apparec-chio. «Mettetevi a vostro agio, vi prego. Dovete conoscere quasi tutti, qui… Maia vi presenterà agli altri. Siete stati gentili a venire.»
«Molto gentile tu a invitarci» disse Jean, senza troppa convinzione. George era già partito per il banco dei rinfreschi, e lei lo seguì subito, scambiando ogni tanto un saluto con qualche persona che conosceva. Tre quarti dei presenti le erano sconosciuti, come di norma a tutte le feste di Rupert.
«Facciamo un piccolo giro di esplorazione» disse a George, dopo che ebbero bevuto e salutato con cenni della mano tutti gli invitati di loro conoscenza. «Voglio dare un’occhiata alla villa.»
Dopo un’occhiata furtiva a Maia Boyce, George la seguì. Negli occhi aveva una espressione trasognata che a Jean non piaceva nemmeno un po’. Un bel fastidio che gli uomini fossero tendenzialmente poligami! D’altra parte, se non lo fossero stati… Sì, era meglio così, forse. George ritornò rapidamente alla normalità mentre ispezionavano le meraviglie della nuova dimora di Rupert. La casa sembrava molto grande per due persone, ma la vastità era giustificata dai frequenti sovraccarichi che avrebbe dovuto sopportare. Si componeva del pianterreno e del primo piano, questo molto più largo e sporgente in modo da fornire l’ombra necessaria intorno al pianterreno. Il grado di meccanizzazione era notevole; la cucina ricordava molto da vicino la cabina di comando di un aereo di linea.
«Povera Ruby!» disse Jean. «Chi sa quanto le sarebbe piaciuta questa villa!»
«Da quel che ho saputo» rispose George, che non aveva mai avuto molta simpatia per la ex signora Boyce «la povera Ruby vive in stato di felicità perfetta col suo amico australiano.»
La cosa era talmente risaputa, che Jean non trovò niente da ribattere e cambiò argomento.
«È una gran bella donna, no?»
George stava in guardia per non cadere in trappola.
«Oh, direi di sì» rispose in tono indifferente. «Sempre per chi, naturalmente, preferisca le brune.»
«Preferenza che tu non hai, vero?» disse Jean, soave.
«Non essere gelosa, cara, ti prego» rise George, accarezzandole i capelli color platino. «Andiamo a dare un’occhiata alla biblioteca. Dove credi che sia? A pianterreno o al primo?»
«Dev’essere al primo piano: non. c’è più posto quaggiù. E poi s’intona alla disposizione generale della villa. Salotti, sale da pranzo, camere da letto si trovano a pianterreno. Mentre di sopra ci sono i reparti svaghi e sport diversi. Però mi sembra pazzesco una piscina al primo piano.»
«Eppure una ragione deve esserci» disse George aprendo una porta a caso. «Rupert deve essere stato consigliato molto bene, quando ha fatto costruire questa villa. Non avrebbe potuto fare tutto di testa sua.»
«Credo che tu abbia ragione. Diversamente, ora vedremmo delle camere senza porte e scale che non portano in nessun posto. A dirti la verità, avrei paura a mettere piede in una casa che Rupert avesse disegnato interamente da sé.»
«Eccoci arrivati» disse George, con l’orgoglio di un ufficiale di rotta dopo un atterraggio di fortuna. «La favolosa collezione Boyle nella sua nuova sede. Sarei curioso di sapere quanti di questi libri Rupert ha letto veramente.»
La biblioteca occupava l’intera lunghezza della casa, ma era divisa in una mezza dozzina di salette dai grandi scaffali messi trasversalmente. Quegli scaffali dovevano contenere, se George ricordava bene, quindicimila volumi: quasi tutto ciò che d’importante era stato pubblicato sui nebulosi argomenti della magia, delle ricerche metapsichiche, della divinazione, della telepatia, oltre che sulla serie completa di quei fenomeni elusivi raccolti alla rinfusa nella categoria della parafisica. Mania molto strana, quella della metapsichica, nell’èra della logica. Presumibilmente Rupert se l’era scelta come forma di evasione.
