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Nessuna Utopia potrà mai dare soddisfazione a tutti, in ogni momento. A misura che le condizioni materiali migliorano, gli uomini elevano in proporzione le loro aspirazioni e non si accontentano più di poteri e beni che un tempo sarebbero parsi loro al di là di ogni speranza più audace. E anche quando il mondo esterno ha concesso tutto quello che può, rimangono pur sempre le esigenze della mente e i desideri nostalgici del cuore. Jan Rodricks, sebbene apprezzasse molto di rado la sua fortuna, in un’epoca precedente sarebbe stato ancora più scontento e insoddisfatto. Un secolo prima il colore della sua pelle sarebbe stato un ostacolo tremendo. Oggi, non aveva più nessun significato. Passato anche il senso di superiorità, venuto come reazione, che i negri avevano trovato nel ventunesimo secolo. La parola «negro» non era più tabù tra persone educate e veniva usata da chiunque senza il minimo impaccio. Non aveva più contenuto emotivo di quanto non ne potessero avere etichette da repubblicano o metodista, conservatore o liberale.
Il padre di Jan era stato un affascinante scozzese, irrequieto e irresponsabile, che si era fatto un certo nome come guaritore di professione. La sua morte, alla precoce età di quarantacinque anni, era stata provocata dall’eccessivo consumo del più celebrato prodotto del suo Paese. La signora Rodricks, ancora viva e vegeta, insegnava teoria delle probabilità all’Università di Edimburgo. Era una caratteristica dell’estrema mobilità del genere umano ai primordi del XXI secolo, che la signora Rodricks, la quale era d’un nero ebano, fosse nata in Scozia, mentre il suo biondo marito senza patria fissa aveva passato quasi tutta la sua vita ad Haiti. Maia e Jan non avevano mai avuto una casa loro, ma avevano sempre fatto la spola tra le famiglie paterna e materna come due traghetti. La cosa era stata molto divertente, ma non aveva certo contributo a temperare l’instabilità di carattere che entrambi avevano ereditato dal padre. A ventisette anni, Jan aveva ancora parecchi anni di vita universitaria davanti a sé prima di poter pensare seriamente alla carriera. Aveva superato i primi esami senza sforzo, seguendo un programma di studi che un secolo prima sarebbe parso molto strano. Si interessava di fisica, matematica, filosofia e musica, ed era un pianista di molto talento. In un triennio contava di laurearsi in fisica applicata, con l’astronomia come disciplina sussidiaria. Tutto ciò avrebbe sottinteso un’intensa attività, ma Jan se la prendeva alla leggera. Studiava presso l’istituto più splendidamente situato nel mondo: l’Università di Città del Capo, ai piedi della Table Mountain.
Non aveva preoccupazioni materiali, eppure si sentiva scontento, angustiato e non vedeva rimedio alla sua condizione. A peggiorare questo stato di cose, c’era la felicità di Maia, che sottolineava la causa principale della malinconia di Jan.
