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L’astronave dei Superni arrivò scivolando lungo la sua strada, luminosa come il percorso di una meteora, attraverso la costellazione di Carena. Tra i pianeti esterni del sistema era cominciata la tremenda decelerazione, ciononostante, all’altezza di Marte la sua velocità era ancora vicina a quella della luce. Lentamente gli immensi campi di forza del Sole assorbirono il suo «momentum» mentre ancora le energie della superpropulsione segnavano il cielo con una scia infuocata lunga milioni di chilometri. Jan Rodricks tornava, di sei mesi più vecchio, al mondo che aveva lasciato ottanta anni prima. Questa volta non era più un passeggero clandestino in un nascondiglio segreto, ma se ne stava dietro i tre piloti (perché poi, si chiedeva, ne occorrevano tanti?), a guardare le configurazioni che si formavano e disfacevano sul grande schermo che dominava la sala comando.
I colori e le forme che comparivano sullo schermo non significavano niente per lui, ma Jan immaginò che indicassero i dati che su una nave costruita dagli uomini sarebbero comparsi sotto forma di numeri. Ogni tanto però sullo schermo si vedevano grappoli di stelle, e Jan sperò di vedere presto inquadrata la Terra.
Era contento di tornare nel suo mondo, nonostante tutti gli sforzi che aveva fatto per fuggirne. In quei pochi mesi, era maturato. Aveva visto tanto, viaggiato in regioni così lontane dell’universo che ora si consumava dal desiderio del suo mondo. Capiva perché i Superni avessero escluso la Ter-ra dalle stelle. L’umanità aveva ancora molta strada da percorrere prima di avere la minima parte nella civiltà che lui aveva ora appena intravisto. Che proprio si dovesse pensare, e l’idea gli ripugnava profondamente, che il genere umano non sarebbe mai potuto essere niente di più d’una specie inferiore, tenuta in uno zoo appartato coi Superni come guardiani? Era questo, forse, che Vindarten aveva voluto dire quando, proprio al momento della sua partenza, aveva dato a Jan questo ambiguo avvertimento: «Molte cose possono essere successe sul vostro pianeta durante il tempo trascorso. Potreste non riconoscere il vostro mondo, quando lo rivedrete.»
Può darsi, pensò Jan. Ottant’anni erano molti, e per quanto lui fosse ancora giovane, con la mente agile, e possedesse una grande capacità di adattamento, poteva trovare difficoltà a comprendere tutti i cambiamenti che dovevano essersi verificati. Ma di una cosa era sicuro: gli uomini avrebbero voluto sentire la sua storia e sapere che cosa aveva visto della civiltà dei Superni.
Lo avevano trattato bene, come del resto si era aspettato. Del viaggio verso Carena non aveva saputo niente: quando l’effetto dell’iniezione si era dissipato gradualmente e lui era tornato alla realtà, l’astronave era già entrata nel sistema dei Superni. Lui era strisciato fuori dal suo nascondiglio e si era accorto che la maschera dell’ossigeno non gli serviva. L’aria era densa e pesante, ma Jan poteva respirare senza difficoltà. Si era ritrovato entro la stiva enorme dell’astronave illuminata in rosso, fra innumerevoli casse e tutte le comuni parti di un carico che è logico aspettarsi di trovare a bordo di qualsiasi grossa nave mercantile degli spazi cosmici o del mare. Gli ci era voluta quasi un’ora per trovare la strada della sala di comando e rendere nota la sua presenza all’equipaggio. La loro mancanza di sorpresa lo aveva lasciato perplesso. Sapeva che i Superni dimostravano pochissimo i loro sentimenti, ma una reazione qualunque se l’era aspettata. Invece avevano continuato a fare quello che stavano facendo, osservando il grande schermo, costantemente solleciti alle innumerevoli