124413.fb2 Le Guide del Tramonto - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 16

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Quando Jan lo vide per la prima volta, trovò difficile convincersi che non assisteva al montaggio della fusoliera di un piccolo aereo. Lo scheletro metallico era lungo venti metri, perfettamente aerodinamico e circondato da un’intelaiatura leggera che degli operai martellavano coi loro strumenti automatici.

«Sì» disse Sullivan in risposta alla domanda di Jan «usiamo la normale tecnica aeronautica, e infatti la maggior parte di questi operai provengono dall’industria aeronautica. Non si crederebbe che una creatura di queste dimensioni potesse essere viva, o gettarsi d’un balzo completamente fuori dell’acqua, come l’ho vista fare.»

Era tutto molto affascinante, ma Jan aveva altre cose in mente. I suoi occhi andavano frugando lo scheletro gigantesco alla ricerca del nascondiglio per la sua celletta, la «bara ad aria condizionata», come Sullivan l’aveva battezzata. D’una cosa almeno fu subito certo: in quanto a spazio c’era posto per una dozzina di clandestini.

«La struttura interna parrebbe quasi completa» disse Jan. «Quando contate di ricoprirlo della sua pelle? Suppongo che abbiate già catturato il vostro capodoglio, diversamente non avreste saputo quali dimensioni dare allo scheletro.»

Sullivan parve immensamente divertito dall’osservazione.

«Ma noi non abbiamo la più lontana intenzione di catturare un capodoglio. E del resto, questi cetacei non hanno una «pelle» nell’accezione normale del termine. Sarebbe la cosa meno pratica del mondo ricoprire questo scheletro con uno strato di grasso spesso venti centimetri. No, l’intera faccenda sarà simulata con un modello di materie plastiche su cui spargeremo con molta cura una mano di tintura. Quando avremo finito, nessuno potrà accorgersi della differenza.»

Nel qual caso, pensò Jan, la sola cosa intelligente che potrebbero fare i Superni sarebbe scattare delle fotografie e poi fare il modello a grandezza naturale una volta tornati sul loro pianeta. Ma forse le astronavi addette ai rifornimenti tornavano vuote, e una bazzecola come un capodoglio lungo venti metri non era un bagaglio di cui potessero accorgersi. Quando si possedevano il loro potere e le loro risorse, a che scopo fare certe trascurabili economie?

Il professor Sullivan stava ritto presso una delle grandi statue che erano sempre state una sfida all’archeologia fin da quando l’isola di Pasqua era stata scoperta. Monarca, dio, o qualunque altra cosa potesse rappresentare, il suo sguardo senz’occhi sembrava seguire quello del professore, intento a osservare la propria opera. Sullivan era fiero di ciò che aveva fatto: gli sembrava un delitto che quel capolavoro tra breve venisse sottratto per sempre dalla vista degli uomini.

Il quadro sarebbe potuto essere l’opera di un artista folle in preda a delirio da stupefacenti. E nello stesso tempo era una scrupolosa imitazione dal vero. La Natura stessa era artista, lì. La scena era di quelle che pochi uomini avevano visto prima che si raggiungesse la perfezione delle riprese televisive subacquee, ma anche con la televisione era una scena che durava solo alcuni secondi, nelle rare occasioni in cui i giganteschi antagonisti salivano scrosciando vorticosi alla superficie. Quelle battaglie si combattevano nell’interminabile notte degli abissi oceanici, là dove i colossali capodogli andavano alla ricerca di cibo. E quel cibo si ribellava con la forza a essere divorato vivo.

La lunga mascella inferiore del cetaceo, dai denti seghettati, sbadigliava mostruosamente, preparandosi ad accogliere la preda. La testa della vittima era quasi nascosta sotto il guizzante intrico dei bianchi tentacoli carnosi, coi quali la piovra gigantesca lottava disperatamente in difesa della vita. I lividi segni lasciati dalle ventose, segni che avevano il diametro d’una ventina di centimetri, variegavano la pelle del capodoglio, là dove i tentacoli si erano avvinghiati. Ma un tentacolo era già stato ridotto a un mozzicone troncato di netto, e non poteva esservi dubbio sull’esito finale della lotta. Quando i due più grandi animali del pianeta si davano battaglia, era sempre il capodoglio a vincere, perché, nonostante tutta l’immensa forza racchiusa nella foresta dei tentacoli, la piovra poteva soltanto sperare di fuggire prima che quelle fauci l’avessero fatta a pezzi. Gli immensi occhi senza espressione (mezzo metro di diametro), fissavano il suo carnefice, anche se, con ogni probabilità, nessuna delle due creature poteva vedere l’altra nelle tenebre dell’abisso.