Jan soffriva ancora di quella romantica illusione, causa di tanta infelicità e tanta poesia, secondo cui un uomo non ha che un solo vero amore in vita sua. Molto più tardi di quanto non accadesse alla maggioranza dei giovani, Jan aveva dato il suo cuore per la prima volta a una ragazza nota più per la sua bellezza che per la sua costanza. Rosita Tsien affermava di discendere dalla dinastia Manciù, e non mentiva. Aveva infatti ancora molti sudditi, soprattutto nelle Facoltà di Scienze dell’Università. Jan era caduto prigioniero della delicata bellezza di Rosita, e l’idillio si era protratto abbastanza a lungo da rendere più doloroso il finale. Lui non riusciva a capire che cosa avesse fatto crollare tutto. Naturalmente gli sarebbe passata, come era successo ad altri, ma per il momento Jan trovava insopportabile la vita. L’altra sua causa di rodimento era meno facilmente rimediabile perché connessa al peso che il dominio dei Superni esercitava sulle sue aspirazioni. Jan era un romantico non soltanto col cuore ma anche col cervello. Come molti altri giovani, dopo la conquista dello spazio, aveva lasciato che sogni e fantasia vagassero per gli inesplorati oceani del cosmo. Un secolo prima, l’uomo aveva messo il piede sulla scala che avrebbe potuto portarlo alle stelle. Ma proprio in quell’istante, la porta dei pianeti gli era stata chiusa in faccia. I Superni avevano imposto pochi divieti assoluti su alcuni aspetti delle attività umane (quella bellica era stata forse la più importante), ma le ricerche nel campo dell’astronautica erano virtualmente cessate. La sfida portata dalla scienza dei Superni era troppo grande. Almeno per il momento, l’uomo, scoraggiato, si era rivolto ad altre attività. Non valeva la pena di evolvere razzi sempre più perfetti, quando i Superni avevano mezzi di propulsione infinitamente superiori, basati su principi di cui gli uomini non avevano mai nemmeno avuto sentore. Poche centinaia di uomini avevano visitato la Luna, allo scopo di stabilirvi un osservatorio astronomico. Avevano viaggiato come passeggeri in una piccola astronave concessa dai Superni, e con motori a razzo. Era ovvio che si poteva apprendere ben poco dallo studio di un aeromobile così antiquato.
L’uomo, quindi, era ancora prigioniero del suo pianeta. Un pianeta molto più giusto e saggio, ma anche molto più piccolo di quel che non fosse stato un secolo prima. Abolendo guerra, miseria e malattie, i Superni avevano anche abolito l’avventura.
La luna nascente cominciava a tingere il cielo orientale d’un pallido riflesso latteo. Lassù, come Jean sapeva bene, c’era la base principale dei Superni, in fondo all’immenso cratere di Plutone. Quantunque le astronavi addette ai rifornimenti dovessero essere andate e venute da quella base da oltre settant’anni, soltanto durante la vita di Jean ogni dissimulazione era stata abbandonata e i Superni avevano effettuato arrivi e partenze in piena vista. Nel telescopio con cinque metri d’apertura, le ombre delle grandi astronavi si potevano vedere nitidamente quando, al mattino e alla sera, il sole le allungava per miglia e miglia sulle piane lunari. Siccome tutto quello che i Superni facevano era di immenso interesse per il genere umano, era cominciata una costante vigilanza dei loro arrivi e delle loro partenze, e così si poteva avere un idea delle loro operazioni anche se non dei motivi che le determinavano. Una di quelle grandi ombre era svanita qualche ora prima. Ciò significava, come Jan sapeva, che in un punto dello spazio presso la Luna un’astronave dei Superni attendeva immobile, eseguendo gli ordini che le erano stati impartiti, prima d’iniziare il viaggio per la lontana patria sconosciuta.