manopole dei pannelli di comando. Ed era stato allora che aveva capito che si preparavano ad atterrare, perché, ogni tanto, l’immagine di un pianeta appariva in un lampo sullo schermo, più grande a ogni comparsa. Eppure non si avvertiva nessuna sensazione di movimento o cambiamento di velocità, e la gravità rimaneva assolutamente costante: un quinto circa di quella terrestre, aveva calcolato Jan. Le immense forze che muovevano l’astronave erano compensate con precisione ammirevole. E infine, all’unisono, i tre Superni si erano alzati dai loro sedili, e lui a-veva capito che il viaggio spaziale era concluso. Essi non avevano parlato né al passeggero né tra loro, e quando uno dei Superni gli aveva fatto cenno di seguirlo, Jan aveva capito che a quel capo della lunghissima linea che riforniva Karellen, non c’era nessuno che parlasse inglese. Essi lo avevano guardato con gravità mentre le porte enormi si aprivano davanti ai suoi occhi avidi. Quello era il momento supremo della sua vita: era il primo essere umano che vedeva un mondo illuminato da un altro sole. La luce vermiglia di NGS 549672 invase l’astronave, e davanti a lui apparve il mondo dei Superni. Che cosa si era aspettato? In realtà Jan non lo sapeva. Edifici immensi, metropoli con torri che si perdevano nelle nubi, macchine che superavano ogni immaginazione… tutto questo non l’avrebbe stupito. Invece vide una pianura anonima che si stendeva fino all’orizzonte incredibilmente e innaturalmente vicino, interrotta soltanto da altre tre astronavi immobili a qualche chilometro di distanza. Per un attimo Jan si sentì deluso, poi scosse le spalle rendendosi conto che in fondo avrebbe dovuto immaginare che uno spazioporto si trovasse in una zona deserta proprio come quella.
Faceva freddo, per quanto in modo sopportabile. La luce dell’enorme sole rosso basso sull’orizzonte non era un pericolo per gli occhi umani, ed era sufficiente a vedere, ma Jan si chiese fra quanto tempo avrebbe cominciato a desiderare i toni verdi e azzurri. Poi vide il gigantesco calice che saliva nel cielo simile a un immenso catino messo vicino al sole. Lo guardò a lungo prima di capire che il suo viaggio non era ancora finito. Era quello il mondo dei Superni. Questo dove si trovava doveva essere il suo satellite, la base dalla quale partivano le loro astronavi.
Lo avevano poi fatto salire su un’altra nave, non più grande di un comune aereo di linea terrestre. Con l’impressione di essere un nano, Jan si era arrampicato su uno dei grandi sedili, e aveva cercato di vedere dai finestrini qualcosa del pianeta al quale si stavano avvicinando. Il viaggio fu così breve che lui non ebbe il tempo di vedere molto del mondo che ingrandiva sotto i suoi occhi. Gli parve che i Superni ricorressero a un tipo di superpropulsione anche per navigare nelle vicinanze di casa, perché dopo pochi minuti già penetravano in una densa atmosfera fitta di nubi. Quando i portelli si spalancarono, uscirono tutti in una grande sala col soffitto a volta che scivolò a richiudersi in un attimo alle loro spalle cancellando ogni segno di porta. Passarono due giorni prima che Jan potesse lasciare quell’edificio. Era una merce inattesa, e loro non avevano un posto dove metterlo. Per peggiorare la situazione nessuno dei Superni capiva l’inglese, così era praticamente impossibile comunicare con loro. Jan si rese conto che mettersi in contatto con una razza extraterrestre non era semplice come spesso sembra nei romanzi di fantascienza. Farsi capire a segni risultò un fallimento, perché questo sistema è troppo legato a un tipo di gesti, di espressioni e di atteggiamenti, che non erano comuni alla razza umana e a quella dei Superni.
