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Fu Rashaverak che portò a Jan la notizia, ma Jan l’aveva già indovinato. Nel cuore della notte un incubo l’aveva svegliato, e dopo, non era più riuscito a dormire. Non ricordava il sogno, cosa molto strana, perché riteneva che sempre si possa ricordare un sogno, se si cerca di farlo con molta tenacia appena svegli. Ma di quel sogno, tutto quello che riusciva a ricordare era di essere stato ancora bambino, su di una grande piana desolata, mentre una voce potente lo chiamava in una lingua sconosciuta. Il sogno l’aveva infastidito, e Jan si domandava se non fosse per caso un primo avvertimento che la solitudine cominciava a pesargli. Inquieto, uscì all’aperto e si mise a camminare sul prato incolto.
La luna piena inondava la scena d’una luce argentea così brillante che Jan poteva vederci come di giorno. L’immenso cilindro rilucente della nave di Karellen si levava oltre gli edifici della base Superna, torreggiando su di essi e riducendoli a proporzioni di strutture umane, Jan guardò l’astronave, cercando di ricordare le emozioni che un tempo essa aveva destato nel suo cuore. C’era stato un giorno in cui quell’astronave era stata una meta irraggiungibile, il simbolo di tutto quello che lui non sarebbe mai stato in grado di conseguire. E ora non gli diceva più niente. Adesso tutto era quieto e silenzioso. Certo i Superni dovevano svolgere le loro attività in quel momento come sempre, ma non se ne vedevano attorno. Era come se lui fosse solo sulla Terra, e in un certo senso era così. Levò gli occhi alla Luna, in cerca di qualche caratteristica ben nota, su cui riposare la mente.
Ecco gli antichi mari non obliati. Lui era stato per quarant’anni negli spazi cosmici, eppure non aveva mai posto piede su quelle piane silenti, pulvirulente, a meno di due secondi luce di distanza. Per un istante si di-vertì a cercare di scoprire il cratere di Tycho. Quando lo scoprì notò con stupore che quella chiazza luminosa era spostata dalla linea centrale del disco più di quanto avesse pensato. E fu allora che si accorse che l’oscuro del Mar delle Crisi mancava del tutto.
La faccia che il satellite volgeva ora alla Terra non era quella che aveva guardato sul mondo dall’alba della vita. La Luna aveva cominciato a girare su se stessa.
Ciò poteva significare soltanto una cosa. Sull’altro lato della Terra, in quel continente che avevano privato d’ogni vita a un tratto, essi venivano destandosi dal loro sonno estatico…
E come un bambino svegliandosi stira le braccia per salutare il giorno, anch’essi stavano sciogliendosi i muscoli e si preparavano a giocare con i loro ritrovati poteri…
«Avete indovinato esattamente» disse Rashaverak. «Non è più prudente restare, per noi. Può darsi che essi continuino a non accorgersi della nostra presenza, ma non possiamo correre rischi. Partiamo appena il nostro carico sarà ultimato… probabilmente fra due o tre ore.»
Jan alzò gli occhi al cielo, come timoroso che qualche nuovo prodigio stesse per esplodere incandescente. Ma tutto era sereno: la Luna era tramontata, e solo qualche nuvola viaggiava altissima sulle ali del vento di ponente.
«Non avrebbe poi una grande importanza, se si limitassero a gingillarsi con la Luna» aggiunse Rashaverak «ma se cominciassero a stuzzicare il Sole? Ci lasceremo dietro degli strumenti, naturalmente, per continuare a sapere che cosa accadrà.»
«Io rimango» disse Jan a un tratto. «Ho visto abbastanza dell’universo. Non c’è che una cosa di cui sia curioso adesso: la sorte del mio pianeta.»
Molto dolcemente, la Terra fu scossa da un lungo tremito, sotto i suoi piedi.
«Me lo aspettavo» osservò Jan. «Se alterano la rotazione lunare, la somma del moto angolare deve pur andare a finire in qualche punto: così che la Terra rallenta. Non so che cosa mi renda più perplesso: se il come riescano a farlo, o il perché lo facciano.»