Lui non aveva mai visto una di quelle astronavi che ripartivano per il loro pianeta lanciarsi verso le stelle. Se le condizioni di visibilità erano buone, lo spettacolo era visibile da una buona metà del globo, ma Jan non aveva mai avuto fortuna. Non si poteva mai prevedere quando sarebbe avvenuto il decollo, e del resto i Superni non davano nessuna pubblicità all’evento. Jan decise di aspettare altri dieci minuti, prima di scendere a raggiungere gli altri. E quella che cos’era? Niente altro che una meteora, che scivolava mollemente giù dalla costellazione di Eridano. Jan si rilassò, scoprì che la sigaretta si era spenta e ne accese un’altra. Ne aveva fumato circa metà, quando, a mezzo milione di chilometri di distanza, si accese l’iperpropulsione. Dal cuore della radiosità lunare, una minuscola favilla cominciò a salire verso lo zenit. Dapprima il suo movimento fu quasi impercettibile, ma guadagnava velocità a ogni secondo. Salendo, accrebbe il suo fulgore, poi, bruscamente, si affievolì fino a scomparire. Un istante dopo la favilla ricomparve, aumentando in fulgore e velocità. Ora vivida ora fioca secondo un suo ritmo, ascendeva sempre più rapidamente nel cielo, tracciando una fluttuante linea di luce in mezzo alle stelle. Anche ignorandone la vera distanza, l’impressione di velocità che se ne aveva era da mozzare il fiato; sapendo poi che l’astronave in partenza si trovava nello spazio al di là della Luna, la mente era colta da vertigine all’idea delle velocità e delle forze che quel moto implicava. Quello che ora vedeva, si disse Jan, era un sottoprodotto senza importanza di quelle forze. L’astronave stessa era invisibile, già molto più innanzi della luce ascendente. Come un aviogetto si lascia dietro una scia di vapori, così la nave dei Superni lanciata verso l’infinito aveva la sua scia particolare. La teoria generalmente accettata, e non sembrava esservi dubbio della sua fondatezza, era che l’immensa accelerazione dell’iperpropulsione causasse una distorsione locale nello spazio. Ciò che Jan stava ora vedendo era solo la luce delle stelle lontanissime, raccolta e messa a fuoco della sua retina appena le condizioni favorevoli lungo la scia dell’astronave lo permettevano. Era una prova visibile della relatività: la deviazione dei raggi luminosi nelle vicinanze di un colossale campo gravitazionale. La luce fantomatica cominciava ad affievolirsi. Adesso non era più che una minuscola striatura vaga, che puntava verso il cuore della costellazione della Carena, come Jan sapeva che avrebbe fatto. Il mondo dei Superni sembrava essere in quella direzione, approssimativamente, ma poteva gravitare intorno a una qualunque delle migliaia di stelle che si addensavano in quel settore dello spazio. Non c’era modo di stabilire la sua distanza dal Sistema Solare.
Non c’era più niente, ora. Sebbene l’astronave avesse appena cominciato il viaggio, l’occhio umano non poteva vedere più niente. Ma nella memoria di Jan il ricordo di quell’itinerario luminoso continuava ad ardere, fascio di luce lanciato da un faro che non si sarebbe mai affievolito finché lui avesse avuto in sé ambizioni e desideri.
La festa era finita. Quasi tutti gli invitati erano ripartiti a bordo dei loro aerei e sciamavano ora verso i quattro angoli della Terra, tranne qualche eccezione.
Una era Norman Dodsworth, il poeta, che si era ubriacato vergognosamente, ma aveva almeno avuto il buon gusto di svenire prima di dare spettacolo. Con scarsa delicatezza, l’avevano sdraiato all’aperto con la speranza che qualche iena gli desse un rude risveglio. Stando così le cose, era come se Dodsworth non ci fosse affatto.
Tra gli altri rimasti erano George e Jean. Idea che non era stata affatto di George, il quale aveva una gran voglia di tornarsene a casa. Era ovvio che Rupert aveva in serbo qualche sorpresa, probabilmente d’accordo con Jean. George si rassegnò di malumore a qualunque sciocchezza stessero per propinargli.
«Ho tentato di tutto prima di fermarmi su questa» disse Rupert orgogliosamente. «Il problema fondamentale è quello di ridurre l’attrito allo scopo di ottenere la massima libertà di movimento. L’antiquata apparecchiatura a base di tavolo lucido e levigato col suo bravo bicchiere sopra non è tanto male, ma è in uso da secoli, ormai, e io ero sicuro che la scienza moderna poteva trovare di meglio. Ed ecco il risultato. Avvicinate pure le sedie… davvero non te la senti di unirti a noi, Rashy?»
Il Superno parve esitare per una frazione di secondo. Quindi scosse la testa. Avevano forse imparato quel gesto sulla Terra? pensò George.
«No, grazie» rispose. «Preferisco stare a guardare. Un’altra volta, forse.»
«Benissimo… c’è rutto il tempo che vuoi, qualora dovessi cambiare idea più tardi.»