Jan pensò che sarebbe stato assai deprimente che gli unici Superni capaci di parlare la sua lingua fossero tutti sulla Terra. Purtroppo poteva soltanto aspettare e sperare. Certamente qualche loro scienziato, qualche esperto di razze straniere, si sarebbe fatto vivo per occuparsi di lui. Oppure lui era così poco importante che nessuno se ne sarebbe preoccupato?
Possibilità di uscire dalla costruzione non ce n’erano, dato che le grandi porte non possedevano congegno d’apertura visibile. Quando un Superno arrivava davanti alla porta, questa si apriva. Tutto qui. Jan aveva cercato di fare altrettanto agitando le braccia in alto con la speranza di interrompere un eventuale raggio che comandasse l’apertura, aveva tentato tutti i sistemi immaginabili, ma senza risultato. Un uomo dell’Età della pietra, sperduto in una città o in una casa moderna, si sarebbe sentito altrettanto impotente. Una volta aveva cercato di uscire seguendo un Superno, ma era stato cortesemente respinto indietro, e siccome non voleva assolutamente irritare i suoi ospiti, Jan non aveva insistito.
Vindarten arrivò prima che Jan cominciasse a disperarsi. Il Superno parlava l’inglese malissimo e troppo in fretta, ma migliorò con rapidità. In pochi giorni, furono in grado di conversare a loro agio di qualunque argomento che non richiedesse un vocabolario specializzato. Non appena Vindarten si assunse la sua tutela, Jan smise di preoccuparsi. Non ebbe nemmeno l’opportunità di fare ciò che desiderava, perché doveva passare quasi tutto il suo tempo in sedute con scienziati Superni desiderosi di fare oscuri esperimenti con strumenti complicatissimi. Jan odiava quelle macchine, e dopo un esperimento con una specie di congegno ipnotico ebbe un mal di capo lancinante, che durò parecchie ore. Lui aveva tutta la buona volontà di collaborare, ma non era sicuro che gli studiosi Superni conoscessero le sue limitazioni mentali e fisiche. Passò parecchio tempo prima che riuscisse a convincerli che gli era indispensabile dormire a intervalli regolari. Fra un esperimento e l’altro, aveva fuggevoli visioni della città, cosa che gli permise di capire quanto sarebbe stato difficile per lui aggirarvisi all’interno. Strade nel senso terrestre erano praticamente inesistenti, e non sembrava nemmeno che esistessero veicoli di superficie. Era il pianeta, quello, di creature che potevano volare e che non temevano la forza di gravità. Capitava di trovarsi senza preavviso sull’orlo di un precipizio di centinaia di metri, o di scoprire che l’unica via d’ingresso a una stanza era un’apertura sistemata in alto in una parete. Da mille particolari Jan cominciò a rendersi conto che la psicologia di una razza fornita di ali era fondamentalmente diversa da quella di creature legate al suolo. Era uno spettacolo bizzarro vedere i Superni librarsi come immensi uccelli fra le torri della loro città, le possenti ali remiganti a lenti battiti ondosi. Un problema scientifico si nascondeva sotto quello spettacolo. Perché quello era un pianeta di notevoli dimensioni, molto più grande della Terra, eppure la forza di gravità era inferiore a quella terrestre, e Jan non riusciva a capire perché l’atmosfera fosse così densa. Interrogò Vindarten in merito e venne a sapere, come aveva vagamente immaginato, che quello non era il pianeta d’origine dei Superni. Costoro si erano evoluti su un pianeta molto più piccolo, per poi giungere alla conquista di questo, dopo averne modificato non soltanto l’atmosfera ma la stessa forza di gravità. L’architettura dei Superni era funzionale fino allo squallore. Mancavano decorazioni, ornamenti, non c’era niente che non avesse uno scopo, anche se quello scopo esulava spesso dalla comprensione di Jan. Se un uomo del medioevo avesse potuto vedere quella città illuminata di rosso e gli esseri che l’abitavano, indubbiamente avrebbe creduto di essere finito all’inferno. Perfino Jan, nonostante tutta la sua curiosità e l’obiettivo distacco dello scienziato, spesso si trovava