George percepì l’odore nell’attimo in cui mise piede in biblioteca. Un odore non molto forte, ma penetrante, e non tanto sgradevole quanto sfuggente a ogni analisi. Anche Jean l’aveva sentito e corrugò la fronte nello sforzo di identificarlo. Acido acetico, pensò George, ecco l’odore che più gli si avvicina, ma c’è anche un altro elemento, si direbbe… La biblioteca terminava in una nicchia, dove c’era appena lo spazio per un tavolino, due poltrone e un paio di sgabelli imbottiti. Presumibilmente quello era il rifugio di Rupert. Ma anche adesso c’era gente nella nicchia. Qualcuno che leggeva in una luce eccezionalmente bassa. Jean soffocò un’esclamazione e afferrò George per un braccio. Una reazione giustificabile: un conto era vedere un’immagine teletrasmessa e un altro trovarsi di fronte alla realtà. Anche George, che difficilmente si stupiva, questa volta non riuscì a restare impassibile.
«Spero di non avervi disturbato…» disse educatamente. «Non avevamo la più pallida idea che ci fosse qualcuno. Rupert non ci aveva detto…»
Il Superno abbassò il libro, li guardò attentamente, poi riprese a leggere. Non c’era niente di scortese in quel comportamento, dato che il Superno poteva leggere, conversare e probabilmente fare parecchie altre cose contemporaneamente. Tuttavia, agli occhi di un essere umano era un atteggiamento da schizofrenico.
«Mi chiamo Rashaverak» disse il Superno, cortesemente. «Temo di non apparirvi troppo socievole, ma è molto difficile sottrarsi al fascino della biblioteca di Rupert.»
Jean riuscì a soffocare una risatina nervosa. Aveva notato che l’inatteso compagno leggeva alla media di circa una pagina ogni due secondi. Non aveva il minimo dubbio che il Superno assimilasse compiutamente ogni parola, e si chiese se potesse leggere un libro con ogni occhio. Senza contare, naturalmente, continuò a pensare con una punta di malizia, che potrebbe anche imparare il metodo braille e così leggere anche con le dita, come i ciechi… L’immagine che ne risultò era troppo comica per non dare luogo a inconvenienti, per cui Jean cercò di evitare il guaio gettandosi a capofitto nella conversazione. Dopo tutto, non era una cosa di tutti i giorni poter scambiare due chiacchiere con uno dei padroni della Terra. George la lasciò chiacchierare, dopo le debite presentazioni, augurandosi che sua moglie non si lasciasse sfuggire qualche osservazione poco opportuna. Come Jean, era la prima volta che vedeva un Superno in carne ed ossa. Sebbene essi si mescolassero ufficialmente con funzionari governativi, scienziati e altri, non aveva mai sentito dire che qualcuno avesse partecipato a una festa privata. Si poteva forse dedurre che quella festa non era così privata come poteva sembrare. E il fatto che Rupert possedesse un apparecchio solitamente riservato ai Superni era un altro indizio, e George cominciò a domandarsi «Che Cosa Esattamente Ci Fosse Di Nuovo». Si riservò di chiederlo a Rupert, non appena avesse potuto prenderlo in disparte. Dato che le poltrone erano troppo piccole per lui, Rashaverak si era seduto sul pavimento e sembrava perfettamente a suo agio. La sua testa sì trovava così a soli due metri dal pavimento e George ebbe la stupenda occasione di studiare biologia extraterrestre. Purtroppo, dato che conosceva ben poco anche di biologia terrestre, non poté imparare molto di più di ciò che già sapeva. Soltanto quell’odore acidulo ma tutt’altro che sgradevole, gli riusciva nuovo. Si domandò quale odore avessero gli umani per i Superni e sperò per il meglio. Non c’era niente di realmente antropomorfico in Rashaverak. Però George si rese conto che, visti in distanza, da selvaggi ignoranti, atterriti, i Su-perni avevano potuto benissimo essere scambiati per uomini alati, dando così origine al ritratto convenzionale del Diavolo. Ma, a una distanza ravvicinata come quella, gran parte dell’illusione scompariva. Le ali di Rashaverak erano ripiegate in modo che George non poteva vederle bene, ma la coda, che pareva un tubo di gomma corazzato, gli stava avvoltolata ordinatamente sotto il corpo. Il famoso ciuffo sulla punta non era tanto un ferro di lancia, quanto un largo e piatto rombo. Suo scopo, come si riteneva generalmente, era di dare maggiore stabilità al volo, come le penne caudali d’un uccello. Da pochi dati e supposizioni del genere, gli scienziati erano giunti alla conclusione che i Superni provenissero da un pianeta caratterizzato da bassa gravità e atmosfera densissima. La voce di Rupert rimbombò a un tratto da un altoparlante nascosto.