«Ah, bene!» pensò George, più nero che mai, guardando l’orologio. Rupert aveva radunato il gruppetto di amici attorno a un tavolo piccolo ma massiccio e perfettamente rotondo. Il piano, di plastica, era un coperchio molto sottile, che egli sollevò per mettere in mostra un mare scintillante di cuscinetti a sfere strettamente connessi. L’orlo lievemente rilevato del tavolo impediva alle sfere di rotolare via, e George non riuscì a capire a che cosa servissero. Le centinaia di punti di luce riflessa formavano un disegno ipnotico, affascinante, sì che George ne ebbe la mente confusa. Mentre gli altri avvicinavano le sedie, Rupert allungò un braccio sotto il tavolo, prese un disco del diametro di dieci centimetri circa e lo appoggiò sulla superficie dei cuscinetti a sfera.
«Ecco qua» disse. «Appoggiate la punta delle dita su questo disco e vedrete che si muoverà senza fare resistenza.»
George si mise a osservare disco e tavolo con profonda diffidenza. Vide che le lettere dell’alfabeto erano disposte a intervalli regolari, anche se non in base a un preciso ordine di successione, lungo la circonferenza del tavolino, Inoltre c’erano i numeri dall’1 al 9, sparsi alla rinfusa tra le lettere, e due cartoncini con le parole «sì» e «no», l’uno di fronte all’altro, ai margini del tavolino.
«A me sembra un gioco di bussolotti» mormorò. «Mi stupisce che ci sia gente che lo prenda sul serio ancora oggi.» Si sentì meglio, dopo essersi alleggerito con questa piccola protesta rivolta tanto a Jean quanto a Rupert. Rupert si atteggiava a uomo di larghe vedute, ma tutt’altro che credulo, con soltanto un distaccato interesse scientifico per fenomeni del genere, Jean, d’altra parte… George, a volte era un po’ preoccupato nei suoi riguardi. Lei sembrava convinta che ci fosse qualcosa di molto vero in quei giochetti di telepatia e di preveggenza.
Fu solo dopo avere espresso la sua osservazione che George si accorse che la protesta toccava anche a Rashaverak. Lanciò nervosamente un’occhiata nella sua direzione, ma il Superno non dimostrò nessuna reazione. La qual cosa, com’era naturale, non significava assolutamente nulla. Ognuno aveva preso il suo posto. Nel senso delle lancette dell’orologio, sedevano Rupert, Maia, Jan, Jean, George e Benny Shoenberger. Ruth Shoenberger sedeva discosta, al di fuori del circolo, con in mano un quaderno. Ruth aveva fatto qualche obiezione a partecipare alla seduta, la qual cosa aveva indotto Benny a osservare in tono sarcastico che al mondo c’era ancora gente che prendeva sul serio il Talmud. Comunque, Ruth pareva dispostissima a fungere da segretaria.
«Ora» disse Rupert «vi prego di ascoltarmi attentamente. A beneficio degli scettici come George, sarà bene mettere molto in chiaro subito questo: ci sia o non ci sia un elemento soprannaturale in questa faccenda, vi dico che la cosa funziona. Personalmente ritengo che si possa dare una spiegazione di carattere strettamente meccanico. Quando noi poniamo la punta delle dita sul disco, anche se possiamo tentare d’influire sui suoi movimenti, il nostro subcosciente comincia a farci degli scherzi. Ho analizzato moltissime sedute di questo genere e non ho mai trovato risposte che qualcuno del gruppo potesse non sapere o non indovinare… anche se spesso nessuno ne era consapevole. Ad ogni modo, vorrei eseguire l’esperimento in queste circostanze, diremo così, peculiari.»
La Circostanza Peculiare se ne stava seduta a osservarli in silenzio, ma indubbiamente non con indifferenza. George si chiese che cosa pensasse esattamente Rashaverak di simili prodezze. Erano forse, le sue, le reazioni di un antropologo che osserva qualche primitivo rito religioso? Tutta la situazione era semplicemente grottesca, e George si sentì ridicolo come non gli era mai capitato di sentirsi in vita sua.
Se anche gli altri si sentivano ridicoli, non lo dimostrarono. Solo Jean era accesa in volto, eccitata; ma forse erano state le bevande alcoliche.
«Tutto a posto?» disse Rupert. «Bene.» Fece una pausa a effetto, quindi, senza rivolgersi a nessuno in particolare, domandò: «C’è forse qualcuno?»