sulle soglie di un terrore irragionevole. La mancanza di un solo punto di riferimento familiare può essere causa di estremo sconvolgimento anche per la mente più lucida e razionale. E poi c’erano troppe cose che Jan non riusciva a capire e che Vindarten non poteva, o non voleva nemmeno tentare di spiegargli. Ad esempio, cos’erano quelle luci saettanti di forma mutevole che percorrevano l’aria con moto talmente rapido da far dubitare della loro esistenza? Potevano essere tanto creature terribili e sacre, quanto semplici e unicamente spettacolari, ma banali, effetti luminosi come le insegne al neon della antica Broadway. Jan intuiva, inoltre, che il mondo dei Superni era pieno di suoni che lui non poteva sentire. Qualche volta riusciva a captare complessi temi ritmici che si stendevano lungo lo spettro percettibile alle sue orecchie, per svanire oltre i limiti dell’udibile. Vindarten aveva l’aria di non capire che cosa intendesse Jan per «musica», quindi lui non riuscì mai a soddisfare la propria curiosità su questo problema. La città tuttavia non era così sterminata come si poteva dedurre in rapporto a una civiltà tanto spettacolare; era certo più piccola di quello che non fossero New York o Londra al culmine della loro prosperità. Secondo quanto diceva Vindarten, esistevano parecchie migliaia di città come quella, sparse sulla superficie del pianeta, ognuna destinata a una funzione specifica. Sulla Terra, il parallelo più pertinente era una città universitaria, se non che il grado di specializzazione, lì, era infinitamente più accentuato. Tutta quella città, scoprì Jan, era dedita allo studio delle culture d’altri mondi.
Durante una delle loro prime escursioni fuori della nuda cella in cui Jan viveva, Vindarten lo aveva condotto al museo. Ciò aveva dato a Jan il conforto psicologico di trovarsi finalmente in un luogo fatto per uno scopo che lui comprendeva. A parte le dimensioni, poteva benissimo essere un museo terrestre. C’era voluto molto tempo per arrivarci ritti su una grande piattaforma che calava verticalmente, come un pistone in un cilindro di lunghezza sconosciuta. Non c’erano leve o comandi visibili, e il senso di accelerazione al principio e alla fine della discesa era sensibilissimo. Evidentemente i Superni non sprecavano i loro preziosi campi di compensazione per semplici usi domestici. Jan si domandava se tutto il pianeta fosse percorso da tunnel come quello, e perché mai i Superni avessero limitato le dimensioni della città preferendo espandersi nel sottosuolo anziché all’aperto. Ma non riuscì mai a sciogliere nemmeno questo enigma.
Si poteva passare tutta un’esistenza a esplorare quelle sale immense. Là dentro c’era il bottino d’innumerevoli pianeti, le conquiste di un maggior numero di civiltà che Jan avesse mai potuto immaginare. Ma non ci fu il tempo di vedere molto. Vindarten lo fece salire attentamente su un tratto di pavimento che a prima vista appariva come un disegno ornamentale; ma poi Jan si ricordò che non c’era niente di decorativo su quel pianeta, e in quell’istante, qualcosa che non era visibile lo afferrò gentilmente e lo spinse avanti. Lui passava ora di fronte alle grandi bacheche, davanti a panorami di mondi inimmaginabili, a una velocità di venti o trenta chilometri orari.
I Superni avevano superato il problema della stanchezza che assale i visitatori dei musei. Lì non c’era bisogno di camminare. Dovevano aver percorso già parecchi chilometri, quando la guida di Jan lo afferrò di nuovo e con uno sforzo delle sue grandi ali lo strappò alla for-za misteriosa che li spingeva. Davanti a loro si stendeva una sala sterminata, seminuda, illuminata da una luce familiare che Jan non aveva più veduto dal momento in cui aveva abbandonato la Terra. Era fioca, così da non ferire la vista troppo sensibile dei Superni, ma era, inequivocabilmente, luce solare. Jan non avrebbe mai pensato che una cosa così semplice e comune e normale per un terrestre potesse mettergli in cuore tanta nostalgia.
