124413.fb2 Le Guide del Tramonto - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 22

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17

I sogni cominciarono sei settimane più tardi.

Nell’ombra della notte subtropicale, George Greggson nuotava lentamente risalendo dal sonno alla coscienza. Non sapeva che cosa lo avesse destato e per qualche istante rimase coricato in un torpore di perplessità. Quindi si accorse di essere solo. Jean si era alzata e si era diretta senza fare rumore nella camera dei bambini. Ora stava parlando sommessamente con Jeff, così sommessamente, infatti, che George non riuscì a capire una parola di quello che diceva. George sgusciò a fatica dal letto e raggiunse la moglie nella stanza accanto. La sola luce era quella che emanava dai quadri fluorescenti appesi alle pareti della camera. Al loro chiarore opaco, George scorse Jean seduta ai capezzale di Jeff. Lei si volse sentendolo entrare e sussurrò: «Non svegliare la bambina.»

«Che cosa è successo?»

«Sapevo che Jeff aveva bisogno di me e mi sono svegliata.»

La semplicità della dichiarazione con cui Jean dimostrava di accettare il fatto come normale, dette a George una stretta al cuore. «Sapevo che Jeff aveva bisogno di me». E come facevi a saperlo? avrebbe voluto chiedere a Jean. Ma si limitò a dire: «Aveva gli incubi?»

«Non mi sembra» rispose Jean. «Ora ha l’aria di stare benissimo. Ma era atterrito, quando sono entrata.»

«Non ero atterrito per niente, mamma» rispose la vocetta indignata del bambino. «Ma era un posto così strano!»

«Che posto era?» chiese George. «Raccontami tutto.»

«C’erano delle montagne» disse Jeff in tono trasognato. «Erano alte, altissime, ma non avevano neve sulla cima, come tutte le montagne alte che ho visto. E alcune di queste montagne erano in fiamme.»

«Vuoi dire… che erano vulcani?»

«No, non proprio vulcani. Erano completamente ricoperte di fuoco, con delle buffe fiamme azzurre. E mentre stavo guardando, si è levato il sole.»

«Avanti, continua…»

Jeff volse gli occhi sbigottiti verso il padre.

«Ecco un’altra cosa che non capisco, papà. Il sole è sorto con una rapidità incredibile, e poi era troppo grande, era immenso! E poi… non aveva il suo vero colore: era d’un bellissimo azzurro.»

Ci fu un lungo silenzio, un silenzio di ghiaccio che stringeva il cuore. Quindi George disse, in tono pacato: «È tutto qui?»

«Sì. Ho cominciato a sentirmi solo e sperduto, e allora la mamma è venuta a svegliarmi.»

George diede una tiratina affettuosa ai capelli scarmigliati del figlio, mentre si stringeva la cintura della veste da camera con l’altra mano. Si sentì a un tratto infreddolito, debole e inetto. Ma non c’era nessuna traccia di questo nella sua voce, quando disse a Jeff: «Non è che un sogno senza senso. Hai mangiato troppo a cena. Ora non ci pensare più e cerca di dormire, sii bravo.»

«Sì, papà» rispose Jeff. Rimase in silenzio per un istante e poi aggiunse, in tono pensoso: «Forse cercherò di tornarci, in quello strano posto.»

«Un sole azzurro?» disse Karellen qualche ora più tardi. «Questo deve avere facilitato inoltre l’identificazione.»

«Sì» rispose Rashaverak. «Si tratta senza possibilità di dubbio di Alphanidon Due. Le Montagne Sulfuree confermano il fatto. Ed è interessante notare la distorsione della scala temporale. Il pianeta ruota sul proprio asse con notevole lentezza, per cui egli deve avere osservato un tratto di parecchie ore in qualche minuto.»

«È tutto quanto siete in grado di scoprire?»

«Sì, senza interrogare direttamente il bambino.»

«Non possiamo osare tanto. Gli eventi devono seguire il loro corso naturale senza interferenze da parte nostra. Quando i suoi genitori verranno in contatto con noi… allora forse potremo interrogarlo.»

«Possono anche non venire mai in contatto con noi. O farlo quando sarà troppo tardi.»

«Temo che a questo non si possa rimediare. Non dobbiamo mai dimenticarlo: in queste cose la nostra curiosità non ha nessuna importanza. Non è più importante nemmeno della felicità del genere umano.»