«Stanno ancora giocando» disse Rashaverak. «Che logica può esserci nelle azioni di un bimbo? E sotto molti riguardi, l’entità che la vostra specie è diventata, è ancora bambina. Non è ancora pronta a unirsi con la Supermente. Ma lo sarà in breve, e allora avrete la Terra tutta per voi…»
Non completò la frase, ma Jan lo fece per lui.
«Se la Terra ancora esisterà, naturalmente.»
«Vi rendete conto del pericolo… e tuttavia restate?»
«Sì. Sono ormai tornato sul mio pianeta da cinque anni, o sono sei? Qualunque cosa accada, non avrò rimpianti.»
«Noi speravamo» cominciò Rashaverak lentamente «che desideraste rimanere. Ce qualcosa che potreste fare per noi…»
La scia luminescente della Superpropulsione rimpicciolì e scomparve in un punto indeterminato oltre l’orbita di Marte. Lungo quella rotta, pensò
Jan, lui solo aveva viaggiato di tutti i miliardi di esseri umani che erano vissuti e morti sulla Terra. E nessuno l’avrebbe percorsa mai più. Il mondo era suo. Tutto quello che gli occorreva, tutti i possessi materiali che uno avesse mai potuto sognare erano là, a portata di mano. Ma che cosa poteva importargliene? Non temeva né la desolazione del pianeta abbandonato, né le presenze che ancora indugiavano là, in quegli ultimi istanti, prima di muovere alla ricerca della loro occulta eredità. Nell’inconcepibile rigurgito di quella partenza, Jan non si aspettava che lui e i suoi problemi sarebbero sopravvissuti a lungo.
Bene, aveva fatto tutto quello che aveva desiderato fare, ora trascinare un’esistenza senza scopi su quel mondo deserto sarebbe stato un finale insopportabile. Avrebbe potuto partire coi Superni, ma a che scopo?
Perché lui sapeva, ed era l’unico ad averlo saputo, che Karellen non aveva mentito dicendo: «Le stelle non sono per l’uomo». Volse le spalle alla notte e si avviò verso l’ampia entrata della base dei Superni. Le dimensioni di quella base non gli facevano più nessun effetto: la grandezza in se stessa ormai non lo toccava più. Le luci ardevano, rosse, alimentate da energie che avrebbero potuto alimentarle ancora per intere epoche geologiche. Sull’uno o sull’altro lato si allineavano macchine i cui segreti lui non avrebbe mai saputo, abbandonate dai Superni nella loro fuga preordinata. Passando davanti alle macchine, Jan arrivò ai piedi dei vasti gradini, si pose a salirli a grandi passi e infine giunse nella sala comando. Lo spirito dei Superni vi aleggiava ancora, le loro macchine erano ancora vive, obbedivano alla volontà dei loro signori, ora tanto lontani. Che cosa avrebbe potuto aggiungere lui, si chiese Jan, ai dati che essi già stavano lanciando nello spazio?
Si issò sull’enorme sedile sistemandovisi il più comodamente possibile. Il microfono già funzionante aspettava lui, e doveva esserci l’equivalente di una telecamera già puntata, ma Jan non riuscì a individuarla. Oltre il ripiano zeppo di strumenti che per lui non avevano nessun significato, le grandi vetrate guardavano sulla notte piena di stelle che incorniciava una valle addormentata sotto un quarto di Luna e fiancheggiata dalle montagne. Un corso d’acqua attraversava la valle e scintillava qua e là dove la luce della Luna illuminava qualche mulinello attorno ai sassi. Uno scenario sereno e tranquillo. Forse era stato così alla nascita dell’uomo, ed era così adesso, alla sua morte.