Sotto le dita George sentì il disco vibrare. Non era sorprendente, data la pressione esercitata su di esso dalle sei persone della catena. Quindi il disco cominciò a scivolare lungo due curve, tracciando un piccolo otto, ter-minato il quale rimase immobile nel centro, da dove si era mosso.
«C’è qualcuno?» ripeté Rupert. E in un tono di più normale conversazione soggiunse: «Spesso bisogna aspettare da dieci minuti a un quarto d’ora, prima che si cominci. Ma alle volte…»
«Ssst!» fece Jean.
Il disco aveva ripreso a muoversi e ora stava percorrendo un grande arco oscillando fra i cartellini del «sì» e del «no». A fatica, George represse un sorriso sarcastico. Che cosa avrebbe dimostrato quel disco, pensò, se si fosse fermato davanti al no? Ricordò il vecchio scherzo: «Se ci sei batti un colpo, se non ci sei battine due!».
Ma il disco si fermò davanti al «sì», brevemente, poi ritornò al centro della tavola. In un certo senso pareva vivo, ora, vivo e in attesa di una nuova domanda. Nonostante tutto George cominciò a sentirsi impressionato.
«Chi sei?» «domandò Rupert.
Le lettere finirono compilate nettamente, a una a una, dal disco, senza la minima esitazione. Il piattello rotondo saettava qua e là per il tavolo come una cosa animata, spesso così veloce che George non riusciva a tenerci sopra le dita. Avrebbe potuto giurare che non contribuiva assolutamente al suo movimento; e, guardandosi intorno, rapidamente, non notò niente di sospetto sulla faccia dei suoi amici. Sembravano assorti e in attesa come lui stesso.
IOSONOTUTTI, compilò il piattello e tornò al suo punto di equilibrio.
«Io sono tutti» ripeté Rupert.
«Una risposta tipica. Evasiva e niente stimolante. Probabilmente significa che non c’è altra cosa, qui, all’infuori dell’effetto combinato delle nostre menti.» Tacque per qualche istante, evidentemente per scegliere la domanda successiva. Infine si rivolse all’aria ancora una volta.
«Hai un messaggio per qualcuno dei presenti?»
«No» rispose prontamente il disco.
Rupert si guardò intorno.
«Dobbiamo fare noi. A volte comunica di sua iniziativa, ma stavolta dobbiamo rivolgergli domande precise. C’è nessuno che voglia cominciare?»
«Pioverà domani?» scherzò George.
Immediatamente il piattello cominciò ad andare e venire nello spazio tra il «sì» e il «no».
«È una domanda futile» disse Rupert in tono di rimprovero. «C’è sempre la probabilità che piova in qualche zona e ci sia siccità in altre. Non bisogna fare domande che implichino ambiguità di risposta.»
George si sentì schiacciato e lasciò a qualche altro la domanda successiva.
«Qual è il mio colore preferito?» domandò Maia.
BLU, fu la risposta giusta.
«Esattissimo!»
«Questo non prova niente. Almeno tre persone presenti sanno la risposta» obiettò George.
«Qual è il colore preferito di Ruth?» domandò Benny.
ROSSO.
«È vero, Ruth?»
La segretaria alzò lo sguardo dal quaderno dove annotava domande e risposte.
«Sì. Ma Benny lo sa, e fa parte della catena.»
«Io non lo sapevo affatto» protestò Benny.
«Lo sapevi benissimo! Non so più quante volte te l’ho detto.»
«Ricordi del subconscio» mormorò Rupert. «Avviene spesso. Ma non possiamo fare qualche domanda un po’ più intelligente, per favore? Ora che la seduta è cominciata così bene, non vorrei vederla finire in niente.»
Cosa strana, la stessa banalità del fenomeno cominciava a impressionare George. Era certissimo che la spiegazione non avesse niente a che vedere col mondo soprannaturale. Come aveva detto Rupert, il disco rispondeva semplicemente ai loro inconsci movimenti muscolari. Ma era il fatto in sé che sorprendeva e colpiva: lui non avrebbe mai creduto che si potessero ottenere risposte tanto pronte e precise. Una volta tentò di vedere se potesse influire sul piattello facendogli comporre il suo nome: riuscì a ottenere la G, ma fu tutto: il resto non aveva senso. Era virtualmente impossibile, decise, che una persona sola fosse in grado di tenere il disco sotto controllo a insaputa degli altri.