Quella era dunque la cripta che riguardava la Terra e la sua civiltà. Camminarono per qualche metro davanti a tesori artistici di vari secoli (una dozzina almeno), tutti raggruppati incongruamente insieme, macchine calcolatrici e asce paleolitiche, ricevitori televisivi e turbine a reazione di Erone di Alessandria. Poi una grande porta si aprì davanti a loro, ed essi entrarono nell’ufficio del Curatore della Terra.
Era la prima volta che vedeva un essere umano? Era stato sulla Terra, oppure il mondo di Jan era soltanto uno dei tanti pianeti che dipendevano dalla sua tutela, e lui non sapeva nemmeno dove si trovasse esattamente?
Certo il Curatore non parlava e non capiva l’inglese, perché Vindarten dovette fare da interprete. Jan aveva finito per passare parecchie ore là dentro, parlando in una macchina di registrazione fonica, mentre i Superni gli mostravano vari oggetti terrestri che, Jan se ne accorse con sua grande vergogna, lui non riuscì nemmeno a indovinare a cosa servissero. L’ignoranza di Jan sulla sua stessa razza e su quanto aveva fatto risultò enorme, e il giovane si chiese se perfino i Superni, nonostante le loro stupende qualità mentali, fossero riusciti a impadronirsi completamente della cultura umana. Vindarten lo guidò fuori del museo per una strada diversa. Volteggiavano senza sforzo a mezz’aria lungo grandi gallerie a volta, ma ora davanti alle creazioni della natura, non dell’intelletto. Jan pensò che il professor Sullivan avrebbe dato la vista per essere lì a vedere quale incredibile evoluzione si era svolta su centinaia di mondi. Poi si ricordò che probabilmente Sullivan era già morto. E poi, a un tratto, senza la minima avvisaglia, si trovarono su di una specie di loggia, altissima su di una vasta sala circolare del diametro di un centinaio di metri. Come al solito non esisteva parapetto, e Jan esitò un istante prima di accostarsi all’orlo. Ma Vindarten stava proprio sul limite estremo e guardava giù, del tutto a suo agio, e allora Jan avanzò cauto per raggiungerlo.
Il pavimento della sala era una ventina di metri più basso. In seguito, Jan ebbe la certezza che la sua guida non aveva affatto voluto coglierlo di sorpresa e che il Superno era rimasto sbalordito davanti alla sua reazione. Jan aveva lanciato un urlo terribile, facendo un balzo indietro dall’orlo della loggia, nello sforzo involontario di nascondere alla vista ciò che si trovava là sotto. Fu solo quando l’eco soffocata dell’urlo che lui aveva lanciato si spense nell’aria densa che Jan si fece forza e tornò sull’orlo. Era senza vita, naturalmente, e non, come Jan aveva creduto in quel primo momento di panico, intento a fissarlo consapevolmente. Riempiva quasi tutto il grande spazio circolare, e la luce color rubino scintillava nelle sue profondità di cristallo.
Era un occhio, uno solo, gigantesco.
«Perché avete fatto tanto rumore?» chiese Vindarten.
«Mi ero spaventato» rispose Jan, confuso.
«Ma perché? Credevate di correre un pericolo, qui?»
Jan disperò di poter spiegare che cosa fosse un riflesso condizionato e decise di non tentare nemmeno.
«Qualunque cosa del tutto inaspettata è causa di paura» disse. «Fino al momento di analizzare una nuova situazione, è più prudente attendersi il peggio.»
