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18

E venne per Jeffrey il tempo in cui il mondo dei suoi sogni non fu più nettamente distinto dall’esistenza quotidiana. Non andava più a scuola e anche per Jean e George il sereno corso della loro vita fu sconvolto, così come lo sarebbe stato tra breve per tutto il pianeta. Avevano cominciato a evitare i loro amici, come se fossero consci che presto nessuno avrebbe più avuto comprensione e compassione da dare agli altri. A volte, nella quiete della notte, quando c’era poca gente in giro, facevano lunghe passeggiate insieme. Erano più uniti adesso di quanto lo fossero mai più stati dopo i primi giorni di matrimonio. La tragedia di cui non erano ancora consapevoli e che fra poco li avrebbe travolti, li aveva riuniti.

All’inizio avevano provato quasi un senso di colpa a lasciare soli in casa i bambini addormentati, ma avevano finito per accorgersi che Jeff e Jenny erano in grado di badare a se stessi in un modo che sfuggiva alla loro comprensione. E poi, naturalmente, c’erano i Superni a sorvegliarli. Pensiero rassicurante, perché così George e Jean sentivano di non essere soli col loro problema assillante. Occhi vigili e amichevoli condividevano la loro attesa. Jennifer dormiva: non c’era altra parola per descrivere lo stato in cui era entrata. Dal punto di vista dell’aspetto esteriore, era ancora in tutto e per tutto una bimba, ma aveva intorno come un alone di poteri latenti così terrificante che Jean non sapeva più risolversi a metter piede nella camera dei bambini.

Né ce n’era bisogno. L’entità che era stata Jennifer Anne Greggson non era ancora pienamente sviluppata, ma anche nel suo dormiente stato di crisalide aveva già un tale dominio del suo ambiente da essere autosufficiente. Jean aveva tentato una volta di darle da mangiare, ma senza successo. Jennifer sceglieva lei il momento in cui nutrirsi, e il modo di farlo. Infatti le vivande si dissolvevano nella ghiacciaia secondo un flusso lento e costante: ma Jennifer Anne non si muoveva mai dal suo lettino. Il suono monocorde del sonaglio era cessato, e il giocattolo giaceva sul pavimento: nessuno osava toccarlo nel timore che Jennifer Anne potesse averne ancora bisogno. Qualche volta lei disponeva mobili e soprammobili secondo una bizzarra logica, e a George sembrava che i quadri fluorescenti fossero diventati più luminosi.

Non dava nessuna noia: era al di là d’ogni loro possibilità di accudire a lei, al di là del loro amore. Non poteva durare ancora a lungo, era chiaro, e nel poco tempo che restava ancora, Jean e George si aggrapparono disperatamente a Jeff. Ma anche Jeff stava cambiando. Però li conosceva ancora. Il ragazzetto, la cui crescita loro avevano ansiosamente seguito fin dalle prime informi nebbie dell’infanzia, stava perdendo la sua personalità, dissolvendosi d’ora in ora sotto i loro occhi. Ma parlava ancora con loro, come aveva sempre fatto, parlava dei suoi giocattoli e dei suoi compagni, quasi ignorasse ciò che l’avvenire gli riserbava. Tuttavia la maggior parte del tempo non li ve-deva nemmeno, non mostrava di essere nemmeno consapevole della loro presenza. Non dormiva più, come invece erano costretti a fare i suoi genitori, nonostante la loro prepotente necessità di perdere il minor numero possibile di quelle ultime ore.

Diversamente da Jenny, Jeff non sembrava possedere poteri paranormali sugli oggetti fisici, forse perché, essendo già parzialmente cresciuto, ne aveva meno bisogno. La sua stranezza consisteva interamente nella vita mentale, di cui i suoi sogni erano soltanto una piccola parte. Rimaneva immobile per ore e ore, gli occhi chiusi strettamente, come in ascolto di qualcosa che nessun altro poteva udire. Entro la sua mente fluiva ininterrotta la conoscenza, da chi sa quale luogo e tempo, una conoscenza che in breve avrebbe sopraffatto e distrutto la creatura semiformata che era stata Jeffrey Angus Greggson. E Fey se ne stava seduta a guardare, levando su di lui gli occhi tristi, sbigottiti, chiedendosi dove fosse andato il suo padroncino e quando sarebbe tornato a lei.

Jeff e Jenny erano stati i primi di tutto il pianeta, ma non passò molto tempo che non furono più soli. Come un’epidemia che si diffonda fulminea da un continente all’altro, la metamorfosi contagiò l’intera razza umana. Non toccò praticamente nessuno al disopra dei dieci anni, mentre nessuno, praticamente, al disotto di quell’età sfuggì.

Fu la fine della civiltà, la fine di tutto quello che gli uomini avevano realizzato dall’inizio del tempo. In pochi giorni l’umanità si vide negato il futuro, perché quando a tutto un popolo vengono portati via i bambini, si distrugge il cuore della razza e si annienta la volontà di sopravvivere. Ma non ci fu panico come sarebbe successo invece un secolo prima. Il mondo rimase tramortito, le grandi città piombarono nell’immobilità e nel silenzio. Solo le industrie di importanza vitale continuarono a funzionare. Fu come se tutto il pianeta fosse in lutto, e piangesse ciò che, adesso, non avrebbe più potuto avere.

Allora, come aveva già fatto una volta in un’epoca ormai dimenticata, Karellen parlò per l’ultima volta al genere umano.