124413.fb2 Le Guide del Tramonto - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 19

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«Guarda qui!» esplose George Greggson, lanciando il giornale verso Jean al disopra della tavola. Nonostante gli sforzi di lei per prenderlo al volo, il foglio cadde ad ali spiegate nel bel mezzo della tavola. Ripulitolo pazientemente della marmellata, Jean lesse il brano incriminato, facendo del suo meglio per dimostrare la sua disapprovazione. Non che fosse molto brava in questo, dato che anche troppo spesso era d’accordo con i critici. Di solito teneva per sé quelle opinioni eretiche, e non solo per spirito di pace e di armonia. George era dispostissimo ad accettare le sue lodi, ma appena Jean accennava la minima critica a una sua opera si vedeva infliggere una lezione da lasciare i lividi sulla sua ignoranza in fatto di estetica. Lesse la critica due volte e infine rinunciò a capire. Era una critica del tutto favorevole, e lo disse.

«A quanto pare lo spettacolo è piaciuto. Che cosa c’è da brontolare?»

«Qui» ringhiò George, battendo il dito al centro della colonna. «Rileggi qui.»

«Specialmente riposanti per gli occhi i delicati verdi pastello dello sfondo nella sequenza del balletto» lesse Jean. «Ebbene?»

«Ma non erano verdi! Non so quanto tempo ho sciupato per trovare pro-prio quella sfumatura azzurrina! E che cosa succede? O qualche maledetto tecnico della cabina controllo sconvolge l’equilibrio dei colori, o quel cretino d’un critico ha un difetto alla vista! A proposito, che colore è apparso sul tuo apparecchio?»

«Oh… non me lo ricordo» ammise Jean. «Bambola ha cominciato a strillare proprio in quel momento, e sono dovuta correre di là a vedere che cos’era successo.»

«Capisco» disse George, scivolando in uno stato di calma illusoria, dolcemente ribollente, sotto sotto. Jean capì che un’altra esplosione poteva verificarsi da un momento all’altro.

«Ho inventato una nuova definizione per la TV» riprese lui in un mormorio cupo. «È uno strumento per ostacolare i contatti fra l’artista e il suo pubblico.»

«E che cosa vorresti fare? Ritornare al teatro vero e proprio?»

«Perché no? È proprio quello che ho pensato di fare. Ti ricordi della lettera che ho ricevuto da quelli di Nuova Atene? Mi hanno scritto ancora. Questa volta ho deciso di rispondere.»

«Davvero?» disse Jean, lievemente preoccupata. «Secondo me, sono una manica di eccentrici.»

«Ebbene, questo è il solo modo per averne la prova. È mia intenzione andarli a trovare tra una quindicina di giorni. Bisogna riconoscere che la loro propaganda è delle più equilibrate e convincenti. E ci sono uomini eccellenti tra loro.»

«Se speri di vedermi cucinare un giorno o l’altro su di un fuoco di sterpi, o apparirti davanti vestita di pelli, ti fai…»

«Non dire sciocchezze! Sono tutte storie. La colonia ha tutto quello che serve per vivere in modo civile. Il loro sistema esclude i fronzoli e le sovrastrutture inutili, ecco tutto. Del resto, sono almeno due anni che non vedo più il Pacifico; sarà una bellissima gita per tutt’e due.»

«Sono d’accordo con te» disse Jean. «Ma non voglio che Bambola e Primo crescano come due selvaggi della Polinesia.»

«Non cresceranno come due selvaggi. Te lo prometto.»

Aveva ragione, ma non nel senso che intendeva lui.

«Come avrete osservato arrivando con l’aereo» disse l’uomo sull’altro lato della veranda «la Colonia consiste di due isole, collegate da una striscia di terra su cui passa la strada. Una è Atene, l’altra, l’abbiamo battezzata Sparta. È un’isola selvaggia, rocciosa, un luogo ideale per praticare lo sport o comunque ogni specie di esercizi fisici.» Il suo sguardo si soffermò momentaneamente sul ventre e i fianchi del visitatore, e George si agitò nella sua poltrona di vimini. «Sparta è un vulcano spento, incidentalmente. Almeno, i geologi dicono che sia spento. Ma, per tornare ad Atene: scopo della Colonia è di fondare un gruppo culturale, stabile e indipendente, con le sue tradizioni artistiche. Sarà meglio dire subito che molte ricerche sono state effettuate prima che noi intraprendessimo questa iniziativa. Si tratta in realtà di vera e propria scienza sociale applicata, che si basa su una matematica così complessa che non fingerò di averla capita. So però che i sociologi matematici hanno calcolato quanto dovrebbe essere numerosa la Colonia, quanti tipi di persone dovrebbe contenere, e soprattutto quale dovrebbe essere la sua costituzione per una stabilità di lunga durata. Siamo diretti da un Consiglio di otto direttori, che rappresentano Produzione, Energia, Tecnica Sociale, Arte, Scienze Economiche, Scienza, Sport e Filosofia. Non c’è un presidente in permanenza. La carica di presidente è ricoperta a turno da ognuno dei direttori per un anno ogni volta.