Il cuore gli batteva ancora con violenza, mentre lui riabbassava gli occhi sull’occhio mostruoso. Naturalmente, poteva anche essere enormemente ingrandito, come si faceva nei musei terrestri con microbi e insetti. Ma anche nell’istante in cui lo domandava, Jan sapeva, con una certezza sconvolgente, che quell’occhio era a grandezza naturale. Vindarten seppe dirgli ben poco: quello non era un campo del sapere in cui eccellesse, e del resto non ne era nemmeno curioso. Dalle descrizioni di Vindarten, Jan si fece la vaga idea di una bestia ciclopica che viveva tra le macerie planetarie di alcuni asteroidi gravitanti intorno a un sole molto lontano, lo sviluppo corporeo non impedito dall’attrazione gravitazionale, mentre per nutrirsi e sopravvivere dipendeva dall’acutezza e dal potere risolvente di quell’unico occhio. Sembravano non esserci limiti a quello che la natura poteva fare ove la necessità lo esigeva, e Jan provò una gioia del tutto irrazionale nello scoprire che c’era qualcosa che anche i Superni non intendevano superare. Avevano portato dalla Terra un capodoglio di massime dimensioni, ma quello era stato il limite. Lì, avevano preso soltanto l’occhio.
E c’era stata la volta in cui Jan era salito, salito sempre più, fino a quan-do le pareti della piattaforma mobile s’erano dissolte in una opalescenza divenuta trasparenza cristallina. Se ne stava ritto, sembrava, senza sostegno, tra le più alte vette della città, senza la minima protezione dall’abisso. Ma non aveva provato maggior vertigine di quella che si provi da un aereo, perché non c’era alcun senso di contatto con il terreno troppo lontano. Era al di sopra delle nubi a occupare il cielo con una serie di pinnacoli di metallo o di pietra. Sotto di lui si muoveva il mare in ondate pigre, colorate di rosa dal riflesso delle nuvole. Su nel cielo c’erano due piccole lune sbiadite, non molto lontane dal sole. Quasi al centro del disco rosso era visibile una piccola ombra nera, perfettamente circolare. Poteva essere una macchina solare o un’altra luna. Jan mosse lentamente lo sguardo lungo l’orizzonte. La coltre di nubi si stendeva fino ai margini di quell’enorme pianeta, ma a una distanza incalcolabile si intravedeva una chiazza variegata, che sarebbe potuta essere l’insieme delle torri di un’altra città. Dopo avere osservato a lungo la chiazza, Jan riprese il suo giro d’orizzonte. Fu dopo aver percorso con lo sguardo un arco di 180 gradi che vide a un tratto la montagna. Non sorgeva all’orizzonte, ma oltre: un solo picco, che sembrava arrampicarsi sull’altro versante fin sopra gli orli del mondo, con le pendici inferiori nascoste, come il grosso di un iceberg è nascosto sotto il pelo dell’acqua. Jan tentò di valutarne le dimensioni, ma non gli fu possibile. Era difficile credere che potesse esistere una montagna così, anche su un mondo a bassa gravità come quello. Chissà se i Superni si divertivano a scalarne i fianchi e a volteggiare come aquile attorno ai suoi immensi picchi!
Poi, nel modo più inatteso, la montagna cominciò a cambiare, lentamente. Quando l’aveva vista la prima volta, era d’un rosso cupo, quasi sinistro, con alcune frastagliature quasi invisibili presso la vetta. Stava cercando di mettere bene a fuoco la vista per distinguere le loro particolarità, quando si accorse che si stavano muovendo…
Dapprima non voleva credere ai suoi occhi. Poi si costrinse a ricordare che tutti i suoi preconcetti non avevano senso, lì, e che non doveva permettere alla sua mente di respingere i messaggi che i sensi inviavano al cervello. E non doveva tentare di capire, ma solo guardare. Avrebbe, forse, capito più tardi, o forse mai. La montagna, Jan continuava a pensarla come tale, perché non c’era altra parola per descriverla, sembrava viva. Ripensò all’occhio mostruoso sepolto nella cripta sotterranea… ma no, era un’idea pazzesca. Non era vita or-ganica quella che stava osservando, non era nemmeno, sospettò, materia nel senso che lui dava al termine.