Lontano, oltre chissà quanti milioni di chilometri di spazio, Karellen aspettava. Faceva uno strano effetto pensare che l’astronave dei Superni stava allontanandosi dalla Terra quasi alla stessa velocità con cui il suo segnale l’avrebbe inseguita. Quasi la stessa velocità… Sarebbe stato un lungo inseguimento, ma alla fine le sue parole avrebbero raggiunto il Supercontrollore, e in quel modo Jan avrebbe saldato il suo debito. Si domandò quanta parte della sua avventura era dovuta a un preciso piano di Karellen e quanto all’improvvisazione del Supercontrollore. Quasi un secolo prima, Karellen gli aveva permesso deliberatamente di fuggire sull’astronave perché potesse poi tornare a compiere la missione che adesso gli era stata affidata? L’ipotesi sembrava troppo fantastica. Ma ora Jan era contento che Karellen fosse implicato in un complotto grandioso e complesso. Pur servendo la Supermente, il Superno la studiava con tutti gli strumenti a sua disposizione. E Jan sospettava che il Supercontrollore non fosse animato soltanto da curiosità scientifica. Forse, i Superni sognavano di potere un giorno liberarsi da quel loro asservimento. Un giorno, quando avessero imparato dalla potenza che ora servivano tutto quello che c’era da imparare.
Che Jan potesse ora arricchire le cognizioni in loro possesso con ciò che stava facendo, sembrava incredibile. «Diteci quello che vedete» gli aveva detto Rashaverak. «Il quadro che raggiungerà i vostri occhi sarà duplicato dalle nostre telecamere. Ma il messaggio che raggiunge la vostra mente può essere diverso e rivelarci molte cose». Ebbene, Jan avrebbe fatto del suo meglio.
«Per il momento, niente da riferire» cominciò. «Pochi minuti fa ho visto la scia della vostra astronave sparire nel cielo. La Luna è ancora piena, e quasi metà della sua faccia conosciuta è ora scomparsa alla vista della Terra… ma suppongo che questo lo sappiate già.»
Jan fece una pausa, sentendosi un tantino ridicolo. C’era qualche cosa d’incongruo, perfino di lievemente assurdo, in quello che stava facendo. Stava vivendo il punto culminante di tutta la storia dell’umanità, e lui sembrava un radiocronista che stesse commentando una corsa di cavalli o un incontro di pugilato. Ma con una alzata di spalle, Jan scacciò questi pensieri. Probabilmente in tutti i momenti di grandezza non erano mancati attimi di sgomento o di sentimentalismo, l’unica differenza era che lui, adesso, non aveva nessuno con cui condividerli.
«Da un’ora a questa parte» riprese «ci sono state tre lievi scosse di terremoto. Il loro dominio della rotazione terrestre sul suo asse deve essere straordinario, ma non è perfetto… Vedete, Karellen, trovo molto difficile dirvi qualche cosa che i vostri strumenti non vi abbiano già rivelato. Sarebbe potuto essere di qualche aiuto, se mi aveste fatto sapere qualche cosa di ciò che può accadere e quanto avrei dovuto aspettare. Se non succede niente riprenderò a trasmettere fra sei ore, secondo i nostri accordi…
«Un momento! Devono essere rimasti ad aspettare la vostra partenza. Comincia ad accadere qualcosa. Le stelle si fanno più fioche. Sembra che un’immensa nuvola si stia dilatando, con estrema rapidità, per tutto il cielo. Ma non è realmente una nube: mi pare che abbia una specie di struttura… riesco a scorgere una vaga rete di righe e di fasce che continuano a cambiare posizione. È come se le stelle fossero impigliate in una ragnatela fantastica…
«Ora tutta la rete comincia a risplendere, a pulsare di luce come se fosse viva. E credo che lo sia. O è forse qualcosa addirittura al di sopra della vita, quanto lo è la vita rispetto al mondo inorganico?
«Il bagliore sembra spostarsi ora verso una parte del cielo… aspettate, mi sposto anch’io… all’altra vetrata. Sì, avrei dovuto immaginarlo; vedo un’immensa colonna di fuoco, a ponente. È lontanissima, dall’altra parte del mondo. So da dove sorge: essi si sono mossi, hanno cominciato il loro viaggio che li condurrà a essere parte della Supermente. Il loro tirocinio è finito: si lasciano alle spalle gli ultimi residui di materia. A mano a mano che il fuoco si leva sopra la Terra, la rete, vedo, si consolida, si precisa: in certi punti pare compatta come se di marmo, ma le stelle vi rifulgono sbiadite attraverso.