«La nostra popolazione presente è di poco superiore alle cinquantamila unità, cifra inferiore all’optimum desiderato. Ecco perché siamo sempre alla ricerca di reclute. E, naturalmente, c’è un minimo di sciupio: non siamo del tutto autosufficienti in alcune delle capacità più specializzate.

«Qui, su quest’isola, ci studiamo di salvare qualche cosa della indipendenza dell’uomo: le sue tradizioni artistiche. Non abbiamo nessuna ostilità nei riguardi dei Superni, vogliamo soltanto essere lasciati in pace e proseguire per la nostra strada. Quando essi hanno cancellato le antiche nazioni e il modo di vita che l’uomo conosceva dagli inizi della storia, hanno spazzato via, insieme con le cattive, molte buone cose. Il mondo ora è in pace, senza caratteristiche proprie, culturalmente morto. Niente di nuovo è stato creato dall’avvento dei Superni. La ragione è evidente. Non è rimasto niente per cui valga la pena di lottare, e ci sono troppi svaghi, distrazioni e divertimenti.

«Qui ad Atene lo svago ha le sue giuste proporzioni. Inoltre, è una cosa viva, non in scatola. In una comunità delle nostre dimensioni è possibile avere una partecipazione quasi completa del pubblico. A proposito, abbiamo anche un’orchestra sinfonica d’eccezionale valore. Ma non voglio che mi prendiate in parola. Di solito i candidati alla cittadinanza della Colonia si fermano qui qualche giorno ad assorbire l’atmosfera del posto. Se decidono di unirsi a noi, li sottoponiamo al tiro di sbarramento degli esami psicologici, che rappresentano la nostra vera linea principale di difesa. Un terzo circa dei candidati di solito viene respinto, quasi sempre per motivi che non hanno riflessi su di loro e che, fuori di qui, non avrebbero nessuna importanza. Coloro che superano la prova, di solito tornano a casa giusto il tempo per sistemare i loro affari, poi ritornano tra noi. Talvolta cambiano idea in questa fase, ma avviene molto di rado, e quasi sempre per motivi personali indipendenti dalla loro volontà. I nostri esami sono oggi praticamente sicuri nella misura del cento per cento: coloro che li superano sono proprio persone che desiderano venire tra noi.»

«E se qualcuno cambiasse idea più tardi?» domandò Jean ansiosamente.

«Sono liberi di andarsene. Non esiste nessuna difficoltà. Si è già verificato un paio di volte.»

Seguì un lungo silenzio. Jean guardò George, che si stropicciava pensieroso le folte basette, ritornate in gran voga negli ambienti artistici. Se non c’era bisogno di bruciare i ponti alle spalle, lei non si preoccupava più del necessario. La Colonia sembrava un posto interessante, e certamente non si componeva di stravaganti e di eccentrici come aveva temuto. E i ragazzi ci si sarebbero trovati benissimo. E questo, in definitiva, era la cosa che contava di più.

Si trasferirono a Nuova Atene sei settimane dopo. La casa a un solo piano era piccola, ma del tutto adeguata a una famiglia che non aveva intenzione di contare più di quattro membri. Tutti i congegni fondamentali per l’economia del lavoro manuale erano in mostra: almeno, come Jean dovette riconoscere, non c’era pericolo di ripiombare nelle tenebre medievali delle sfacchinate domestiche. Ma sconvolgeva un po’ scoprire che c’era una cucina. In una comunità così numerosa, si sarebbe potuto credere, normalmente, alla possibilità di telefonare alla Centrale Ristoranti, attendere cinque minuti e ricevere qualunque portata uno avesse scelto per pranzo o cena. L’autonomia individuale era una gran bella invenzione, ma questo, pensò Jean, era uno spingere le cose troppo in là. Si chiese vagamente se per caso non dovesse filare lei le stoffe con cui la famiglia si sarebbe vestita, oltre che preparare i pasti. Ma non si vedeva nessuna ruota di filatoio a mano tra la lavapiatti automatica e lo schermo del radar, per cui la situazione non si annunciava poi tanto terribile… Jean si avvicinò alla finestra ancora senza tendine e lasciò errare lo sguardo sulla Colonia. Era un posto stupendo, non c’era dubbio. La casa sorgeva sulle pendici occidentali della bassa montagna che dominava, senza rivali, l’isola di Atene. Due chilometri a nord si scorgeva la lingua di terra, una lama sottile nell’acqua, che portava a Sparta. Quell’isola rocciosa, col suo aggrondato cono vulcanico, faceva un tale contrasto con la serena Nuova Atene da mettere paura. Jean si chiese come facessero gli scienziati a dirsi tanto sicuri che il vulcano non si sarebbe ridestato per seppellirli tutti.