L’intero gruppo aveva una lunghezza di oltre trenta metri, e ora lo circondava una travatura di alluminio già agganciata al paranco di sollevamento. Tutto era pronto, secondo il piacere dei Superni. Sullivan si augurò che facessero alla svelta: la tensione stava diventando intollerabile. Qualcuno uscì dall’ufficio nella gran luce del sole, palesemente alla ricerca del professore. Sullivan riconobbe il suo assistente e si affrettò ad andargli incontro.

«Salve, Bill… Ci sono novità?»

L’altro gli porse un modulo con espressione soddisfatta.

«Buone notizie, professore. Siamo stati onorati! Il Supercontrollore in persona desidera venire a dare un’occhiata al nostro gruppo, prima che venga caricato. Pensate alla pubblicità che significa per noi un gesto simile! Ci servirà enormemente, quando faremo la richiesta di quella nuova concessione di crediti! Era proprio qualche cosa del genere che speravo da tanto tempo!»

Sullivan inghiottì con uno sforzo. Non aveva niente contro la pubblicità, ma questa volta temeva di averne troppa.

Karellen si fermò presso la testa del capodoglio e guardò da sotto in su il gran muso tozzo e le fauci irte di avorio. Sullivan, con malcelato disagio, si chiese che cosa stesse pensando il Supercontrollore. Il suo atteggiamento fino a quel momento non aveva rilevato il minimo sospetto da parte sua, e la visita poteva anche essere del tutto naturale. Ma Sullivan si sarebbe sentito felice, quando tutto fosse finito.

«Non abbiamo animali così grandi sul nostro pianeta» disse Karellen. «È questo il motivo per cui vi abbiamo pregato di fare questa composizione. I miei… compatrioti la troveranno affascinante.»

«Con la vostra bassa gravità» rispose Sullivan «c’era da credere che si fossero sviluppati animali di grandi dimensioni. Del resto, la vostra corporatura è notevolmente superiore alla nostra.»

«Sì… ma non abbiamo oceani. E per quanto riguarda le dimensioni, la terra non può mai competere col mare.»

Cosa perfettamente vera, pensò Sullivan. E da quel che ne sapeva, quello era un fatto sconosciuto riguardo al mondo dei Superni. Jan avrebbe visto cose molto interessanti.

«Nella vostra Bibbia» riprese Karellen «si legge il racconto molto notevole di un profeta ebreo, un certo Giona, se non erro, che fu inghiottito da una balena e così trasportato a riva sano e salvo, dopo essere stato gettato in mare dalla sua nave. Ritenete che il mito si basi su fatti realmente avvenuti?»

«Io credo» rispose Sullivan cautamente «che ci sia stato qualche pescatore di balene che inghiottito da un cetaceo sia poi stato rigurgitato senza gravi conseguenze. Naturalmente, non può essere stato in gola alla balena più di qualche secondo, diversamente sarebbe morto soffocato. E deve aver avuto molta fortuna a non impigliarsi nei denti! È una storia quasi incredibile, ma non impossibile.»

«Molto interessante» disse Karellen. Rimase là ancora per qualche secondo a fissare le fauci cavernose, quindi si spostò di alcuni passi, per osservare la piovra. Sullivan s’augurò che non avesse sentito il suo sospiro di sollievo.

«Se avessi saputo tutto quello che dovevo passare» disse Sullivan «vi avrei cacciato dal mio ufficio non appena avete tentato di contagiarmi con la vostra follia.»

«Mi dispiace molto» rispose Jan. «Ma in fondo ce la siamo cavata.»

«Speriamo. Buona fortuna, a ogni modo. Se voleste cambiare idea, avete ancora almeno sei ore di tempo.»

«Non mi serviranno. Solo Karellen potrebbe fermarmi, adesso. E grazie per tutto quello che avete fatto per me. Se mai dovessi tornare, in grado di scrivere un libro sui Superni, lo dedicherò a voi.»

«Un gran bene, mi farà, il vostro libro!» rispose bruscamente Sullivan.

«Sarò morto da decenni!» Con sua grande meraviglia, e anche un’ombra di costernazione perché non era certo un sentimentale, si accorse che quegli addii cominciavano a commuoverlo. Si era abituato a Jan in quelle settimane passate insieme a cospirare, e gli si era affezionato. Inoltre, cominciava a temere di diventare correo in una forma alquanto complicata di suicidio.

