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«I primi tempi» disse Karellen «potevamo andare fra loro senza pericolo. Ma non avevano più bisogno di noi: la nostra opera fu compiuta dopo che, radunatili tutti insieme, avevamo dato loro un continente. Guardate.»
La parete davanti a Jan scomparve, e ora lui guardava da un’altezza di qualche centinaio di metri su una regione amenamente boscosa. L’illusione era così perfetta che per qualche istante Jan dovette lottare contro il capogiro.
«Qui, è cinque anni dopo, quando ha avuto inizio la seconda fase.»
Delle figure si muovevano in basso, e l’obiettivo calò rapido su loro come un uccello da preda.
«Ciò che vedrete vi impressionerà» disse Karellen. «Ma non dimenticate che il vostro punto di vista non è più valido. Voi non state osservando dei ragazzi umani.»
Eppure questa fu l’impressione che si offrì alla mente di Jan, e non bastò tutta la logica di questo mondo a dissolverla. Sarebbero potuti essere dei selvaggi intenti a una complessa danza sacra. Erano nudi e sporchi, con ciocche di capelli ingrommati che scendevano a coprire gli occhi. Ce n’erano di tutte le età, dai cinque ai quindici anni, calcolò Jan, ma tutti si muovevano con la stessa velocità, la stessa precisione, la stessa indifferenza per il mondo circostante. Poi Jan vide le loro facce. Dovette inghiottire un grumo di saliva più pesante del piombo e fare uno sforzo per non volgere altrove la testa. Erano facce più vuote di quelle dei morti, perché anche un cadavere ha qualche ricordo, inciso dallo scalpello del Tempo sui lineamenti, che parla quando le labbra sono diventate mute. Non c’era più emozione o sentimento su quelle facce, di quanti possano esserci sul muso di un serpente o di un insetto. Gli stessi Superni erano infinitamente più umani.
«Voi state cercando qualcosa che non c’è più» disse Karellen. «Ricordatevelo, non hanno più personalità individuale delle cellule del vostro corpo. Ma collegati tra loro rappresentano qualcosa d’infinitamente più grande di voi.»
«Ma perché continuano a muoversi così?»
«Noi l’abbiamo chiamata la Lunga Danza» rispose Karellen. «Non dormono mai, capite, e questa è durata quasi un anno. Sono trecento milioni, che si muovono secondo un piano controllato su tutto un continente. Abbiamo analizzato questo piano senza posa, ma non significa niente, forse perché noi possiamo vederne soltanto la parte fisica… la piccola parte che è qui sulla Terra. Forse, quella che noi abbiamo chiamato la Supermente li sta ancora addestrando, li foggia in una sola unità prima di assorbirli nel suo essere.»
«Ma come hanno fatto a nutrirsi? E che accadeva se urtavano contro qualche ostacolo, come alberi, massi, o se c’era una distesa d’acqua?»
«L’acqua non rappresentava nessun pericolo: non potevano affogare. Se incontravano degli ostacoli e si facevano male, non se ne accorgevano. Quanto a nutrirsi… be’, c’erano tutti i frutti e la selvaggina che volevano. Ma ora si sono liberati di quella necessaria fonte di energia e hanno imparato ad attingere ad altre fonti.»
La scena tremolò improvvisamente, come se un’onda di calore vi fosse passata sopra. Quando il tremolio cessò, il movimento della Lunga Danza era cessato anch’esso.
«Guardate ancora» disse Karellen. «Sono passati altri tre anni.»