«Jean! George! Dove diavolo vi siete cacciati? Scendete. Gli altri cominciano a mormorare!»
«Sarà meglio che scenda anch’io» disse Rashaverak, riponendo il volume in uno scaffale. Lo fece con estrema facilità, senza muoversi dal pavimento, e George notò per la prima volta che l’essere aveva due pollici, opponibili, con cinque dita fra loro. «Non vorrei studiare aritmetica secondo un sistema basato sul quattordici» pensò George. Rashaverak in piedi offriva uno spettacolo imponente, e quando il Superno dovette chinarsi per non battere la testa contro il soffitto, fu alquanto evidente che se pure erano desiderosi di mescolarsi agli uomini, gli Eccelsi avevano molte difficoltà di ordine pratico da superare. Parecchi altri aerei di invitati erano giunti in quella mezz’ora, e la sala, ora, rigurgitava. L’arrivo di Rashaverak complicò la situazione, perché tutti quelli che si trovavano nelle sale attigue accorsero per vederlo da vicino. Rupert era ovviamente compiaciuto della sensazione prodotta dal suo ospite eccezionale. Quanto a Jean e George, passarono completamente inosservati, soprattutto perché si trovavano dietro il Superno.
«Vieni qua, Rashy» urlò Rupert. «Voglio farti conoscere un po’ di amici. Siedi su questo divano, così la smetterai di raschiarmi il soffitto.»
Rashaverak, la coda buttata su una spalla, si mosse attraverso la sala come un rompighiaccio che tenti la via della banchisa. Quando si sedette accanto a Rupert, la sala parve ridiventare più vasta, e George emise un sospiro di sollievo.
«Mi viene un attacco di claustrofobia, ogni volta che lo vedo in piedi. Chissà come avrà fatto Rupert ad accaparrarselo… la festa si annuncia interessante, una volta tanto.»
«Hai sentito come Rupert lo tratta confidenzialmente, e in pubblico, per giunta? Ma il Superno non ha avuto l’aria di offendersi. È tutto molto strano.»
«Io invece scommetto che il Superno se l’è avuta a male. Il guaio di Rupert è la sua mania di esibizionismo e la sua mancanza di tatto. E questo mi fa venire in mente alcune delle domande che gli hai rivolto!»
«Per esempio?»
«Per esempio: «Da quanto tempo siete qui fra noi?», «Andate d’accordo col Supercontrollore Karellen?», «Vi trovate bene sulla Terra?». Ti assicuro, tesoro, non si parla ai Superni con quel tono!»
«Non vedo perché. È ora che qualcuno cominci!»
Prima che la discussione degenerasse, furono avvicinati dagli Shoenberger e, rapidissima, avvenne la scissione dell’atomo: le due donne se ne andarono in una direzione per parlare con comodo della signora Boyce, gli uomini in un’altra per fare esattamente la stessa cosa, ma da un diverso punto di vista.
