124556.fb2 Lingegner Dolf - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 2

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— Uno Zeppelin riempito di idrogeno…? ridicolo! Un dirigibile simile sarebbe una bomba volante, pronta a esplodere alla minima scintilla — protestai.

— Non poi tanto ridicolo, papà — mi contraddisse mio figlio. — Scusami se entro nel tuo campo, ma in certi sviluppi industriali vi sono degli imperativi inderogabili. Se è impossibile trovare una strada sicura si sceglie per forza quella pericolosa. Devi ammettere, papà, che, agli inizi, le aeronavi commerciali costituivano un’avventura molto rischiosa. Negli anni «venti» si verificarono i terribili disastri dei dirigibili americani Roma Shenandoha che si spezzò in due, Akron e Macon, dell’inglese R-38 che si schiantò in cielo, del francese Dixmunde che scomparve nel Mediterraneo, dell’Italia di Mussolini, che si fracassò nel tentativo di raggiungere il Polo Nord, e del russo Maxim Gorky abbattuto da un aeroplano, con una perdita complessiva di non meno di trecentoquaranta persone nei nove incidenti. Se questi incidenti fossero stati seguiti dall’esplosione di un paio di Zeppelin a idrogeno, l’industria mondiale avrebbe forse abbandonato per sempre l’idea di costruire dirigibili di linea, passando invece alla creazione e allo sviluppo di grandi aerei più pesanti dell’aria, a motore.

Aeromobili mostruosi, sempre in pericolo di precipitare per un guasto al motore al posto dei bravi vecchi, inaffondabili Zeppelin?… Impossibile. Scossi la testa, ma senza convinzione, perché in fondo, ripensandoci, l’ipotesi di mio figlio non era poi tanto assurda.

In effetti quei nove disastri si erano realmente verificati e l’ago della bilancia si sarebbe spostato in favore degli aerei a motore per il trasporto di truppe e passeggeri, se non fosse stato per l’elio, la batteria T.S. Edison e il genio tedesco.

Per fortuna, su questi sconfortanti e inquietanti pensieri ebbe il sopravvento l’ammirazione per la profonda e ampia cultura di mio figlio. Quel ragazzo era una meraviglia, degno rampollo del vecchio ceppo… e forse anche migliore!

— E ora, Dolf — proseguì chiamandomi col diminutivo (come faceva a volte senza che io me ne avessi a male) — posso cambiare argomento? O, per essere più precisi, passare a un esempio completamente diverso dalla mia ipotesi sui momenti storici cruciali?

Annuii senza parlare, perché avevo la bocca piena di deliziosi «sauerbraten», piccoli gnocchi tedeschi, mentre le mie narici aspiravano l’aroma ineguagliabile del cavolo rosso in agrodolce. Ero talmente preso dalle spiegazioni di mio figlio che non m’ero nemmeno accorto quando ci avevano portato il piatto. Inghiottii, bevvi un sorso di ottimo Zinfaldel rosso, e dissi: — Va’ avanti, sono tutto orecchi.

— Si tratta delle conseguenze della guerra civile americana, papà — disse, cogliendomi di sorpresa. — Sai che nel decennio successivo a quel sanguinoso conflitto, ci fu il serio pericolo che la causa della libertà dei Negri, per cui era stata combattuta quella guerra, qualunque cosa si possa dire in contrario, venisse completamente annientata? Tutto il lavoro di Lincoln, di Thaddeus Stevens, di Charles Sumner, del Freedmen’s Bureau e della Union League Club distrutto. Immagina se perfino il Ku-Klux-Klan invece di essere represso una volta per tutte avesse potuto rinascere e manifestarsi liberamente? Sì, padre mio, le mie approfondite ricerche mi hanno convinto che tutto questo avrebbe potuto benissimo succedere, col risultato che i Negri sarebbero tornati schiavi o pressappoco, con la prospettiva di un’altra guerra o, nella migliore delle ipotesi, con un rinvio di decine d’anni della Ricostruzione. Non è difficile immaginare quali disastrosi effetti avrebbe avuto tutto questo sul carattere degli americani: la sincera fede nella libertà si sarebbe trasformata in ipocrisia, tanto per dirne una. Ho pubblicato una tesi su questo argomento nel «Journal of Civil War Studies».

