124413.fb2 Le Guide del Tramonto - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 21

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16

Sebbene avessero dovuto aspettarsela in qualunque momento a partire dal giorno in cui la Colonia era stata fondata, la richiesta di Karellen scoppiò come una bomba. Rappresentò una crisi nella storia di Nuova Atene, e nessuno poté capire se i risultati sarebbero stati buoni o cattivi. Fino a quel momento la Colonia aveva proseguito per la sua strada senza interferenze da parte dei Superni. Essi l’avevano lasciata del tutto tranquilla, come facevano con molte attività umane che non turbavano l’ordine e non offendevano i loro codici. Che gli scopi di Nuova Atene potessero definirsi sovversivi non era del tutto dimostrato. Non erano scopi politici, ma certo sollecitavano lo spirito di indipendenza per artisti e intellettuali. E da questo, chi sapeva cosa poteva derivare? I Superni forse erano in grado di prevedere il futuro di Nuova Atene meglio dei suoi fondatori, e poteva darsi che quel futuro non gli piacesse per nulla.

Naturalmente, se Karellen desiderava inviare un osservatore, ispettore, o comunque lo si volesse chiamare, nessuno poteva farci niente. Venti anni prima i Superni avevano annunciato di avere sospeso ogni uso dei loro congegni di sorveglianza, così che l’umanità non doveva più considerarsi spiata continuamente. Tuttavia il fatto che quei congegni continuassero a esistere voleva dire che niente poteva avvenire all’insaputa dei Superni qualora essi avessero voluto veramente sapere.

Ma c’era qualcuno nell’isola che era lieto di quella visita, perché offriva qualche probabilità di risolvere uno dei problemi minori della psicologia Superna: l’atteggiamento di quelle strane creature verso l’arte. La consideravano forse un’aberrazione infantile della razza umana? O avevano essi pure qualche forma d’arte? In questo caso, lo scopo della visita era semplicemente estetico? Oppure Karellen aveva scopi meno candidi?

Tutti argomenti di cui si discusse all’infinito mentre fervevano intensi i preparativi per quella visita.

Del Superno che avrebbe visitato la Colonia non si sapeva niente, ma si dava per scontato che potesse imparare qualsiasi cosa in quantità illimitate. Avrebbero perciò tentato l’esperimento, e un gruppo di uomini fra i più qualificati avrebbe osservato con interesse le reazioni della loro cavia. L’attuale presidente del consiglio era il filosofo Charles Yan Sen, uomo ironico, bonario, non ancora sessantenne e pertanto nel pieno vigore d’una giovanile maturità. Platone lo avrebbe approvato come l’esempio del filosofo-statista, anche se Yan Sen non approvava del tutto Platone, che lui accusava di aver grossolanamente falsato il pensiero di Socrate. Yan Sen era uno degli isolani che contavano di trarre il massimo profitto da quella visita se non altro per mostrare ai Superni che gli uomini avevano ancora spirito d’iniziativa, e non erano, per usare la sua espressione, «del tutto addomesticati». Nella Colonia ogni iniziativa faceva capo a un comitato, ultimo sopravvissuto baluardo del sistema democratico. Una volta qualcuno aveva definito Nuova Atene una catena di comitati, comunque, il sistema funzionava grazie al paziente lavoro degli psicologi che erano stati i veri fondatori della Colonia. Trattandosi di una comunità ristretta, ogni suo membro poteva partecipare alla sua amministrazione ed essere così un cittadino nel vero senso della parola.

Era quasi inevitabile che George, come elemento in vista della gerarchia artistica, facesse parte del comitato di ricevimento. Se i Superni volevano studiare la Colonia, George si era reso conto di voler studiare i Superni. Cosa che non allietava troppo Jean. Fin dalla famosa sera a casa di Rupert, lei aveva nutrito una vaga ostilità verso i Superni, pur senza saperne il perché. Il Superno arrivò senza cerimonie particolari in un comune aereo di fabbricazione umana, con grande delusione di coloro che si erano aspettati qualcosa di eccezionale. Sarebbe potuto essere lo stesso Karellen, dato che nessuno era mai riuscito a distinguere un Superno dall’altro con un minimo di certezza. Parevano tutti copie di un unico modello. Forse lo erano, in virtù di qualche sconosciuto processo biologico.