Le piccole figure, così abbandonate e patetiche per chi non avesse conosciuto la verità, stavano immobili nella foresta, nel sottobosco, nelle pianure. L’obiettivo della macchina da presa andava instancabilmente dall’una all’altra: già le loro facce si fondevano in un solo stampo, un’unica forma. Aveva visto una volta alcune fotografie ottenute con la sovrapposizione di dozzine di riproduzioni, un esperimento per ottenere una faccia «media». Il risultato era stato così vuoto, così privo d’ogni carattere come questo. Sembravano tutti addormentati o in stato catalettico. Avevano gli occhi serrati, e sembrava che non si rendessero conto di ciò che li circondava più di quanto ne fossero consci gli alberi sotto cui erano radunati. Jan si chiese quali pensieri passassero nell’intricato reticolo di cui le loro menti erano, ora, solo… ma era meglio dire «già»… una massa di fili pronti a essere tessuti nella trama di un immenso arazzo. Un arazzo che ricopriva innumerevoli mondi e razze e continuava a espandersi. L’evento si verificò con una rapidità che abbagliò la vista e stordì il cervello. Jan stava guardando una bellissima regione fertile, assolutamente normale: unica stranezza le innumerevoli figure immobili sparse, ma non a caso, in lungo e in largo. E l’istante dopo, tutti gli alberi e l’erba, tutte le creature viventi che avevano abitato quella terra, erano scomparsi, in un guizzo. Non restavano che i laghi placidi, i fiumi serpeggianti, le alture ondulate, spoglie ora del loro verde mantello… e le figure mute, indifferenti, che avevano operato la distruzione.
«Perché l’hanno fatto?» ansimò Jan.
«Forse la presenza di altre menti li ha disturbati… anche le menti embrionali di piante e animali. Secondo noi, un giorno potrebbero scoprire che anche il mondo materiale è altrettanto molesto. E allora nessuno può dire quello che potrebbe accadere. Ora voi capite perché ci siamo ritirati dopo aver compiuto il nostro dovere. Noi stiamo ancora cercando di studiarli, ma non entriamo più nelle loro terre e non vi mandiamo nemmeno i nostri strumenti. Tutto quello che osiamo fare è osservarli dallo spazio.»
«Tutto ciò è avvenuto molti anni fa» disse Jan. «Che cosa è successo in seguito?»
«Ben poco. Non si sono mai mossi in tutto questo tempo, e non si danno pensiero né del giorno né della notte, né dell’estate né dell’inverno. Sono ancora intenti a saggiare i loro poteri; dei fiumi hanno cambiato corso, per esempio, e ce n’è uno che risale verso la fonte. Ma non hanno fatto niente che sembri avere uno scopo.»
«E non si sono mai curati di voi?»
«Mai, sebbene ciò non sia affatto strano. L’entità di cui sono parte sa tutto di noi. Sembra che non le importi che noi si cerchi di studiarla. Quand’essa vorrà che noi si parta o avrà un nuovo compito per noi, altrove, renderà manifesto nel modo più chiaro il suo volere. Fino a quel momento, resteremo qui, affinché i nostri scienziati possano raccogliere il maggior numero possibile di elementi.»
Questa dunque, pensò Jan con una rassegnazione che superava ogni tristezza, era la fine dell’uomo. Una fine che nessun profeta aveva mai previsto… una fine che respingeva ogni ottimismo e insieme ogni pessimismo. E capì finalmente quanto fosse stato vano, in ultima analisi, il sogno che lo aveva attirato verso le stelle.
Perché la strada verso le stelle si biforcava, e né l’una né l’altra delle due direzioni portava a una mèta che tenesse conto delle speranze o dei timori dell’uomo.
Alla fine d’una delle due strade c’erano i Superni. Essi avevano conservato la loro individualità, i loro «io» indipendenti; possedevano coscienza di sé e il pronome «io» aveva un significato preciso nella loro lingua. Avevano emozioni e sentimenti, alcuni dei quali, almeno, erano comuni con i mortali. Ma erano in trappola, sopraffatti dall’inimmaginabile complessità di una galassia di centomila milioni di soli, e di un cosmo composto di centomila milioni di galassie.
E alla fine dell’altra strada? C’era la Supermente, che stava all’uomo come probabilmente l’uomo stava all’ameba. Potenzialmente infinita, im-mortale, da quanto tempo andava assorbendo una specie dopo l’altra, a misura che si espandeva tra le stelle? Aveva essa pure desideri, aspirazioni e mète che intravedeva appena e avrebbe anche potuto non raggiungere mai?