Alzò la mano per togliere la comunicazione.

«Continuate la vostra sorveglianza, naturalmente, e riferitemi ogni risultato degno di nota. Ma ricordatevi di non interferire in nessun modo!»

Eppure, da sveglio Jeff sembrava lo stesso identico ragazzetto di sempre: cosa di cui almeno, pensò George, c’era da essere grati. Ma la paura ingigantiva sempre più nel suo cuore. Per Jeff non era che un gioco: non aveva ancora nemmeno cominciato a spaventarlo. Un sogno era semplicemente un sogno, per strano che fosse. E non si sentiva più troppo solo e sperduto nei mondi che il sonno gli dischiudeva. Era stato soltanto quella prima volta, quando la sua mente aveva invocato l’aiuto di Jean varcando chi sa quali abissi misteriosi, insondabili. Ora aveva imparato ad andare solo e senza timore nell’universo che gli spalancava le porte.

La mattina poi gli facevano un sacco di domande, e lui raccontava tutto quello che poteva ricordare. Talvolta le parole si accavallavano o gli mancavano, quando tentava di descrivere scene che non solo erano al di là di ogni sua esperienza, ma al di là della stessa immaginazione umana. Padre e madre gli venivano in aiuto suggerendogli parole nuove, mostrandogli fotografie a colori per stimolare la sua memoria e poi cercando loro di descrivere la scena, disegnandola in base alle sue risposte. Spesso non riuscivano però a capire niente dal risultato dei loro sforzi, per quanto sembrasse che nella mente di Jeff i mondi del suo sogno fossero ben chiari e definiti. Lui infatti sapeva benissimo com’erano, ma non riusciva a descriverli ai genitori. Eppure alcuni di quei mondi sarebbero dovuti essere comprensibili…

Lo spazio soltanto, nessun pianeta, nessun paesaggio circostante, nessun mondo sotto i piedi; ma le stelle soltanto, nella notte di velluto, e sospeso sullo sfondo delle stelle un enorme sole rosso, pulsante come un cuore. Immenso e rarefatto un istante, si raggrinziva lentamente, già più fulgido, come se nuovo combustibile fosse stato gettato nelle fornaci del suo interno. Risaliva la scala dello spettro fino a sfiorare i margini del giallo, e poi il ciclo ricominciava nel senso opposto, la stella si dilatava e si raffreddava, divenendo ancora una volta una nebulosità dai contorni frastagliati, rosso fiamma.

(«Tipica pulsante variabile» disse Rashaverak con interesse. «Vista inoltre sotto un’enorme accelerazione temporale. Non posso identificarla con certezza, ma la stella più vicina che corrisponda alla descrizione è Rhamsanidon Nove. A meno che non sia Pharanidon Dodici.»

«Qualunque sia la stella» rispose Karellen «il ragazzo si allontana sempre più dal suo mondo.»

«Sempre di più» disse Rashaverak…).

Sarebbe potuta essere la Terra. Un sole bianco spiccava nel cielo azzurro chiazzato di nubi che fuggivano spinte da un temporale. Un’altura digradava dolcemente verso un oceano reso schiumeggiante dal vento rabbioso. Ma tutto era immobile: la scena era come pietrificata, quasi che fosse colta dall’occhio nell’attimo di luce abbagliante di un fulmine. E lontano, molto lontano sull’orizzonte, c’era qualcosa che non apparteneva alla Terra, una fila di colonne di fumo che si assottigliavano a mano a mano che, uscite dall’acqua, salivano incontro alle nubi. Quelle colonne erano perfettamente equidistanti tra loro lungo tutto il perimetro di quel pianeta che era troppo grande per essere un mondo artificiale, eppure troppo regolare per essere naturale.

(«Sidenens Quattro e i Pilastri dell’Alba» disse Rashaverak, e c’era un tono di timore riverenziale nella sua voce. «Ha raggiunto il centro dell’universo.»

«E ha appena cominciato il suo viaggio» rispose Karellen).