Dopo il primo giorno, gli isolani cessarono di prestare molta attenzione quando un’auto del consiglio passava con un lievissimo mormorio per una delle visite turistiche in programma. Il nome preciso del visitatore, Thanthalteresco, si era rivelato superiore alle possibilità di pronuncia dei più, per cui il Superno fu in breve chiamato per antonomasia «l’Ispettore». No-me abbastanza descrittivo, perché la curiosità e la fame di dati statistici dell’individuo erano inesauribili.

Charles Yan Sen era del tutto sfinito, quando molto dopo la mezzanotte ebbe accompagnato l’Ispettore all’aereo, che gli serviva d’alloggio e dove, senza dubbio, avrebbe continuato a lavorare tutta la notte, mentre i suoi ospiti terrestri indulgevano a una così tipica debolezza umana come il sonno. La signora Sen accolse ansiosamente il marito al suo ritorno a casa. Erano una coppia bene affiatata, nonostante l’abitudine scherzosa di lui di chiamare la moglie Santippe quando c’erano ospiti. Lei aveva minacciato adeguate rappresaglie mediante la preparazione di una tazza di cicuta, ma per fortuna quest’erba letale era meno comune nella Nuova che nell’antica Atene.

«È andato tutto bene?» domandò lei al marito, che si sedeva a tavola per consumare una cena che lo aspettava da cinque o sei ore.

«Direi di sì, per quanto non si possa mai dire che cosa passa in quelle loro menti straordinarie. Ha trovato certamente tutto interessante, mi ha rivolto perfino dei complimenti. Mi sono scusato, a proposito, per non averlo invitato qui, a casa nostra. Ha risposto che comprendeva benissimo e che non aveva nessuna voglia di battere la testa contro il nostro soffitto.»

«Che cosa gli hai mostrato, oggi?»

«La parte amministrativa. Pare che non l’abbia trovata noiosa come capita invece a me. Ha fatto tutte le domande possibili e immaginabili sulla produzione, sul nostro bilancio, sulle risorse minerali, sul numero delle nascite, sul come provvediamo al cibo, eccetera. Per fortuna con noi c’era il segretario Harrison che si era preparato sui rapporti annuali sin dall’inizio della Colonia. Avresti dovuto sentirlo sparare dati statistici! L’Ispettore si è fatto prestare tutti gli annuari, e son pronto a scommettere che domani sarà in grado di citare a noi cifra su cifra per ogni anno. A me questo genere di spettacolo di abilità mentale fa un effetto deprimente!»

Sbadigliò, prima di cominciare a mangiare.

«Domani sarà una giornata più interessante. Si visitano le scuole e l’Accademia. Quando sarà la mia volta di fare qualche domanda, vorrei sapere come i Superni crescono i loro piccoli… sempre che ne abbiano, naturalmente.»

Ma questa era proprio una delle domande a cui Charles Yan Sen non avrebbe mai avuto risposta, anche se su altri argomenti l’Ispettore si rivelò addirittura loquace. Sapeva evadere alle domande imbarazzanti con un garbo inimitabile, per poi, del tutto inaspettatamente, divenire addirittura confidenziale.

La prima volta che ciò avvenne fu mentre si allontanavano in macchina dalla scuola, una delle grandi ragioni di orgoglio della Colonia. «È una grande responsabilità» aveva osservato il dottor Yan Sen «istruire queste giovani menti per l’avvenire. Per fortuna, gli esseri umani sono straordinariamente duttili: occorre un’educazione davvero sbagliata per arrecare guasti permanenti. Anche se i nostri fini sono errati, le nostre piccole vittime sapranno cavarsela. E, come avete visto, hanno l’aria del tutto contenta.»