Io mi limitai ad annuire. Questo argomento era terra incognita per me, tuttavia quel poco che sapevo di storia americana bastava a farmi capire che mio figlio aveva indubbiamente trovato un altro punto critico, e più che mai rimasi colpito dalla sua multiforme erudizione. Indubbiamente era un degno rappresentante della grande tradizione culturale tedesca, un pensatore profondo e di ampie vedute. Com’ero fortunato ad essere suo padre! Non per la prima volta, ma con lo stesso sincero fervore, ringraziai Dio e le Leggi di Natura, per avermi indotto a trasferire tanti anni prima la mia famiglia da Brunau, in Austria, dov’ero nato nel 1889, a Baden-Baden dove mio figlio era cresciuto nell’ambiente della grande, nuova università ai margini della Foresta Nera e a solo 150 chilometri dalla fabbrica di dirigibili del Conte Zeppelin, a Friedrichschafen, sul Lago di Costanza.

Alzai il mio bicchiere di «Kirschwasser» in un solenne e silenzioso brindisi, senza quasi rendermene conto stavamo finendo di pranzare, e ingollai d’un sorso il robusto, infocato, trasparente cherry brandy.

Chinandosi verso di me, mio figlio continuò: — E ora vorrei aggiungere un altro argomento alla mia teoria, che sono deciso a esporre in un libro intitolato «Se le cose si fossero volte al peggio» o «Se le cose fossero andate male», e che illustrerò con dozzine di esempi… Bene, questo nuovo argomento forse ti addolorerà, Dolf, voglio avvertirti prima.

— Non temere — gli risposi con indulgenza — parla pure.

— Va bene. Nel novembre del millenovecentodiciotto quando i britannici avevano sfondato la Linea Hindenburg e l’esausta armata germanica scavava trincee lungo il Reno come estrema sfida, proprio immediatamente prima che gli Alleati al comando del maresciallo Foch lanciassero l’ultima, decisiva offensiva che insanguinò la nostra patria fino a Berlino…

Avevo capito fin dalle prime parole il motivo del suo avvertimento. I ricordi mi balzarono vividi alla mente come i lampi abbaglianti del campo di battaglia col suo fragore assordante. La compagnia che io comandavo era stata una delle più disperatamente audaci di quelle ricordate da mio figlio, decisa a difendere fino alla morte l’ultima trincea. E poi Foch aveva sferrato l’offensiva, e noi ci eravamo ritirati, sempre più indietro, più indietro, schiacciati dal numero e dalla potenza del nemico coi suoi fucili, i suoi carri armati e le sue autoblindo, ma soprattutto la sua imponente flotta aerea al comando di De Haviland e Handley-Page, i bombardieri scortati dai ronzanti Spads e altri apparecchi, che avevano distrutto tutti i nostri Fokker e Pfalze e avevano provocato in Germania distruzioni molto maggiori di quante non ne avessero provocate in Inghilterra e in Francia i nostri Zeppelin. Indietro, indietro, sempre più indietro, combattendo, disperandoci, riaggruppandoci attraverso la terra germanica devastata, decimati ma decisi a resistere ancora, fin quando non giunse la fine tra le rovine di Berlino, e allora anche il più audace di noi fu costretto ad ammettere che eravamo sconfitti e ad accettare la resa incondizionata…

Questi brucianti ricordi mi si affollavano nella mente, mentre mio figlio proseguiva: — Nel momento cruciale, in quel novembre millenovecentodiciotto, si presentò la possibilità, i miei studi lo hanno dimostrato al di là di ogni dubbio, che i nemici ci offrissero un armistizio e noi lo accettassimo. Il presidente Wilson era incerto, i francesi stanchi, e così via. E se questo si fosse verificato, Dolf, ascoltami bene, la Germania sarebbe entrata nella decade del millenovecentoventi con uno stato d’animo completamente diverso. Convinta di esser stata vinta ma non battuta, avrebbe favorito la recrudescenza del militarismo pan-germanico. E l’umanismo scientifico tedesco non avrebbe riportato una vittoria netta e decisiva sulla Germania degli, sì, diciamolo pure, degli Unni.