«Secondo me» disse George, invidioso «è una donna troppo superiore a Rupert. Un’unione così non può durare. Lei si stancherà molto presto di lui.» Pensiero che parve sollevarlo straordinariamente.
«Non t’illudere! Oltre a essere quella splendida donna che è, Maia è anche molto a modo. Era tempo che qualcuno s’incaricasse di far mettere la testa a posto a Rupert, e Maia è proprio la donna che ci voleva.»
Rupert e Maia erano seduti accanto a Rashaverak, a ricevere gli ospiti. Di rado le feste di Rupert avevano un punto focale. Di solito si formavano una mezza dozzina di gruppi autonomi intenti a conversazioni loro proprie. Questa volta, però, tutti gli ospiti gravitavano attorno a un preciso centro d’attrazione. George si rammaricò per Maia: quella sarebbe dovuta essere la sua giornata, ma Rashaverak l’aveva in parte eclissata.
«Senti» riprese George, addentando una tartina «sai dirmi come ha fatto Rupert a mettere le mani su di un Super? Non ce ne ha nemmeno parlato, nell’invito.»
Benny si mise a ridere.
«È un’altra delle sue piccole sorprese. Sarà meglio che tu lo chieda direttamente a lui, come ha fatto. Ma questa non è la prima volta, comunque, che accade una cosa del genere. Karellen, per esempio, ha partecipato a ricevimenti della Casa Bianca e di Buckingham Palace, e…»
«Ma è diverso! Rupert è solo un privato cittadino!»
«Può darsi che Rashaverak non sia che un Super di basso rango. Ma chiedilo a loro.»
«Lo farò» disse George «appena mi sarà possibile prendere Rupert da parte.»
«Allora dovrai aspettare un pezzo.»
Benny aveva ragione, ma la festa si andava riscaldando, e non fu molto difficile avere pazienza. La paralisi generale provocata dalla comparsa di Rashaverak si era infine dissolta. C’era ancora un gruppetto di persone intorno al Superno, ma altrove si stava verificando la solita frammentazione, e tutti si comportavano normalmente. Senza voltare la testa, George poteva vedere un famoso produttore cinematografico, un poeta di un certo interesse, un matematico, due attori, un fisico nucleare, il direttore di un giardino zoologico, il direttore di un settimanale, un professore di statistica del Consiglio Bancario Mondiale, un virtuoso del violino, un archeologo e un astrofisico. Non c’erano altri esponenti della professione di George, scenografo della TV, cosa che non gli dispiacque, dato che non aveva voglia di parlare di lavoro.
Finalmente poté cogliere di sorpresa Rupert in cucina mentre sperimentava nuove misture. Era un peccato strapparlo al suo paradiso per riportarlo bruscamente sulla Terra, ma quando era necessario, George sapeva essere spietato.
«Senti, Rupert» cominciò, sedendosi sull’angolo del tavolo «mi pare che tu ci debba qualche spiegazione.»
«Mm» fece Rupert, assaporando il gusto della miscela. «Forse un po’ troppo gin, mi pare…»
«Non scantonare e non fare finta di non essere più in condizioni di capire, perché so benissimo che non sei ancora ubriaco. Allora, da dove salta fuori il tuo amico Superno e che cosa ci fa qui?»
«Ma come, non te l’ho detto?» disse Rupert. «Credevo di avere spiegato tutto. Si vede che non c’eri quando… Ma già, eri in biblioteca.» Si mise a ridacchiare in un modo che a George parve offensivo. «È proprio la biblioteca che ha fatto capitare qui Rashy.»
«Incredibile!»
«Perché?»
George tacque un momento rendendosi conto che a quel riguardo ci voleva un po’ di tatto: Rupert andava molto orgoglioso della sua raccolta.
«Be’, quando si pensa a tutto quello che i Superni possono insegnare in campo scientifico, ci si stupisce un po’ che s’interessino ai fenomeni psichici, parafisici, metapsichici e a tutto questo genere di sciocchezze, no?»