«Ora me ne rendo conto! Non è esattamente lo stesso, ma la… non so come chiamarla… la cosa che ho visto saettare nel cielo del vostro mondo, Karellen, era simile, molto simile a ciò che vedo adesso. Era una parte della Supermente? Sono convinto che mi abbiate nascosto la verità perché, non avendo preconcetti, fossi un osservatore più obiettivo. Mi piacerebbe sapere che cosa vi trasmettono adesso le vostre telecamere, per fare un confronto con quello che la mia mente immagina che io veda!
«Karellen, è in questo modo che la Supermente vi parla? Per mezzo di colori e di forme come queste? Ricordo lo schermo nella cabina di comando delle vostre astronavi, e i segni che lo percorrevano, comunicando con voi in un linguaggio visivo che solo i vostri occhi sapevano leggere.
«Ecco, ora forme e colori assomigliano in tutto e per tutto alle cortine fantastiche, agli arabeschi di un’aurora boreale, e tutto danza e guizza fra le stelle. Tutto il paesaggio è illuminato, è più fulgido della luce del giorno. Colori dalle sfumature rosse, oro, verdi, si susseguono per il cielo, come un’immensa ruota che sfumi nell’infinito… È uno spettacolo per il quale non ci sono parole, e non par bello che io sia il solo a goderlo, di tutti i miei simili… non avrei mai creduto che colori come questi…
«La tempesta si sta placando adesso, ma la grande rete c’è ancora. Credo che questa aurora sia stata soltanto un sottoprodotto delle sconosciute energie scaturite dai confini dello spazio… Un momento: osservo qualche altra cosa. Il mio peso diminuisce. Che cosa significa? Ho lasciato cadere una matita: cala lentamente al suolo. È successo qualcosa alla forza di gravità… c’è come un gran vento che si avvicina… Vedo gli alberi giù nella valle agitare pazzamente i rami. Naturalmente! L’atmosfera sfugge nello spazio. Pietre e pezzi di legno salgono lentamente verso il cielo, quasi che la Terra stessa volesse seguirli nella vastità dell’infinito. Vedo una gran nube di polvere, sollevata dalla sferza del vento. Diventa difficile vedere… forse tutto sarà più chiaro fra un istante, e io riuscirò a capire cosa sta succedendo.
«Sì, ora va meglio. Ogni cosa mobile è stata spazzata via… le nuvole di polvere sono scomparse. Mi domando quanto ancora resisterà questo edificio. E diventa sempre più difficile respirare… devo parlare più lentamente… Ricomincio a vedere con chiarezza. La grande colonna di fuoco è ancora là che arde, ma si va restringendo, si assottiglia, sembra una tromba d’aria che stia risalendo tra le nubi. E… ma questo è difficile a dirsi, ma un istante fa ho sentito un’immensa onda di commozione rovesciarsi su di me. Non era gioia, non dolore, ma un senso di compimento, di pienezza, di consumazione. È stato frutto dell’immaginazione? O giungeva veramente dall’esterno?
«Ora… e non può essere tutta immaginazione… ora il mondo sembra vuoto. Completamente, spaventosamente vuoto. L’impressione è quella di una radio che taccia di colpo mentre la si sta ascoltando. E il cielo è ancora limpido… la gran parete luminescente è scomparsa. Su quale mondo andrà, ora, Karellen? E voi sarete là a servirla ancora?
«Strano: intorno a me è tutto come prima, non so perché, ma avevo pensato che…»
Jan tacque. Per un istante cercò le parole adeguate, quindi chiuse gli occhi nello sforzo di dominarsi. Non c’era posto né per la paura né per altre cose del genere ora. Aveva un dovere da compiere, un dovere verso l’uomo e verso Karellen.
Lentamente, come chi si desta da un sogno, cominciò a parlare:
«Gli edifici intorno a me, il terreno, le montagne… tutto è come vetro… posso vedere attraverso di essi. La Terra si sta dissolvendo… il mio peso è quasi scomparso del tutto. Avevate ragione: hanno finito di baloccarsi coi loro giocattoli.