Un rumore metallico annunciò l’arrivo della bicicletta di George. Jean si chiese quanto tempo sarebbe occorso a entrambi per imparare ad andare in bicicletta. Questo era un altro aspetto inatteso della vita sull’isola. Le auto private non erano permesse, e infatti non erano necessarie, dato che la massima distanza che si potesse percorrere in linea retta era meno di quindici chilometri. C’erano numerosi veicoli di servizio pubblico, di proprietà della Colonia: autocarri, ambulanze, autopompe, tutti tenuti, salvo casi eccezionali, a non superare i cinquanta chilometri all’ora. Di conseguenza, gli abitanti di Atene facevano molto moto, disponevano di strade non congestionate dal traffico meccanizzato, e pertanto non conoscevano incidenti stradali.

George diede alla moglie un bacio frettoloso e distratto e si lasciò cadere con un sospiro di sollievo sulla sedia più vicina.

«Uff!» fece, asciugandosi la fronte. «Mi sono lasciato sorpassare da tutti sulla salita della collina, quindi è probabile che col tempo migliori anch’io. Sono convinto di avere già perso almeno dieci chili.»

«Com’è andata la giornata?» domandò Jean da brava moglie. Si augurava che George non fosse così stanco da non poterla aiutare a disfare le valige.

«Molto stimolante. Non posso ricordarmi nemmeno la metà della gente che ho conosciuto, ma sembrano tutti molto cordiali e gentili. E il teatro è proprio buono, esattamente come me lo aspettavo. Cominceremo a lavorare la settimana entrante con «Torniamo a Matusalemme» di Shaw. Mi è stata affidata tutta la scenografia. Sarà finalmente un refrigerio non avere più tra i piedi una mezza dozzina di persone che mi dicono tutto quello che non posso fare. Sì, credo proprio che finiremo per trovarci bene qui.»

«Nonostante le biciclette?»

George trovò energia sufficiente per un sorriso divertito.

«Sì» rispose. «Tra un paio di settimane non mi accorgerò più nemmeno di questa nostra insignificante collinetta.»

Non ci credeva, e invece fu proprio così. Ma a Jean ci volle almeno un mese per smetterla di rimpiangere l’automobile e scoprire tutte le cose che si possono fare con una cucina propria.

Nuova Atene non era nata spontaneamente da un primo agglomerato come aveva fatto la città di cui portava il nome: tutto, nella Colonia, era stato progettato, voluto e realizzato, dopo anni di studi, a opera d’un gruppo di uomini molto in gamba. Aveva avuto inizio come una cospirazione aperta contro i Superni, sfida sottintesa, se non alla loro potenza, alla loro politica. Dapprima gli esponenti della Colonia si erano sentiti quasi certi che Karellen avrebbe nettamente frustrato i loro sforzi, invece il Supercontrollore non aveva fatto niente, assolutamente niente. Non che ciò fosse parso rassicurante, come ci si sarebbe potuti aspettare. Karellen aveva a sua disposizione tutto il tempo che voleva: poteva anche preparare un colpo di risposta molto ritardato. Oppure era così certo del fallimento del progetto, da non avere bisogno di intraprendere niente contro la Colonia. Molti avevano predetto che la Colonia sarebbe stata un fallimento. Eppure anche nel passato, molto prima che si raggiungesse la conoscenza della dinamica sociale, erano esistite parecchie comunità con un loro specifico scopo religioso o filosofico. Era vero che la percentuale di simili comunità andate in rovina era altissima. Qualcuna però era sopravvissuta. E ora Nuova Atene aveva fondamenta rese sicure dalla scienza moderna. I motivi per la scelta di un’isola come sede della comunità erano numerosi. In un’epoca in cui le distanze erano abolite dalla facilità dei mezzi aerei, l’oceano non era più una barriera materiale, ma serviva ancora a dare una sensazione di isolamento. Inoltre, le dimensioni limitate di un’isola rendevano impossibile accettare nella Colonia più di un certo numero di persone. La popolazione massima era stata fissata in centomila abitanti, di più avrebbe significato la perdita dei vantaggi possibili invece a una piccola comunità affiatata. Uno degli scopi dei fondatori di Nuova Atene era che ogni membro della Colonia conoscesse tutti gli altri cittadini che avevano i suoi stessi interessi, e possibilmente l’uno o il due per cento anche degli altri. L’uomo che aveva voluto Nuova Atene era un ebreo. E, come Mosè, non aveva vissuto tanto da mettere piede nella sua terra promessa, perché la Colonia era stata fondata tre anni dopo la sua morte. Era nato in Israele, l’ultima nazione indipendente che fosse stata creata e pertanto quella che aveva avuto vita più breve. La fine della sovranità nazionale era stata sentita in Israele con maggior amarezza, forse, che altrove, perché è duro rinunciare a un sogno che si è appena conquistato dopo secoli di sforzi.