Ora aveva attratto nella sua essenza tutto ciò che la razze umana aveva dato. Questa non era tragedia, ma compimento. I miliardi di effimere scintille di consapevolezza che erano state l’umanità non sarebbero più passate sciamando come lucciole sullo sfondo della notte. Ma non erano vissute del tutto invano. L’ultimo atto, sapeva Jan, doveva ancora venire. Poteva essere il giorno dopo, o secoli nel futuro. Nemmeno i Superni lo sapevano. Adesso lui comprendeva il loro scopo, ciò che essi avevano fatto in favore dell’umanità e perché essi indugiassero ancora sulla Terra. Verso di loro provava un sentimento di grande umiltà, oltre che una profonda ammirazione per la pazienza inesauribile che aveva permesso loro di attendere tutti quegli anni lontano dal loro pianeta. Jan non aveva mai capito bene la strana simbiosi che legava la Supermente e i suoi tributari… Secondo Rashaverak, non c’era mai stata una volta nella storia della sua razza che la Supermente non fosse stata presente, sebbene non si fosse servita di loro che quando essi avevano raggiunto una civiltà scientifica, potendo così muoversi per gli spazi cosmici a ogni suo volere.
«Ma perché ha bisogno di voi?» domandò Jan. «Con tutti i suoi fantastici poteri, potrebbe fare tutto ciò che vuole!»
«No» disse Rashaverak «essa pure ha i suoi limiti. In passato, sappiamo, ha tentato di agire direttamente sul cervello di altre razze, influenzando così il loro sviluppo culturale. Ma non c’è mai riuscita, perché l’abisso che la divide dagli altri è troppo grande. Noi siamo gli interpreti, i tutori. La vostra è la quinta razza alla cui apoteosi abbiamo assistito. E ogni volta impariamo qualche cosa di più.»
«È strano» disse Jan «che la Supermente abbia scelto voi per i suoi scopi, se è vero che non avete traccia di quei poteri paranormali che sono latenti nel genere umano. Come riesce a comunicare con voi e a rendervi noti i suoi desideri?»
«È una domanda alla quale non posso rispondere, così come non posso dirvi la ragione per cui devo tenervi nascosti i fatti. Un giorno, forse, conoscerete una parte della verità.»
Jan rifletté su questa risposta per qualche istante, ma sapeva che sarebbe stato inutile insistere nell’indagine.
«Ditemi un’altra cosa, allora, che non mi è stata mai spiegata» riprese.
«Quando la vostra razza venne per la prima volta sulla Terra, nella lontana preistoria della nostra civiltà, che cosa andò male? Perché eravate diventati per noi simbolo di male e di paura?»
Rashaverak sorrise. Non che vi riuscisse bene come Karellen, ma questa volta la sua fu un’imitazione ben riuscita.
«Nessuno mai l’ha indovinato, ma ora vedete bene perché non abbiamo mai potuto dirvelo. Soltanto un evento avrebbe potuto avere un simile effetto sull’umanità: e quell’evento non era all’alba della storia, ma alla sua fine ultima.»
«Che cosa volete dire?»
«Quando le nostre astronavi penetrarono nel vostro cielo, un secolo e mezzo fa, quello fu il primo incontro delle nostre due razze, sebbene vi avessimo studiato da lontano per secoli e millenni, naturalmente. Eppure voi ci avete temuti e riconosciuti, come sapevamo che avreste fatto. Non era precisamente un ricordo, il vostro; avevate già avuto la prova che il tempo è molto più complesso di quanto la vostra scienza abbia mai potuto prevedere. Vedete, quel ricordo non era del passato, ma del futuro: di quegli anni in cui la vostra razza avrebbe saputo che tutto era finito. Noi abbiamo fatto quello che abbiamo potuto, ma non era una conclusione facile da raggiungere. E poiché eravamo presenti, siamo stati identificati con la fine della vostra specie. Sì, anche se questa fine era lontana diecimila anni!
È stato come se un’eco invertita fosse rimbalzata lungo il circolo chiuso del tempo, dal futuro al passato. Chiamatela quindi, più che una reminiscenza, una premonizione.»