«Sciocchezze o no» rispose Rupert «si interessano alla psicologia umana, e io ho alcuni volumi che possono insegnare loro parecchie cose. Proprio poco tempo prima che io mi trasferissi qui, un vice Sotto Super o un vice Super-Sottocontrollore si è messo in contatto con me per chiedermi in prestito i miei cinquanta volumi più rari. Pare che uno dei bibliotecari della biblioteca del British Museum gli avesse fatto il mio nome. Naturalmente, puoi immaginare cosa gli ho risposto.»
«No, non lo immagino.»
«Gli ho detto con tutta la cortesia possibile che mi ci erano voluti vent’anni per raccogliere la mia biblioteca. Felicissimo che volessero consultare i miei volumi, ma dovevano venire qui se volevano leggerli. Allora ecco comparire Rashy, che da quel momento procede alla media di venti volumi al giorno. Non so che cosa pagherei per sapere a che gli serve tutto quello che legge.»
George ci pensò sopra, alla fine si strinse nelle spalle, deluso.
«Francamente» disse «la mia stima per i Superni scende di parecchi gradi. Credevo che avessero di meglio da fare.»
«Sei il solito incorreggibile materialista! Non credo che Jean concordi con le tue idee. Ma anche dal tuo tanto pratico punto di vista, la cosa è sensata. Sono convinto che ti metteresti a studiare le superstizioni di ogni razza primitiva con la quale dovessi avere a che fare, non è così?»
«Direi di sì» rispose George, non del tutto convinto. Il tavolo non era un sedile comodo, e lui si alzò. Rupert aveva finito ora di rimescolare le sue misture e si accingeva con aria soddisfatta a servirle ai suoi ospiti. «Ehi!» protestò George. «Prima di sparire devi rispondere a un’altra domanda. Come hai fatto ad avere quella specie di telecamera rice-trasmittente con cui hai cercato di spaventarci?»
«S’è trattato di mercanteggiare un po’, ecco tutto. Avevo fatto notare che sarebbe stato utile quell’aggeggio per un lavoro come il mio, e Rashy ha avanzato la proposta a chi di dovere.»
«Perdona la mia ottusità, ma qual è il tuo nuovo lavoro? Immagino che abbia a che fare più o meno con gli animali.»
«Esattamente. Io sono un superveterinario. La mia condotta ricopre circa diecimila chilometri quadrati di giungla, e siccome i miei pazienti non vogliono venire da me, sono io che devo andare a scovarli.»
«Un lavoro sfibrante, no?»
«Naturalmente, non conviene preoccuparsi della minutaglia. Ma soltanto di leoni, elefanti, rinoceronti, e così via. Tutte le mattine metto i controlli per una quota di cento metri, mi siedo davanti allo schermo e me ne vado a esplorare i dintorni; appena trovo qualche creatura bisognosa di me, salto sull’aereo e mi auguro che il mio stile di buon samaritano abbia i suoi risultati. Alle volte, si hanno delle sorprese non molto piacevoli. Leoni e simili sono facili a curarsi; ma cercare di pungere un rinoceronte dall’alto con una freccia anestetica è un’impresa titanica.»
«Rupert!» chiamò qualcuno dalla sala accanto.
«Dio, guarda che cosa mi hai combinato! Mi hai fatto dimenticare i miei ospiti. Là, guarda, prendi quel vassoio. Quelli sono i bicchieri col vermut… non voglio confonderli con gli altri.»