Ben Salomon non era un fanatico, ma i ricordi della sua infanzia dovevano avere pesato non poco sulle idee che poi aveva messo in pratica. Poteva soltanto ricordare che cos’era il mondo prima della comparsa dei Superni, e non aveva nessun desiderio che le cose tornassero come prima. Come molti altri uomini intelligenti e bene intenzionati, apprezzava tutto quello che Karellen aveva fatto per la razza umana, pur continuando a soffrire per lo sconosciuto scopo finale di Karellen. Era possibile, si chiedeva spesso, che nonostante la loro immensa intelligenza, i Superni non capissero veramente il genere umano e commettessero un terribile errore con le migliori intenzioni? Era possibile che nella loro passione altruista per l’ordine e la giustizia, avessero deciso di riformare il mondo degli uomini, e non si fossero accorti che insieme stavano distruggendo l’anima dell’uomo?

Il declino era appena cominciato, ma i primi sintomi della putredine già non erano difficili a scoprirsi. Salomon non era artista, ma aveva un’acuta comprensione dell’arte e sapeva che la sua epoca non avrebbe mai potuto rivaleggiare coi secoli precedenti in nessun campo artistico. Forse la situazione sarebbe migliorata col tempo, quando il trauma della collusione coi Superni si fosse attenuato. Ma poteva anche non migliorare, e un uomo prudente doveva cercare un riparo in qualche forma di assicurazione contro il peggio. Nuova Atene era stata la polizza d’assicurazione a cui Salomon aveva pensato.

La sua realizzazione aveva richiesto vent’anni e la spesa di alcuni miliardi di dollari-decimali, una frazione infinitesima delle ricchezze del mondo. Per i primi quindici anni non era successo niente, negli ultimi cinque, tutto. L’impresa di Salomon sarebbe stata impossibile se lui non fosse riuscito a convincere della bontà del suo progetto un gruppo di artisti di fama mondiale. Essi lo avevano approvato non perché era importante per la razza ma perché sollecitava il loro «io». Una volta convinti, però, erano riusciti a farsi ascoltare dal mondo e ad averne l’appoggio. Dietro questa spettacolare facciata di nomi illustri, i veri progettisti della Colonia avevano realizzato i loro piani. Una collettività umana consiste di individui la cui condotta, in quanto tali, non è prevedibile. Ma se si prende in considerazione un numero sufficiente di unità fondamentali, allora certe leggi cominciano ad affiorare, come era stato scoperto già da molto tempo da alcune società di assicurazioni. Nessuno può dire quali individui morranno entro un certo periodo di tempo, pure il numero totale dei decessi può essere previsto con notevole precisione. Ci sono altre leggi, più sottili, intravedute per la prima volta ai primordi del ventesimo secolo da matematici come Weiner e Rashavesky. Costoro avevano sostenuto che eventi come crisi economiche, le conseguenze delle corse agli armamenti, la stabilità dei gruppi sociali, e così via, potevano essere analizzati con esatte tecniche matematiche. La grande difficoltà era il numero enorme di variabili, molte delle quali difficili a definirsi in termini numerici. Non si poteva tracciare un gruppo di curve e dichiarare: «Quando si sarà raggiunta questa linea, vorrà dire la guerra». E non si potevano mai prendere in considerazione eventi così imprevedibili come l’assassinio di un importante uomo politico o gli effetti di una nuova scoperta scientifica, e ancora meno, catastrofi naturali come terremoti o inondazioni che avrebbero potuto avere un effetto profondo su gran numero di persone e sui gruppi sociali entro cui queste persone vivevano. Eppure si poteva fare molto, grazie alla conoscenza pazientemente accumulata negli ultimi cento anni. Il compito sarebbe stato impossibile senza l’aiuto delle gigantesche macchine calcolatrici che potevano compiere il lavoro di un migliaio di calcolatori umani in pochi secondi. Di tali aiuti ci si era valsi al massimo quando la Colonia era stata concepita. Anche allora, i fondatori di Nuova Atene erano in grado soltanto di provvedere il suolo e il clima in cui la pianta che essi volevano far crescere sarebbe potuta — o non sarebbe potuta — fiorire. Come lo stesso Salomon aveva osservato: «Dell’ingegno possiamo essere certi: per il genio possiamo soltanto pregare». Ma era una speranza ragionevole che in una soluzione così concentrata potessero verificarsi delle reazioni interessanti. Pochi artisti fioriscono in solitudine, e niente è più stimolante dell’urto di menti con affinità d’interessi.