Fece una breve pausa, poi lanciò un’occhiata maliziosa dal sotto in su alla figura torreggiante dell’ospite. L’Ispettore era avvolto in una specie di tessuto argenteo, tutto riflessi, così che non un centimetro del suo corpo era esposto alla radiazione solare. Il dottor Sen ebbe coscienza di due grandi occhi che dietro le lenti scure lo fissavano senza emozione, o con emozioni che lui non avrebbe mai potuto capire. E riprese: «I nostri problemi nell’allevare questi ragazzi devono essere, immagino, molto simili ai vostri, quando vi trovate davanti alla razza umana.»

«Sotto certi aspetti» ammise il Superno gravemente. «In altri, si potrebbe trovare una analogia forse più pertinente nella storia delle vostre potenze coloniali. Gli imperi romano e britannico, in questo campo, hanno sempre rappresentato un esempio interessante. Il caso dell’India è di particolare insegnamento. La differenza principale fra noi e gli inglesi in India sta nel fatto che essi non avevano nessun vero motivo per andare in India, nessuno scopo dettato dalla coscienza, intendo, eccettuati motivi contingenti trascurabili come interessi commerciali o rivalità con altre potenze europee. Si trovarono in possesso di un impero ancora prima di sapere che cosa farsene, e non ne hanno mai tratto felicità alcuna, se non il giorno in cui se ne sono liberati.»

«E voi pure» chiese Yan Sen «vi libererete del vostro impero, quando sarà venuto il momento?»

«Senza la più lieve esitazione» rispose l’Ispettore.

Il dottor Sen non insistette. La pronta franchezza della risposta non era stata delle più lusinghiere; e del resto erano arrivati all’Accademia, dove i pedagoghi si erano riuniti e aspettavano di aguzzare gli ingegni su un vero Superno in carne e ossa.

«Come il nostro illustre collega vi avrà riferito» disse il professor Chance, Rettore dell’Università di Nuova Atene «nostro scopo principale è mantenere la mente della popolazione sempre attiva, così che gli individui possano rendersi conto di tutte le loro possibilità. Oltre quest’isola — e il gesto di Chance parve indicare, e respingere, il resto del globo — temo che la razza umana abbia perso il suo spirito d’iniziativa. Ha pace e abbondanza… ma non ha orizzonti.»

«Mentre qui, naturalmente?…» interloquì blando il Superno. Chance, che mancava di ogni senso umoristico e ne era vagamente conscio, lanciò un’occhiata sospettosa al visitatore.

«Qui» riprese «non siamo affetti dall’antica ossessione che la vita comoda sia un male. Ma non ci sembra che basti il solo fatto di ricevere passivamente dall’alto lo svago e le comodità. Ognuno su questa isola ha un’ambizione, che si può riassumere in modo molto semplice: fare qualche cosa, per piccola che sia, meglio di chiunque altro. Naturalmente, è un ideale che non tutti conseguiamo. Ma nel mondo odierno la cosa importante è proprio avere un ideale. Che lo si attui o no, è molto meno importante.»

L’Ispettore non parve disposto a fare commenti. Si era spogliato del suo indumento di protezione, ma aveva ancora gli occhiali neri, che sembravano essergli necessari anche nella luce attenuata della Sala Riunioni. Il Rettore pensò che forse rappresentavano una necessità fisiologica, o forse erano un semplice mascheramento mimetico. Certo rendevano ancora più difficile il compito già arduo di intuire i pensieri del Superno. Costui comunque non parve avere niente da obiettare alle dichiarazioni polemiche che gli erano state lanciate come un guanto di sfida. Il Rettore stava per rinnovare i suoi attacchi, quando il professor Sperling, capo della Sezione Scienze, pensò bene di trasformare il duello in una guerra su tre fronti.