Il pianeta era assolutamente piatto. La sua enorme forza di attrazione gravitazionale aveva già da gran tempo schiacciato a un livello uniforme le montagne della sua gioventù aggressiva. Era un mondo a due dimensioni, popolato da esseri che non potevano avere uno spessore maggiore d’una frazione di centimetro. Eppure c’era vita su di esso perché la sua superficie era percorsa da una miriade di disegni geometrici che si muovevano e mutavano colore. E nel cielo splendeva un sole quale soltanto un fumatore di oppio avrebbe potuto immaginare in una delle sue allucinazioni più sfrenate. Troppo caldo per essere bianco, era un fantasma lancinante, che ai confini dell’ultravioletto bruciava i suoi pianeti con radiazioni letali per ogni forma di vita. Era una stella a paragone della quale il pallido sole della Terra sarebbe stato così fioco come una lucciola nella gran luce del mezzogiorno. («Hexanerax Due, la sola stella di quel tipo in tutto l’universo conosciuto» disse Rashaverak. «Soltanto una piccola squadra delle nostre navi è potuta giungervi: e non si sono tentati atterraggi perché nessuno avrebbe potuto immaginare che la vita potesse esistere su pianeti simili.»

«A quanto pare» osservò Karellen «voi scienziati non siete poi stati così scrupolosi come avevate creduto. Se quelle figure… quei disegni, potremmo dire, sono intelligenti, il problema di come entrare in comunicazione sarà molto interessante. Mi domando se abbiano il più lieve sentore della terza dimensione…»).

Era un mondo che non avrebbe mai potuto avere il concetto della notte e del giorno, degli anni e delle stagioni. Sei soli variopinti si dividevano il suo cielo, così che c’era soltanto un mutamento di luce. Le tenebre non calavano mai. Tra i sussulti e gli strattoni dei campi gravitazionali contrastanti, il pianeta percorreva le curve e gli anelli annodati dalla sua orbita incredibilmente complessa, senza mai passare per lo stesso punto. Ogni momento era unico: la configurazione che in quell’istante i sei soli tracciavano nel cielo non si sarebbe più ripetuta per tutta l’eternità. E anche lì c’era vita: che importava se ai cristalli sfaccettati e raggruppati in complicate forme geometriche occorreva un millennio per completare un pensiero?

L’universo era giovane, e il tempo senza fine.

(«Ho ripassato tutti i dati in nostro possesso» disse Rashaverak. «Non abbiamo notizia né di un mondo simile né di un simile combinazione di soli. Se esistesse in seno al nostro universo, gli astronomi lo avrebbero scoperto, anche se si trovasse al di là del raggio di azione delle nostre astronavi.»

«Allora significa che il ragazzo è uscito dalla Via Lattea.»

«Appunto. L’evento non può tardare più, ormai.»

«Chi lo sa? Il ragazzo si limita a sognare. Quando si sveglia è sempre lo stesso. Siamo ancora nella prima fase. Sapremo presto quando il cambiamento avrà inizio»).

«Noi ci siamo già conosciuti, signor Greggson» disse gravemente il Superno. «Mi chiamo Rashaverak. Credo che vi ricordiate di me.»

«Certo» disse George «ci siamo conosciuti a una festa in casa di Rupert Boyce. Non dimentico facilmente. E poi ero sicuro che ci saremmo incontrati di nuovo.»

«Ditemi, perché avete voluto questo colloquio?»

«Credo che lo sappiate già.»

«Può darsi. Ma gioverà a entrambi, se vorrete esprimervi con le vostre parole. Può darsi che vi sorprenda, ma anch’io cerco di capire, e sotto molti riguardi la mia ignoranza è profonda quanto la vostra.»

George guardò il Superno con espressione sbalordita. Ecco un’idea che non gli era mai passata per la testa. Aveva sempre inconsciamente presunto che i Superni avessero ogni sapere e ogni potere e che comprendessero le cose che erano accadute a Jeff e ne fossero, probabilmente, causa.

«Immagino» disse George «che abbiate visto i rapporti che ho fatto allo psichiatra dell’isola e siate perciò al corrente dei sogni. Non ho mai creduto che fossero dovuti alla immaginazione di un bambino. Sono talmente incredibili che, per quanto possa sembrare ridicolo, dovevano basarsi su qualche realtà.»

Guardò ansiosamente Rashaverak, non sapendo se sperare una conferma o una smentita.

Il Superno non disse niente, ma si limitò a guardarlo coi suoi grandi occhi placidi.

«Ci siamo stupiti in un primo momento» riprese George «ma non proprio allarmati. Jeff sembrava perfettamente normale quando si svegliava, e i suoi sogni parevano preoccuparlo. Poi, una notte» esitò, e guardò con espressione cauta il Superno «una notte… non ho mai creduto nel soprannaturale, devo dire, non sono scienziato, ma penso che debba esserci una spiegazione razionale per ogni specie di fenomeno…»

«C’è» disse Rashaverak. «So quello che avete visto: stavo osservando.»