«Quanto agli alleati, irritati per non aver raggiunto la vittoria completa che avevano avuto a portata di mano avrebbero finito col trattare la Germania molto meno generosamente di quanto non fecero dal momento che la loro sete di vendetta era stata placata dall’avanzata fino a Berlino. La Società delle Nazioni non sarebbe diventata quel solido strumento di pace che è oggi. Forse l’America l’avrebbe sconfessata e sicuramente la Germania l’avrebbe detestata. Le ferite non si sarebbero mai rimarginate perché, paradossalmente, non erano state abbastanza profonde. Ecco, Dolf, ho finito, e spero di non averti turbato troppo.

Io mi lasciai sfuggire un profondo respiro. Poi le rughe della mia fronte si spianarono e dissi, in tutta sincerità: — No, figliolo mio, anche se hai toccato nel vivo le mie vecchie ferite. Tuttavia sono convinto che la tua interpretazione sia valida. Voci di armistizio circolavano fra le truppe in quel nero autunno del millenovecentodiciotto. E so fin troppo bene che se avessimo accettato l’armistizio allora, gli ufficiali come me avrebbero pensato che i soldati tedeschi non erano stati realmente sconfitti, ma solo traditi dai capi e dai sovversivi rossi, e avremmo cominciato a cospirare in modo da poter riprendere la guerra in circostanze più favorevoli. Figlio mio, brindiamo alle tue brillanti intuizioni.

I nostri bicchieri si toccarono con un delicato tintinnio, e bevemmo le ultime gocce lievemente amarognole del «Kirschwasser». Io imburrai una fettina di «pumpernickel» — è buona cosa terminare il pasto con il pane — e la mordicchiai. Un senso di pace di grande soddisfazione mi invase. Era un momento aureo, uno di quei momenti che sarei stato felice durassero per sempre, mentre ripensavo alle parole di mio figlio e me ne compiacevo profondamente. Sì, quella pausa fu come una pepita d’oro nello scorrere incessante del tempo… la conversazione stimolante, gli ottimi cibi, le deliziose bevande, l’ambiente lussuoso…

In quel momento i miei occhi si posarono per caso sull’ebreo, la cui presenza strideva, mi spiace ammetterlo, nell’ambiente e col mio stato d’animo. Non so perché, mi fissò un attimo con odio, poi abbassò subito lo sguardo…

Tuttavia quel piccolo incidente, per quanto inquietante, non turbò la mia pace, che pensai di prolungare dicendo: — Caro figliolo, questo è il pranzo più eccitante anche se singolare che abbia mai gustato. Le tue ipotesi sui momenti cruciali della storia mi hanno aperto favolosi orizzonti in cui stento ancora a credere. Un mondo orribile di Zeppelin a idrogeno che si possono incendiare, di migliaia e migliaia di auto a benzina costruite da Ford al posto di quelle elettriche, di Negri americani tornati schiavi, di Madame Curie o Becquerel, senza la batteria T.S.Edison e senza T.S.Edison stesso, un mondo in cui gli scienziati tedeschi sono dei sinistri paria invece che tolleranti e umanitari leader del pensiero umano, un mondo in cui un vecchio Edison privo del valido aiuto della sua compagna, pensa, senza riuscire a crearla, a una potente batteria elettrica, un mondo in cui Woodrow Wilson non insiste perché la Germania sia ammessa alla Società delle Nazioni; un mondo pieno di odio che corre verso il baratro di una seconda guerra mondiale. Oh, è davvero un mondo incredibile, pure, grazie alle tue ipotesi, ho creduto potesse essere reale, tanto da temere che questo sia un sogno e quello il mondo vero.