Il fosco colore rosso si stava ravvivando, si faceva di una sfumatura più carica. Strisce d’un giallo brillante apparivano, tanto che per un attimo Jan ebbe l’impressione di avere sotto gli occhi un vulcano che rovesciasse fiumane di lava sulla piana sottostante. Ma quelle fiumane come si poteva vedere da occasionali sfavillamenti, da striature, avevano un moto ascensionale. Ora qualcos’altro sorgeva dai vapori di rubino intorno alla base della montagna: un anello enorme, perfettamente orizzontale, perfettamente circolare… e aveva il colore di tutto quello che Jan si era lasciato dietro, a una lontananza infinita. Il cielo della Terra non aveva mai avuto azzurro più celestiale. In nessun altro momento, sul mondo dei Superni, Jan aveva visto simili sfumature, e gli si strinse la gola alla nostalgia, alla malinconia che ispiravano.
L’anello si dilatava a misura che saliva. Era più alto della montagna, ora, e la curva più vicina a Jan si espandeva verso di lui. È evidente, si disse Jan, che si trattava di un vortice di qualche genere… un anello di fumo che ha già parecchi chilometri di diametro. Ma l’anello non mostrò minimamente la rotazione che l’uomo si aspettava, e ora sembrava farsi sempre più solido a misura che la sua superficie aumentava.
L’ombra passò rapida, molto prima che l’anello stesso, maestosamente, trascorresse altissimo, continuando a salire nello spazio, Jan lo osservò fino a quando non si fu ridotto in un esile filo azzurrognolo, difficile a distinguersi nel circostante rossore del cielo. Quando scomparve, alla fine, doveva già avere un diametro di parecchie migliaia di chilometri. E continuava a dilatarsi e a rafforzarsi. Jan tornò a guardare la montagna: adesso era d’oro, e perfettamente liscia. Forse era solo la sua immagine… adesso Jan era disposto a credere qualsiasi cosa… ma sembrava più alta e più stretta, e pareva che girasse su se stessa come una tromba d’aria.
Poi Jan si ricordò della macchina fotografica. La sollevò all’altezza dell’occhio e cercò di puntarne l’obiettivo verso quell’enigma troppo assurdo e sconvolgente.
Vindarten apparve improvvisamente davanti al suo obiettivo. Con fermezza implacabile, le grandi mani si levarono contro la lente, costringendolo ad abbassare la macchina fotografica. Jan non cercò di resistere; sarebbe stato inutile, naturalmente, ma a un tratto ebbe una paura mortale di quella cosa laggiù, ai confini del pianeta, e non volle più guardare. Non c’era stato mai altro nelle sue gite che gli avessero proibito di fotografare, ma Vindarten non gli fornì nessuna spiegazione. Il Superno dedicò invece molto tempo a farsi descrivere da Jan fin nelle più minute particolarità tutto quello che aveva visto. Fu allora che Jan si accorse che gli occhi di Vindarten avevano visto qualcosa di totalmente diverso; e fu allora che intuì, per la prima volta, che i Superni avevano a loro volta dei padroni.
Adesso stava tornando al suo pianeta d’origine, e tutto lo stupore, la paura, il mistero erano lontanissimi. Gli sembrava che fosse la stessa astronave dell’andata, sebbene non di certo lo stesso equipaggio. Per lunghe che fossero le loro vite, era difficile credere che i Superni rimanessero lontani dalle loro case per tutti i decenni richiesti da una spedizione interstellare. L’effetto di dilatazione temporale della legge sulla relatività si verificava, naturalmente, nei due sensi. I Superni, quindi invecchiavano di soli quattro mesi durante il viaggio di andata e ritorno, ma nel frattempo i loro amici invecchiavano di ottant’anni.