«Come senza dubbio saprete, signore, uno dei grandi problemi della nostra cultura è stato il dissidio fra arte e scienza. Mi piacerebbe conoscere il vostro pensiero sull’argomento. Approvate anche voi l’opinione che tutti gli artisti sono degli anormali? Che la loro opera, o comunque l’impulso che la genera, è conseguenza di una insoddisfazione psicologica profondamente radicata?»

Chance si schiarì la voce in modo eloquente, ma l’Ispettore lo precedette.

«Mi è stato detto che tutti gli uomini sono artisti fino a un certo grado, così che ognuno è capace di creare qualche cosa, sia pure a un livello rudimentale. Ieri, per esempio, visitando la vostra scuola ho osservato la insistenza sulla individualità che traspare nei disegni, nella pittura, nella scultura. Impulso che m’è parso comune a tutti, anche tra coloro chiara-mente destinati a specializzarsi nelle scienze. Così che, se tutti gli artisti sono anormali e tutti gli uomini sono artisti, il sillogismo che ci troviamo a considerare diviene di particolare interesse…»

Tutti aspettarono che l’Ispettore terminasse la frase. Ma quando conveniva loro, i Superni sapevano essere pieni di tatto. L’Ispettore sopportò il concerto sinfonico con buona grazia, vale a dire meglio di molti umani presenti. L’unica concessione al gusto della maggioranza fu una sinfonia di Stravinsky, il resto del programma era composto da pezzi aggressivamente moderni. A parte i gusti personali, però, l’esibizione fu di primissimo ordine perché la dichiarazione che la Colonia possedeva un buon numero dei migliori concertisti della Terra non era una vanteria infondata. Tra i vari compositori c’era stata lotta per l’onore di comparire nel programma, anche se alcuni cinici mettevano in dubbio che fosse un onore. Per quello che se ne sapeva, i Superni potevano anche essere del tutto sordi alla musica. Si osservò, comunque, che dopo il concerto l’Ispettore volle conoscere i tre compositori presentati e si complimentò con loro per «la grande inventiva dimostrata». La frase provocò risposte compiaciute ma un po’ perplesse. Fu solo al terzo giorno che George Greggson ebbe modo di conoscere l’Ispettore. Il teatro aveva preparato una specie di fritto misto più che una sola portata di gran classe: due lavori di un atto, uno sketch rappresentato da un attore di fama mondiale e una sequenza di balletto. Ancora una volta, ogni elemento del programma fu rappresentato in modo superbo, e la previsione di un critico: «Ora almeno scopriremo se i Superni sanno sbadigliare» ebbe una clamorosa smentita. L’Ispettore infatti rise parecchie volte e sempre al punto giusto.

Tuttavia… no, nessuno avrebbe potuto esserne certo, ma sembrava a volte che anche lui recitasse magnificamente una parte, seguendo la rappresentazione in virtù della sola logica, e con le sue incomprensibili emozioni completamente intatte, come un antropologo che partecipi a qualche rito primitivo.

Il fatto che egli emettesse i suoni giusti e formulasse le risposte che ci si aspettava, non dimostrava niente.

Sebbene fosse deciso ad avere un colloquio con l’Ispettore, George fece miseramente fiasco. Dopo lo spettacolo, i due scambiarono poche parole, subito dopo la presentazione, quindi il Superno fu portato via come da una piena. Fu del tutto impossibile isolarlo dalla sua corte, e George se ne tor-nò a casa in preda a una vera crisi di frustrazione. Aveva sperato di poter parlare con l’Ispettore a proposito di Jeff e della sua strana esperienza, e ora l’occasione era sfumata per sempre.

Il suo cattivo umore durò due giorni. L’aereo dell’Ispettore si era levato in volo, fra molte dichiarazioni di reciproca stima, prima che il seguito comparisse. Nessuno aveva pensato di fare domande a Jeff, e lui ci pensò parecchio prima di risolversi a parlarne al padre.