«È questione ormai di pochi secondi. Ecco, le montagne si dissolvono come boccoli di fumo. Addio, Karellen, Rashaverak… mi dispiace per voi. Sebbene io non possa comprenderlo, ho visto che cosa è diventata la mia specie. Tutto quello che abbiamo saputo creare è andato lassù fra le stelle. Forse era questo che le antiche religioni volevano dire, ma hanno fatto una gran confusione: hanno creduto che il genere umano fosse importante, mentre eravamo solo una razza fra… voi forse sapete quante? Eppure noi siamo diventati qualcosa che voi non potrete mai essere.
«Il fiume muore, laggiù. Nessun mutamento in cielo, però. Respiro a fatica. Che strano vedere la Luna che splende ancora là in alto. Sono contento che abbiamo lasciato la Luna, ma adesso sarà sola…
«La luce! Da sotto di me… nell’interno della Terra… c’è tanta luce che sale, che sfolgora attraverso le rocce e il terreno, tutto… si fa più lucente… più lucente… accecante…»
In un silenzioso scontro di luce, il cuore della Terra liberò le energie accumulate. Le onde gravitazionali attraversarono e riattraversarono il Sistema Solare, turbando appena, impercettibilmente, le orbite degli altri pianeti. Poi gli ultimi figli del Sole continuarono la corsa lungo i loro antichissimi sentieri, come i sugheri che galleggiano sulla superficie di un placido lago superano le lievi onde provocate dalla caduta di un sasso nell’acqua. Della Terra non restava più niente: essi ne avevano succhiato fino all’ultimo atomo di sostanza. La Terra li aveva nutriti per tutti i duri istanti della loro inconcepibile metamorfosi, così come il nutrimento racchiuso in un granellino di frumento alimenta la giovane pianta che si arrampica dal suolo verso il Sole.
A seimila milioni di chilometri oltre l’orbita di Plutone, Karellen sedeva davanti a uno schermo che si era spento di colpo. Il rapporto dalla Terra era finito. E la sua missione era compiuta. Lui era in viaggio verso il mondo da dove era partito tanto tempo prima. Il peso dei secoli gravava su di lui, insieme con una tristezza che nessuna logica poteva dissolvere. Karellen non piangeva sull’uomo: la sua tristezza era per la sua propria specie, bandita per sempre dalla grandezza di forze che essa non poteva superare. Perché, nonostante tutte le loro conquiste, tutto il loro dominio dell’universo fisico, i fratelli di Karellen non erano niente di più d’una tribù che avesse trascorso la sua intera esistenza su una landa deserta, polverosa. Le montagne erano lontanissime, quelle montagne che avevano potenza e bellezza, dove il tuono volava sopra i ghiacciai e l’aria era limpida e pura. Quando in basso il suolo era già avvolto nel buio, il Sole camminava ancora su quei picchi avvolgendoli di gloria. Ma essi potevano soltanto guardare, perché i Superni non avrebbero mai potuto scalare quelle vette. Eppure Karellen sapeva che la sua razza sarebbe rimasta fedele sino alla fine, che avrebbe atteso senza disperare che si compisse il suo destino. Avrebbero servito la Supermente perché non avevano scelta, ma anche nell’asservimento non avrebbero perso le loro anime. Il grande schermo di comando lampeggiò a un tratto d’una luce rosacupo: meccanicamente, Karellen lesse il messaggio contenuto nelle sue linee cangianti. L’astronave stava abbandonando le frontiere del Sistema Solare; le energie che alimentavano la Superpropulsione scemavano rapidamente, ma avevano fatto il loro dovere. Karellen alzò la mano, e il quadro cambiò ancora una volta. Una sola stella molto fulgida apparve nel centro dello schermo. Nessuno avrebbe potuto dire, a quella distanza, se quel Sole avesse mai avuto pianeti o che uno di essi era andato or ora perduto.
A lungo Karellen fissò l’immagine della stella lontanissima, e una infinità di ricordi percorse i meandri della sua grande mente. Poi salutò in silenzio gli uomini che aveva conosciuto, sia che lo avessero ostacolato sia che lo avessero aiutato nel suo compito.
Nessuno osò disturbarlo o interrompere i suoi pensieri, e alla fine Karellen voltò le spalle al Sole che rimpiccioliva in distanza.
FINE