Dopo una trentina di minuti, Ruth aveva scritto oltre una decina di messaggi, alcuni dei quali molto lunghi. Vi figuravano ogni tanto errori di ortografia e anomalie grammaticali, ma in numero ridottissimo. Quale che fosse la spiegazione, George era convinto ora di non contribuire consapevolmente ai risultati. Più volte, mentre una parola era in fase di composizione, aveva creduto di prevedere la lettera successiva e perciò il significato del messaggio. Ma ogni volta il piattello si era poi diretto verso tutt’altra lettera, formando una parola del tutto inattesa. Spesso, infatti, l’in-tero messaggio, dato che non c’era soluzione di continuità tra una parola e l’altra, era totalmente privo di senso fino a quando non era ultimato e Ruth non lo aveva riletto.
Quell’esperienza dava a George l’impressione soprannaturale di essere in comunicazione con una mente autonoma, dotata di volontà sua propria. E nello stesso tempo non c’era una prova conclusiva né in un senso né nell’altro. Le risposte erano così banali, così ambigue! Che cosa si poteva tirar fuori per esempio, da:
CREDERENELLUOMOLANATURAECONVOI?
Pure ogni tanto c’erano indizi di verità profonde, addirittura sconvolgenti:
RICORDACHELUOMONONESOLOPRESSOLUOMOESISTEILPAES
EDIALTRI.
Ma era una cosa naturale, che tutti sapevano: tuttavia non poteva forse il messaggio riferirsi ad altri che non i Superni?
George finì per cadere in preda al torpore. Era tempo, si disse assonnato, di riprendere la via del ritorno. Quell’esperimento era senza dubbio tale da rendere perplessi e curiosi di saperne di più, ma non sembrava portarli verso qualcosa di definitivo, e il troppo stroppia anche le cose buone. Guardò di sfuggita i compagni della catena. Benny aveva l’aria di pensarla come lui, Maia e Rupert avevano entrambi gli occhi lievemente vitrei, e Jean, be’, Jean sembrava aver preso fin da principio la cosa troppo sul serio. La sua espressione preoccupò George; pareva quasi che avesse paura a smettere e nello stesso tempo temesse di andare avanti.
Restava soltanto Jan. George non era ancora riuscito a capire che cosa pensasse il giovane delle eccentricità del cognato. Jan non aveva fatto domande e non aveva mostrato sorpresa alle risposte date dal piattello. Sembrava studiare i movimenti del disco come se si trattasse semplicemente di un qualunque fenomeno scientifico.
Rupert si scosse dallo stato letargico nel quale gli sembrava di essere sprofondato.
«Facciamo ancora una domanda» disse «dopo di che potremo dichiarare la giornata conclusa. Voi, Jan, non avete ancora rivolto domande?»
Nello stupore generale, Jan non mostrò esitazione alcuna. Era come se il giovane avesse già deciso da tempo di fare la sua domanda e avesse aspettato l’occasione propizia. Lanciò una sola occhiata alla figura immobile di Rashaverak, poi domandò con voce chiara e ferma: «Quale stella è il sole dei Superni?»
Rupert soffocò un’esclamazione di sorpresa, Maia e Benny non ebbero reazioni.
Jean aveva chiuso gli occhi e sembrava addormentata. Rashaverak si era sporto in avanti così da poter vedere all’interno della catena da sopra le spalle di Rupert.
E il disco cominciò a muoversi.
Quando finalmente tornò allo stato di riposo, ci fu una breve pausa di silenzio. Quindi Ruth domandò, con voce perplessa: «Che cosa significa NGS 549672?»
Ma non ottenne alcuna risposta, perché nello stesso istante George disse ansiosamente: «Chi mi dà una mano per Jean? Temo che sia svenuta.»