Se lo avesse desiderato, Jan avrebbe potuto probabilmente rimanere su quel pianeta per tutto il resto della sua vita. Ma Vindarten lo aveva avvertito che non ci sarebbero state altre astronavi in partenza per la Terra per parecchi anni, e lo aveva ammonito a cogliere quell’occasione. Forse i Superni si erano accorti che anche in quel breve lasso di tempo la sua mente era quasi giunta allo stremo delle sue risorse. Oppure poteva darsi che fosse diventato una seccatura, e loro non volessero perdere altro tempo per lui.
Ma la cosa non aveva importanza, ora, perché la Terra era là, davanti a lui. L’aveva vista così centinaia di volte prima d’ora, ma sempre attraverso l’occhio staccato, freddo, della televisione. Ora finalmente era proprio lui, in persona, nello spazio cosmico mentre l’ultimo atto del suo sogno si stava compiendo e la Terra girava, ai suoi piedi, su se stessa, lungo la sua eterna orbita.
La Luna era al suo primo quarto crescente, e quindi oltre metà della faccia visibile era ancora immersa nell’ombra. C’erano poche nuvole in cielo, solo alcune striature sparse lungo il corso dei venti. Lo scintillio della calotta polare artica perdeva la gara con l’accecante riflesso del sole sul Pacifico. Sì poteva credere che il pianeta avesse soltanto acqua: in quell’emisfero non si vedeva terra. Unico continente di cui si intuiva appena l’esistenza della nebulosa chiazza più scura sulla curva della Terra, era l’Australia. La nave si muoveva entro il gran cono d’ombra della Terra: la falce scintillante rimpicciolì, si ridusse a un arco sottile di fuoco, scomparve. Sotto non c’erano che le tenebre della notte. Il mondo dormiva. Fu allora che Jan si rese conto della differenza. Si vedeva la Terra laggiù, ma dov’erano… le scintillanti collane di lumi, dov’erano le chiazze formicolanti di luce che erano state le metropoli dell’uomo? In tutto l’emisfero in ombra non c’era una luce a respingere la notte. Scomparsi senza lasciare traccia i milioni di kilowatts che un tempo erano stati profusi senza risparmio verso le stelle. Era come guardare la superficie della Terra prima della comparsa dell’uomo.
Questo non era il ritorno che Jan si aspettava; ma non poteva fare altro che guardare, mentre la paura dell’ignoto aumentava nel suo cuore. Qualcosa doveva essere successo… qualcosa d’inimmaginabile. E tuttavia l’astronave stava calando con un intento preciso lungo un’ampia curva che la riportava nell’emisfero illuminato dal sole.
Non poté vedere niente dell’atterraggio vero e proprio, perché l’immagine della Terra a un tratto svanì, per essere sostituita sullo schermo da quell’incomprensibile trama di linee e di luci. Quando la visione fu di nuovo possibile, erano già sul terreno. S’intravedevano grandi edifici in distanza, tra macchine in moto con un gruppo di Superni intenti a guardare qualche cosa. S’udì il rombo soffocato dell’aria mentre la nave eguagliava la pressione, poi il rumore dei grandi portelli che si aprivano. Jan non attese: i silenziosi giganti lo guardarono con tolleranza, o indifferenza, uscire di corsa dalla sala comando.
Era a casa, rivedeva la luce smagliante del suo sole, respirava l’aria che gli aveva gonfiato i polmoni quando era nato. La passerella era già stata abbassata, ma Jan dovette aspettare un momento per non venire accecato dalla luminosità esterna.
Karellen stava ritto, un po’ discosto dai suoi compagni, presso un grande autocarro carico di casse. Jan non si soffermò a chiedersi come avesse fatto a riconoscere il Supercontrollore, e non si stupì di trovarlo del tutto immutato. Si può dire che fosse la sola cosa che gli apparve come se l’era immaginata.
«Vi stavo aspettando» disse Karellen.