Fu poco prima del tramonto che George riuscì a svignarsela verso la terrazza sul tetto. Per molte buone ragioni, aveva una lieve emicrania, per cui non gli era parso vero sottrarsi al baccano e alla confusione che regnavano da basso. Jean, ballerina infinitamente migliore di lui, aveva ancora l’aria di divertirsi enormemente e non era voluta uscire. George, che grazie all’alcol ingerito si sentiva eroticamente sentimentale, c’era rimasto male e aveva deciso di smaltire il malumore in pace, sotto le stelle. Si giungeva alla terrazza sul tetto mediante la scala mobile fino al primo piano e poi arrampicandosi sulla scala a chiocciola che girava intorno alla tubatura dell’impianto per l’aria condizionata, uscendo infine per una porta. L’aereo di Rupert era parcheggiato a un capo della terrazza: la zona centrale era tenuta a giardino, un giardino che dava già a vedere di essere incolto, mentre il resto non era che una piattaforma-osservatorio con alcune sedie a sdraio. George si lasciò cadere su una delle sedie e si guardò intorno con occhio da sovrano. Si sentiva il dominatore di tutto ciò su cui posava lo sguardo. Le stelle che cominciarono a spuntare da tutte le parti con tanta fretta appena il sole fu del tutto scomparso gli erano completamente sconosciute. Cercò la Croce del Sud, ma non la trovò. Sebbene sapesse ben poco di astronomia e fosse in grado di identificare solo tre o quattro costellazioni, pure quell’assenza di configurazioni familiari gli riuscì stranamente penosa. Come erano penose le urla che provenivano dalla giungla, che ad un tratto sembrava essersi fatta vicina in modo preoccupante. «Basta con quest’aria fresca» pensò George. «Ora me ne torno da basso, prima che un vampiro, o qualche altra creatura altrettanto gradevole, venga a indagare su questa terrazza.»
Stava già per dirigersi verso la porta, quando un altro invitato ne emerse. Si era fatto così buio, ora, che George non poté vedere chi fosse. «Ehi, laggiù!» gridò. «Ne avete avuto abbastanza anche voi?»
Il suo invisibile compagno si mise a ridere. «Rupert sta proiettando i suoi film. Io li ho già visti tutti» disse.
«Una sigaretta?» offrì George.
«Grazie.»
Alla fiamma dell’accendino — George aveva la mania di quelle anticaglie
— riconobbe finalmente l’altro invitato, un giovane negro, straordinariamente bello. Gliene avevano detto il nome, ma George si era fatto un dovere di dimenticarlo subito, assieme a quelli degli altri venti sconosciuti che gli erano stati presentati. Tuttavia, c’era qualcosa di familiare nella fisionomia del giovane, e George a un tratto intuì la verità.
«Non credo che ci siamo conosciuti molto a fondo» disse «ma non siete forse il nuovo cognato di Rupert?»
«Esattamente: sono Jan Rodricks. Tutti dicono che Maia e io ci assomigliamo moltissimo.»
George si domandò se non dovesse esprimere a Jan la sua commiserazione per quel parente di recentissima acquisizione, ma pensò che fosse meglio lasciare il poveretto libero di scoprirlo da sé. Del resto, poteva anche darsi che questa volta Rupert si decidesse a mettere la testa a posto.
«Sono George Greggson» disse. «È la prima volta che venite a una delle famose feste di Rupert?»
«Sì. C’è da conoscere un mucchio di gente nuova in occasioni come questa.»
«E non soltanto di questa Terra» soggiunse George. «È stata la prima occasione che mi si è presentata di conoscere personalmente un Superno.»
L’altro esitò un attimo prima di rispondere, e George ebbe la sensazione di aver colpito un punto debole. Ma la risposta non rivelò niente.
«Nemmeno io ne avevo mai visto uno prima d’ora, tranne che alla TV.»
A questo punto la conversazione cominciò a languire, e dopo un istante George si accorse che Jan aveva voglia di starsene solo. L’aria si faceva fredda, comunque, per cui, scusatosi, scese a raggiungere gli altri. La giungla taceva, ora. Nell’appoggiarsi con le spalle alla presa d’aria dell’impianto di condizionamento, Jan non udì altro suono se non il ronzio lieve della casa che respirava con i suoi polmoni meccanici. Il giovane si sentiva malinconico e solo, ed era così che voleva essere. Ma si sentiva anche profondamente deluso e scoraggiato, che era proprio ciò che non voleva assolutamente essere.