Tenne ferma la scaletta, mentre Jan saliva entro la gran bocca, facendo bene attenzione a non toccare le file dei denti. Alla luce della torcia elettri-ca, vide Jan voltarsi e fargli un cenno di saluto, poi scomparire nella cavità. S’udì il suono del portello a chiusura stagna che si apriva e richiudeva. Infine, silenzio.

Nel chiaro di luna che aveva trasformato la battaglia pietrificata in una scena d’incubo, il professor Sullivan tornò lentamente verso il suo ufficio. Rifletteva su quello che aveva fatto e sulle conseguenze. Conseguenze che lui avrebbe sempre ignorato, naturalmente. Jan sarebbe forse tornato a camminare in quello stesso punto del mondo avendo speso soltanto qualche mese di vita nel viaggio di andata per il pianeta dei Superni e in quello di ritorno. Ma questo ritorno, se ci fosse stato, sarebbe avvenuto oltre l’invalicabile barriera del Tempo, perché l’evento avrebbe potuto verificarsi solo ottant’anni più tardi.

Le luci si spensero nel minuscolo cilindro metallico appena Jan ebbe serrato il portello a chiusura stagna. Non si abbandonò a riflessioni e pentimenti, ma si mise immediatamente a controllare l’inventario che aveva già preparato. Tutte le scorte e le provviste erano già state stivate da alcuni giorni, ma un’ultima verifica l’avrebbe messo nel giusto stato d’animo che gli occorreva, con la certezza che non era stato trascurato niente. Un’ora più tardi, soddisfatto, si sistemò comodo nella poltroncina di gomma piuma, e ricapitolò il suo piano punto per punto. Lì dentro l’unico rumore era il ronzio dell’orologio-calendario da cui avrebbe saputo quando il viaggio stava per finire.

Per quanto tremenda fosse la forza che faceva volare l’astronave dei Superni, grazie alla perfetta compensazione lì nella sua nicchia lui non avrebbe sentito niente. Sullivan aveva controllato con cura questo particolare, sottolineando che il nascondiglio non avrebbe resistito oltre una certa gravità, e gli aveva assicurato che da quel lato non c’erano pericoli. Naturalmente durante il volo ci sarebbe stato un cambiamento considerevole di pressione, che non avrebbe però portato alcun danno, perché le bestie, cave all’interno, «respiravano» da diversi fori appositi. Prima di uscire dalla sua nicchia, Jan avrebbe dovuto controllare la pressione per compensare un eventuale squilibrio. Per quanto riguardava una probabile irrespirabilità dell’atmosfera, infine, un semplice respiratore composto da una bombola di ossigeno e una maschera sarebbe bastato per ovviare all’inconveniente. Se invece l’aria all’interno dell’astronave era respirabile, tanto meglio. Tutto molto chiaro.

Bene, non c’era scopo ad aspettare ancora. Rimandare avrebbe soltanto acuito la tensione nervosa.

Trasse la piccola siringa, già carica di una soluzione accuratamente preparata. La narcosamina era stata scoperta durante le ricerche nel campo dell’ibernazione animale. Non era esatto dire, come credevano i profani, che la narcosamina producesse una sospensione della vita fisiologica. Tutto quello che faceva era rallentare enormemente i processi vitali, ma il metabolismo continuava, sebbene con un ritmo infinitamente minore. Era come gettare cenere sul fuoco della vita per lasciarlo covare inavvertito. Ma quando, dopo settimane o mesi, gli effetti della droga cominciavano a svanire, il fuoco riprendeva la sua forza, e il dormiente ricominciava a vivere al punto in cui era rimasto. La narcosamina era assolutamente innocua. La Natura se ne serviva da un milione di anni per proteggere molti dei suoi figli dagli inverni senza cibo.

Così Jan dormì. Non sentì la trazione dei cavi che issavano l’enorme gabbia metallica fin entro il ventre dell’astrocargo dei Superni. Non udì i portelli che si chiudevano, per riaprirsi soltanto dopo milioni e milioni di chilometri. Non udì lontanissimo, appena percettibile al di là delle paratie di titanio, l’urlo di protesta dell’atmosfera terrestre lacerata dall’astronave che risaliva rapidissima verso il suo elemento naturale. E non sentì infuriare la superpropulsione.