«L’ho sempre sospettato. Ma Karellen aveva promesso che non ci avreste spiati coi vostri strumenti speciali. Perché non è stata mantenuta la promessa?»

«Non sono stato io a romperla. Il Supercontrollore disse che la razza umana non sarebbe più stata sotto sorveglianza. La promessa è stata mantenuta. Io sorvegliavo i vostri figli, non voi.»

Occorsero alcuni secondi prima che George intendesse il sottinteso della risposta di Rashaverak. E si fece mortalmente pallido.

«Volete dire…?» ansimò. La voce gli si spense e dovette ricominciare da capo. «Ma dunque che cosa sono, in nome di Dio, i miei figli?»

«È proprio quello che stiamo cercando di scoprire» rispose Rashaverak solennemente.

Jennifer Anne Greggson, più nota in famiglia col nome di Bambola, giaceva supina con gli occhi strettamente chiusi. Da tanto tempo li teneva chiusi e non li avrebbe mai più riaperti, perché adesso la vista le era superflua come alle multisensoriali creature delle profondità oceaniche, dove non c’era luce. Lei si rendeva conto di ciò che la circondava e sapeva e si rendeva conto di infinite altre cose.

Un solo riflesso le rimaneva della sua breve infanzia, per qualche inesplicabile anomalia di sviluppo. Il suono tamburellante del sonaglio, che un tempo la divertiva tanto, batteva ora un ritmo complesso e mutevole nel suo lettino. Era quella strana serie di suoni sincopati che aveva destato Jean, spingendola a correre d’urgenza nella camera accanto. Ma non era stato soltanto quel suono che l’aveva indotta a chiamare, urlando, George. Era stata la vista di quel comunissimo sonaglio variopinto che bubbolava alto e solitario nel vuoto, a mezzo metro almeno da qualunque sostegno, mentre Jennifer Anne, le dita grassocce strettamente incrociate, se ne stava distesa con un sorriso di placida contentezza.

Aveva ricominciato più tardi, ma progrediva con grande rapidità. In breve avrebbe superato il fratello, dato che aveva molto meno di lui da imparare.

«Avete fatto bene» disse Rashaverak «a non toccare il suo giocattolo. Non credo, comunque, che avreste potuto muoverlo. Ma se vi foste riuscito, la bimba avrebbe potuto soffrirne. E in questo caso non so che cosa sarebbe potuto accadere.»

«Intendete dire» osservò George in tono lugubre «che non potete far niente?»

«Non voglio illudervi. Possiamo osservare e studiare, come già stiamo facendo. Ma non possiamo interferire, perché non possiamo capire.»

«Allora che cosa dobbiamo fare? E perché questo genere di fenomeni doveva capitare proprio a noi?»

«A qualcuno doveva pur capitare. Non c’è niente di eccezionale in voi, come non c’è niente di eccezionale nel primo neutrone che inizia la catena a reazione di una bomba atomica. È il fenomeno che noi chiamiamo Sfondamento Totale. Attendevamo che il fenomeno si verificasse fin da quando siamo venuti su questo pianeta. Non c’era modo di prevedere quando e dove avrebbe avuto inizio… fino al giorno in cui, per pura combinazione, ci siamo incontrati alla festa di Rupert Boyce. Fu allora che seppi, con certezza quasi assoluta, che i bambini di vostra moglie sarebbero stati i primi.»

«Ma noi non eravamo ancora… sposati allora. Non avevamo nemmeno…»

«Sì, lo so. Ma la mente della signorina Morrei fu il canale per cui, sia pure per un solo istante, furono comunicate cose che nessuna creatura al mondo, in quel tempo, era in grado di sapere. La comunicazione non poteva che venire da un’altra mente, connessa in modo inseparabile dalla sua. Il fatto che fosse una mente ancora a venire non aveva nessuna importanza, dato che il Tempo è molto più strano di quanto possiate immaginare.»

«Comincio a capire. Jeff conosce queste cose… può vedere altri mondi e dire da dove venite. E in qualche modo Jean ha captato i suoi pensieri ancora prima che il bambino nascesse.»