Era un concetto difficile da afferrare, e per un istante Jan lottò in silenzio contro la sua astrusità. Doveva esserci qualcosa di simile a una memoria della specie, memoria che in certo qual modo era indipendente dal tempo. Per essa, passato e avvenire erano una cosa sola; ecco perché migliaia di anni prima gli uomini avevano già avuto un’immagine deformata dei Superni, attraverso una nebbia di paura e di terrore.
«Ora capisco» disse l’ultimo uomo.
L’Ultimo Uomo! A Jan parve difficile pensare a se stesso in termine di ultimo individuo della sua specie. Quando si era lanciato nello spazio, aveva accettato la possibilità di un esilio eterno dalla razza umana, e la tristezza e lo sgomento non erano ancora scesi su di lui; a misura che gli anni fossero passati, il desiderio di vedere un altro essere umano avrebbe anche potuto sopraffarlo, ma per il momento la compagnia dei Superni gli impe-diva di sentire in pieno la sua solitudine. Esistevano ancora degli esseri umani sulla Terra, una decina di anni prima, ma non erano che superstiti degeneri, e Jan non aveva perduto niente non incontrandoli. Per motivi che i Superni non potevano spiegare, ma che Jan sospettava fossero soprattutto psicologici, non c’erano stati nuovi nati a sostituire quelli che erano scomparsi dalla scena. L’Homo Sapiens era estinto.
Quelli che non si erano uccisi avevano cercato l’oblio in attività ancora più febbrili, in sport violenti, micidiali, spesso indistinguibili da vere e proprie guerre su piccola scala. E a misura che la popolazione si riduceva, i superstiti già vecchi si erano congregati, esercito disfatto che stringeva le file per la sua ultima ritirata.
L’atto finale, prima che il sipario calasse per sempre, doveva essere stato illuminato da lampi di eroismo e di devozione, e oscurato da barbarie ed egoismi. Se si fosse concluso nella disperazione o nella rassegnazione, Jan non l’avrebbe saputo mai.
C’erano tante cose a cui pensare. La base dei Superni si trovava a un chilometro circa da una villa deserta, e Jan passò dei mesi ad arredarla con accessori presi dalla città più vicina, situata a una trentina di chilometri di distanza. C’era andato in volo con Rashaverak, la cui amicizia, Jan sospettava, non era del tutto disinteressata. Lo psicologo dei Superni teneva ancora a studiare gli ultimi esemplari di Homo Sapiens. La città doveva essere stata evacuata prima della fine, perché le case, e anche quasi tutti i servizi pubblici erano ancora in buono stato di funzionamento. Non ci sarebbe voluto molto a riattivare i generatori, e le strade sarebbero state ancora una volta sfolgoranti d’una illusione di vita. Jan si baloccò con l’idea, poi l’abbandonò, perché gli parve morbosa. Spesso se ne andava a fare lunghe passeggiate sulle colline, pensando a tutte le cose che erano successe nei pochi mesi in cui era rimasto assente dalla Terra. Non aveva mai pensato, nel salutare Sullivan, ottant’anni prima, che l’ultima generazione della specie umana stava già nascendo. Che giovane idiota era stato! Eppure non era affatto sicuro di essere pentito di ciò che aveva fatto: se fosse rimasto sulla Terra, sarebbe stato testimone di quegli anni conclusivi, su cui il tempo aveva già steso il suo velo. Invece, era saltato al disopra di loro, nel futuro, e aveva avuto le risposte a quesiti che nessun altro uomo era mai riuscito a risolvere. La sua curiosità era quasi soddisfatta, ma a volte si domandava che cosa aspettassero i Superni e che cosa sarebbe accaduto quando la loro pazienza sarebbe stata fi-nalmente ricompensata. Ma la maggior parte del suo tempo lo passava con la rassegnazione soddisfatta dell’uomo che è alla fine di una lunga vita attiva. Seduto alla tastiera, colmava l’aria con le melodie del suo amatissimo Bach. Forse ingannava se stesso, forse non era che un trucco misericordioso della mente, ma sembrava ora a Jan che questo fosse quanto aveva sempre sognato di fare. La sua segreta ambizione aveva finalmente ardito emergere nella luce piena della coscienza. Jan era sempre stato un buon pianista… e adesso era il migliore.