Senza rendermene conto guardai l’ora, e mio figlio fece lo stesso: — Dolf! — esclamò alzandosi. — Spero che le mie stupide chiacchiere non ti abbiano fatto perdere…

Anch’io balzai in piedi…

— No, no, figliolo — mi sentii dire con voce un po’ incerta — però devo affrettarmi se non voglio perdere l’Ostwald. «Aufwiedersehen, mein Sohn»…

E mi lanciai di furia, come uno spettro che vola attraverso l’aria, lasciandomi alle spalle mio figlio. Nell’agitazione che mi aveva preso, mi pareva che il locale vibrasse, diventando a tratti più luminoso e più buio, come una lampadina dal sottile filamento di tungsteno che sta per scoppiare e polverizzarsi…

Nella mente sentivo una voce ripetere, con tono pacato ma che non lasciava speranza: «Le luci dell’Europa si stanno spegnendo. Non credo che verranno riaccese nel corso della mia generazione…».

A un tratto l’unica cosa importante al mondo, per me, fu di arrivare in tempo per potermi imbarcare sull’Ostwald. Questo, e solo questo, mi avrebbe dato la conferma che vivevo nel mondo reale, non in sogno. Avrei toccato l’Ostwald, non ne avrei solo parlato…

Mentre passavo correndo fra le statuette di bronzo, mi parve che si rattrappissero, che le facce si trasformassero in ghigni di vecchie streghe… quattro maligni coboldi che sogghignavano fissandomi, perché sapevano, sapevano…

Alle mie spalle, intanto, avevo scorto una figura alta e scheletrica vestita di nero…

Il corridoio che mi si apriva davanti era stranamente breve e finiva in un muro. La sala d’aspetto non c’era più…

Aprii la porta delle scale e salii a quattro a quattro i gradini come se avessi avuto vent’anni e non quarantotto…

Alla terza rampa mi arrischiai a voltarmi… una rampa più in basso c’era il mio sinistro inseguitore ebreo…

Spalancai la porta che dava accesso al centoduesimo piano. Qui almeno, pensai, c’era il cancello d’argento dell’ascensore della torre, con la scritta «Zum Zeppelin». Finalmente avrei raggiunto l’Ostwald.

Ma il cancello era un semplice cartoncino bianco, e la scritta, su una comune porta di metallo, diceva: «Fermo per manutenzione».

Mi gettai contro la porta tentando di aprirla, strizzando gli occhi perché non riuscivo a mettere a fuoco la vista. Quando finalmente riuscii a vedere, anche la porta e il cartello erano scomparsi e io stavo graffiando il muro.

Qualcuno mi toccò il braccio, e mi voltai di scatto.

— Scusatemi — disse premuroso il mio ebreo. — State forse poco bene? Posso fare qualcosa?

Scossi la testa, non so se per dire di no o per snebbiarmi. — Cerco l’Ostwald — balbettai con un filo di voce, ansimando per la salita. — Lo Zeppelin — spiegai, e vidi che non capiva.

Forse sbaglio, ma mi parve di scorgere un lampo di segreta gioia brillare in fondo ai suoi occhi, sebbene l’atteggiamento premuroso restasse immutato.

— Oh, il dirigibile — disse, con una voce che mi pareva troppo zuccherosa. — Volete dire l’«Hindenburg».

«Hindenburg»? ripetei fra me. Non esistevano Zeppelin con quel nome. O sì? Che mi fossi sbagliato? Avevo la mente annebbiata ma tentavo disperatamente di assicurarmi che ero io, io nel mio vero mondo… «Bin Adolf Hitler, Zeppelin Fachman»…

— L’«Hindenburg», in ogni caso, non attracca mai qui — stava dicendo l’ebreo — anche se una volta si parlò di fare dell’Empire State la stazione ormeggio dei dirigibili più grandi. Forse ne avete sentito parlare, e credevate… Ma è evidente che non sapete ancora della tragedia — continuò con una sollecitudine che mi riusciva insopportabile. — Spero che non cerchiate l’«Hindenburg» perché a bordo c’era qualche persona a voi cara. Fatevi forza. Poche ore fa, mentre stava per ormeggiarsi a Lakehurst, nel New Jersey, l’«Hindenburg» si è incendiato ed è andato distrutto in pochi secondi. Le vittime sono una quarantina. Fatevi forza — ripeté.