«Si tratta di ben altro che questo, ma non credo che voi potrete mai avvicinarvi molto di più alla verità. Sempre, in ogni epoca della storia, sono nate persone dotate di poteri inesplicabili che sembrano trascendere lo spazio e il tempo. Non sono mai stati capiti: quasi senza eccezione, le spiegazioni che si è tentato di darne non erano che sciocchezze. Io lo so. Ne ho lette una infinità. Ma c’è un’analogia, che è… sì, istruttiva ed efficace. Non fa che ricorrere in tutta la vostra letteratura. Immaginate che la mente di ogni uomo sia un’isola, circondata dall’oceano. Ognuna sembra appartata, del tutto avulsa dal resto, ma in realtà sono tutte collegate fra loro dal fondo roccioso da cui sono sorte. Se l’oceano dovesse svanire, ciò segnerebbe la fine delle isole in quanto isole. Farebbero tutte parte di un solo continente, ma la loro individualità sarebbe scomparsa. La telepatia, come voi uomini l’avete chiamata, è qualche cosa di simile. In circostanze favorevoli, le menti possono fondersi l’una nell’altra e scambiarsi il reciproco contenuto, per poi riportare il ricordo del fenomeno, quando siano di nuovo isolate. Nella sua forma più elevata, questo potere non è soggetto alle solite limitazioni dello spazio e del tempo. Ecco perché Jean poté attingere alle cognizioni del figlio non ancora nato.»

Seguì un lungo silenzio mentre George lottava con questi concetti sconcertanti. Il quadro cominciava a delinearsi. Era un quadro incredibile, inconcepibile, ma che possedeva una sua logica e che spiegava, se si può usare questo vocabolo per qualcosa di incomprensibile, spiegava tutto quello che era accaduto da quella serata in casa di Rupert. E George si rese conto che dava un senso anche all’interesse di Jean per la metapsichica.

«Che cosa ha messo in moto questo meccanismo?» chiese George. «E dove porta?»

«È una domanda a cui non sappiamo dare risposta. Ma ci sono molte razze nell’universo, e alcune di esse hanno scoperto questi poteri gran tempo avanti che la vostra specie, o la mia, comparissero sulla scena. Hanno atteso che la raggiungeste e ora sembra venuto il momento.»

«E voi, come entrate nel quadro?»

«Probabilmente, come la stragrande maggioranza degli uomini, anche voi ci avete sempre considerato i vostri padroni. Non è vero. Non siamo stati che dei tutori che adempivano a un dovere impostoci… dall’alto. Do-vere alquanto difficile da definire. Forse, vi converrebbe pensare a noi come a levatrici intente a un parto difficile. Noi contribuiamo a far venire alla luce qualcosa di nuovo e meraviglioso.»

Rashaverak esitò. Per un attimo parve incapace di trovare le parole adatte.

«Sì, noi siamo le ostetriche. Ma siamo, anche, sterili.»

In quell’attimo George comprese di trovarsi alla presenza di una tragedia che trascendeva perfino la sua. Era incredibile e tuttavia giusto, in un certo senso. Nonostante tutti i loro poteri e la loro intelligenza, i Superni erano rimasti imbottigliati in un ramo senza lo sbocco dell’evoluzione. Una grande e nobile razza, superiore in ogni cosa al genere umano, e che tuttavia non aveva avvenire e lo sapeva. Di fronte a tutto ciò, gli stessi problemi di George divenivano insignificanti.

«Ora capisco» disse «perché tenevate tanto d’occhio mio figlio: era la cavia di questo particolare esperimento.»

«Precisamente. Sebbene l’esperimento sia al di là del nostro controllo. Non siamo stati noi ad avviarlo… noi abbiamo soltanto cercato di osservarlo. Non siamo mai intervenuti se non quando dovevamo farlo.»

«Già» pensò George «la grande ondata d’alta marea. Non avreste mai permesso che scomparisse un esemplare di tanto valore.» Poi si vergognò di sé: la sua amarezza era ingiusta e non risolveva niente.

«Permettetemi di farvi un’altra sola domanda» disse. «Che cosa dovremo fare dei nostri figli?»

«Godeteveli finché potrete» rispose Rashaverak dolcemente. «Non resteranno vostri molto a lungo.»

Consiglio che si sarebbe potuto dare a qualunque padre in qualunque epoca della storia: ma che ora sembrava contenere una minaccia e un terrore mai avuti prima.