Fino a quel momento, il conflitto aveva dato vita a opere di valore nel campo della musica, della scultura, della critica letteraria e della cinematografia. Era ancora troppo presto per sapere se il gruppo che lavorava nel campo delle ricerche storiche avrebbe realizzato le speranze di chi aveva voluto quelle gare, e che mirava a far rinascere l’orgoglio della razza per le proprie imprese. La pittura continuava a languire, dando così ragione a coloro che sostenevano che quella statica forma d’arte a due dimensioni non aveva futuro.

Cosa notevole fu — anche se una spiegazione soddisfacente non si sia mai avuta — che il tempo era una parte essenziale nei risultati artistici meglio riusciti della Colonia. La stessa cultura era ben di rado statica. Le curve e i volumi esasperanti di Andrew Carson mutavano lentamente a misura che si guardava l’opera, secondo lineamenti complessi il cui insieme la mente sapeva apprezzare pur senza comprenderli. Infatti Carson affermava in modo abbastanza veritiero di aver portato i «motivi» di un secolo prima alla loro conclusione ultima, intrecciando così, in una sola entità, scultura e balletto.

Gran parte della musica sperimentale della Colonia si basava, nel modo più consapevole, su quella che si potrebbe definire «durata del tempo». Qual era la nota più breve che la mente potesse afferrare… o la più lunga che potesse tollerare senza tedio? Il risultato poteva essere variato mediante il condizionamento o l’uso di un’orchestrazione appropriata? Di questi problemi si discuteva all’infinito, e le discussioni non erano solo accademiche perché ne erano risultate alcune composizioni di estremo interesse. Ma gli esperimenti più riusciti di Nuova Atene erano le opere d’arte realizzate nel campo dei cartoni animati. Nei cento anni passati dall’epoca di Disney non tutto era stato fatto di quel che era possibile fare con questo mezzo che offriva possibilità enormi. Dal punto di vista puramente spettacolare, si potevano ottenere risultati addirittura identici a quelli ottenuti con la fotografia, cosa questa che provocava lo sdegno di coloro che si dedicavano ai cartoni animati secondo una linea più astratta, più… impegnata. Il gruppo di artisti e scienziati che avevano fino a quel momento fatto meno era proprio quello che aveva destato il maggior interesse e ispirato la più grande apprensione. Si trattava del gruppo che lavorava alla «completa identificazione». La storia del cinema era la chiave stessa delle loro attività. Prima il cinema sonoro, poi quello a colori, quindi la stereoscopia, infine il cinerama avevano reso l’antica cinematografia sempre più simile alla realtà. Dove stava la conclusione ultima? Certo, l’ultima fase sarebbe stata raggiunta quando il pubblico, dimenticandosi di essere tale, sarebbe divenuto parte dell’azione stessa. Un uomo poteva diventare, almeno per un breve periodo, qualunque altra persona e poteva partecipare a qualunque specie di avventura, reale o immaginaria che fosse. Poteva diventare anche pianta o animale, se appariva possibile cogliere e registrare le impressioni sensorie di altre creature viventi. E quando il «programma» era concluso, il ricordo acquisito sarebbe stato così preciso e vivido come qualunque altra esperienza della sua vita reale, anzi, indistinguibile dalla realtà stessa. Prospettiva allucinante. Molti la trovavano anche terribile e si auguravano che l’iniziativa si concludesse con un fiasco. Ma sapevano nel fondo della loro anima che quando la scienza aveva dichiarato possibile una cosa, non c’era speranza di sfuggire alla sua attuazione definitiva… Questa, dunque, era Nuova Atene con alcuni dei suoi sogni. Essa sperava di diventare ciò che l’antica sarebbe potuta divenire se avesse posseduto macchine invece di schiavi, scienza invece di superstizioni. Ma era ancora troppo presto per poter dire se l’esperimento sarebbe riuscito.