«Papà» disse una sera, poco prima di andare a letto «conosci il Superno che è venuto a visitare la Colonia?»

«Sì» rispose George in tono acre.

«Bene, è venuto a visitare anche la nostra scuola e io l’ho sentito parlare a qualche professore. Non ho capito bene quello che diceva… ma credo proprio di avere riconosciuto la voce: era la stessa voce che mi aveva detto di correre via presto, quando arrivò l’ondata.»

«Ne sei sicuro?»

Jeff esitò per un istante.

«Non del tutto, ma se non è stato lui è stato di certo un altro Superno. Mi sono chiesto se non dovessi per caso ringraziarlo. Ma adesso se n’è andato, vero?»

«Sì» rispose George «temo proprio che se ne sia andato. Ma può darsi che ci si offra un’altra occasione. Ora, ti prego, fa’ il bravo ragazzo, vattene a letto e non pensare più a tutte queste cose.»

Quando Jeff fu al sicuro in camera sua, e a Jenny fu debitamente provveduto, Jean tornò e andò a sedersi sul tappeto accanto alla poltrona di George, appoggiandosi alle gambe di lui. Era un vezzo che lo colpì come tediosamente sentimentale, ma che non valeva la pena di una discussione. Si limitò a scostare le ginocchia quanto più possibile. «Che ne pensi, ora?» domandò a un tratto Jean con voce stanca. «Credi che la cosa sia realmente avvenuta?»

«Sì, il fatto è realmente avvenuto» rispose George «ma forse è sciocco da parte nostra prendercela tanto. Dopo tutto, qualunque altra coppia di genitori sarebbe grata per quell’intervento, e naturalmente io sono gratissimo ai Superni. La spiegazione può essere straordinariamente semplice. La colonia interessa i Superni, e può darsi che la stessero spiando coi loro strumenti segreti, nonostante la loro dichiarazione, quando l’ondata si stava avvicinando.»

«Ma chi ha parlato conosceva il nome di Jeff, non dimenticarlo. No, è proprio noi che i Superni sorvegliano. C’è qualcosa di particolare in noi che attira la loro attenzione. L’ho sentito fin da quella sera in casa di Rupert. È strano come quella serata abbia cambiato le nostre vite.»

Dall’alto della sua poltrona George diede alla moglie un’occhiata di comprensione, ma niente di più. Incredibile, quanto una persona possa cambiare in così breve tempo. Lui le voleva molto bene, lei gli aveva dato due figli ed era una parte inalienabile della sua vita. Ma dell’amore che un uomo di nome George Greggson aveva un tempo nutrito per un sogno ormai vago chiamato Jean Morrei, quanto rimaneva? Il suo amore si divideva ora fra Jeff e Jennifer da una parte e Carolle dall’altra. Non credeva che Jean sapesse di Carolle, e intendeva dirglielo prima che lo facesse qualcun altro. Ma non era mai riuscito a entrare in argomento.

«Va bene, Jeff è dunque sorvegliato, protetto: non è forse una constatazione che dovrebbe renderci fieri? Può darsi che i Superni abbiano deciso grandi cose per lui, un brillante avvenire, chi sa?»

Parlava per tranquillizzare Jean, lui non era molto turbato, ma solo perplesso, sbigottito. Tutto a un tratto, però, un altro pensiero lo colpì, una supposizione che avrebbe già dovuto fare. I suoi occhi si volsero automaticamente in direzione della camera dei due bambini.

«Mi domando se è soltanto di Jeff che si occupano» disse.