— Ma l’«Hindenburg», cioè l’Ostwald — obbiettai — non si può incendiare. È uno Zeppelin a elio.

— Oh, no — mi contraddisse l’ebreo. — Non sono uno scienziato ma so che l’«Hindenburg» era pieno di idrogeno… tipico della noncuranza dei tedeschi verso i rischi. Meno male comunque che non abbiamo venduto l’elio ai nazisti.

Lo fissai agitando a fatica la testa in un debole tentativo di diniego, ma lui stava già pensando ad altro, perché disse: — Scusatemi, ma mi pare di avervi sentito fare il nome di Adolf Hitler. Forse vi hanno già detto che gli somigliate. Se fossi in voi, mi taglierei i baffi.

Mi sentii invadere da una furia cieca per questa sciocca e inspiegabile osservazione che era stata pronunciata in tono inequivocabilmente offensivo. Poi vidi tutto rosso, l’ambiente che mi circondava fu scosso da violente vibrazioni e io mi sentii torcere nei precordi. Fu quel senso di torsione che si prova passando fuori del tempo da un universo a un altro parallelo. Divenni un altro uomo che si chiamava ancora Adolf Hitler, come il dittatore nazista, un tedesco americano nato a Chicago che non era mai stato in Germania e non parlava tedesco, che gli amici schernivano per la sua somiglianza con l’altro Hitler e che ripeteva cocciuto: «No, non voglio cambiar nome. Che se lo cambi quel bastardo del Fiihrer oltre Atlantico. Non avete mai sentito raccontare dell’inglese Winston Churchill che scrisse al suo omonimo americano autore de “La Crisi” e altri romanzi, proponendogli di cambiar nome per evitare equivoci, dato che anche l’inglese aveva scritto dei libri? Be’, l’americano gli rispose che l’idea non era malvagia, ma dal momento che lui era maggiore di tre anni, toccava all’inglese cambiare nome. Io la penso esattamente allo stesso modo nei confronti di quel figlio di buonadonna di Hitler.»

L’ebreo continuava a fissarmi con scherno. Stavo per dirgli quel che si meritava, quando provai per la seconda volta quell’irreale senso di transizione. La prima volta mi aveva portato da un universo all’altro, ma la seconda coinvolse anche il tempo: in un attimo solo ero invecchiato di 14 o 15 anni, passando dal 1937 (in questo caso ero nato nel 1889 e avevo 48 anni), al 1973 (ero nato invece nel 1910 e avevo 63 anni). Anche il mio nome era cambiato, ridiventando quello vero (ma lo era?), e avevo un figlio sposato titolare di una cattedra in una università di New York, esperto di storia sociale, elaboratore di brillanti teorie, ma non di quella relativa ai momenti cruciali della storia.

E l’ebreo, quell’uomo alto e scheletrico vestito di nero dai lineamenti semitici, era scomparso.

Portai istintivamente la mano al taschino della giacca, poi frugai all’interno. La tasca non aveva chiusura lampo e non conteneva documenti preziosi, ma solo un paio di vecchie buste su cui avevo scribacchiato qualcosa a matita.

Non ricordo come uscii dall’Empire State Building. Probabilmente presi l’ascensore. Di quei momenti riesco solo a ricordare l’insistente immagine di King Kong che precipitava dalla torre come un gigantesco, grottesco, ma anche pietoso orsachiotto di pezza.

Ricordo che m’incamminai come in trance e vagai per ore lungo le vie di Manhattan impregnate di ossido di carbonio e gas cancerogeni, e quando finalmente tornai in me era il crepuscolo e stavo percorrendo Hudson Street, al limite settentrionale del Greenwich Village. Avevo lo sguardo fisso sulla sommità di un altissimo edificio grigio. Credo che fosse il World Trade Center, alto 450 metri. E poi mi trovai davanti la faccia sorridente di mio figlio, il professore.