A suo tempo l’Ispettore presentò il suo rapporto. Gli isolani avrebbero dato chi sa che cosa per poterlo vedere. Tutte le cifre statistiche e i dati andarono nelle memorie insaziabili delle grandi calcolatrici che costituivano alcuni, ma non tutti, degli invisibili poteri alle spalle di Karellen. Ancora prima, tuttavia, che questi impersonali cervelli elettronici fossero arrivati alle loro conclusioni, l’Ispettore aveva allegato il suo parere personale. Espresso in pensieri e parole umani, questo parere si sarebbe potuto riassumere così: «Non occorre prendere misure di sorta nei riguardi della Colonia. Rappresenta un esperimento interessante ma non può minimamente incidere sul futuro. I suoi tentativi artistici non ci interessano minimamente e non risulta che le ricerche scientifiche si svolgano lungo canali pericolosi. Come stabilito, ho potuto vedere i registri scolastici del Suddito Zero senza destare curiosità. Sono in proposito allegati interessanti dati statistici, e si vedrà che non si hanno ancora indizi di sviluppi insoliti. Tuttavia, come sappiamo, ben di rado fenomeni di sfondamento sono preceduti da segni molto appariscenti. Ho anche conosciuto il padre di Zero, e ho avuto l’impressione che desiderasse parlarmi. Fortunatamente, ho potuto evitarlo. Non c’è dubbio che l’uomo sospetti qualche cosa, anche se, naturalmente, non potrà mai indovinare la verità o influire, comunque, sull’esito definitivo.

«Ogni giorno di più nutro sentimenti di pietà per costoro.»

George Greggson si sarebbe dichiarato d’accordo sul verdetto dell’Ispettore: non c’era niente d’insolito in Jeff. C’era stato soltanto quello straordinario incidente, più impressionante di un gran colpo di tuono in una lunga e placida giornata estiva. E poi… più niente. Jeff aveva tutta l’energia e la curiosità di ogni altro bimbo di sette anni. Era intelligente, quando si dava la pena di esserlo, ma ben lontano dal pericolo di diventare un genio. A volte, pensava Jean con una certa stanchezza, impersonava perfettamente la definizione classica di un ragazzetto della sua età: «un gran fracasso entro una nube di sporcizia». Non che fosse facile assicurarsi del grado di sporcizia, dato che doveva accumularsi per più strati prima di tradirsi sull’abbronzatura di Jeff. Aveva sbalzi d’umore, questo sì, ed era di volta in volta espansivo o scontroso, riservato o esuberante. Ma anche questo rientrava nella normalità. Non dimostrava preferenza per uno o l’altro dei genitori, e l’arrivo della sorellina non aveva suscitato in lui nessuna gelosia. La sua cartella clinica era un foglio bianco: non era mai stato malato nemmeno un giorno. Ma questo non era insolito in quei giorni, e con quel clima. A differenza di altri ragazzi, Jeff non si annoiava della compagnia di suo padre e raramente lo lasciava per aggregarsi a compagni della sua età. Era evidente che aveva ereditato da George il talento e la passione artistica, e si può dire che appena imparato a camminare era diventato un assiduo frequentatore del palcoscenico del teatro di Nuova Atene. Il teatro, dal canto suo, lo aveva adottato come mascotte, e ormai Jeff era bravissimo nel presentare omaggi floreali alle celebrità teatrali e cinematografiche che visitavano la Colonia. Sì, Jeff era un ragazzo normalissimo. Così George si rinfrancò a misura che andavano a fare insieme passeggiate a piedi o in bicicletta sulla superficie angusta dell’isola. Parlavano tra loro come padre e figli hanno sempre fatto, solo che nella loro epoca non c’erano tante cose da dirsi. Sebbene Jeff non lasciasse mai l’isola, poteva vedere tutto quello che voleva del mondo circostante attraverso l’occhio onnipresente del televisore. Sentiva, come tutti gli altri abitanti della Colonia, un lieve disprezzo per il resto del genere umano. Erano loro la «élite», l’avanguardia del progresso. Sarebbero stati loro a elevare il genere umano fin sulle vette raggiunte dai Superni, e forse ancora più in alto. Non domani, certo, ma un giorno… Non avrebbero mai immaginato che quel giorno doveva venire anche troppo presto.