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L’aereo, guidato dal raggio, scivolò giù attraverso l’aria tinta dai colori del tramonto, in direzione dell’aeroporto. Le torri illuminate di Quebec si stagliavano all’orizzonte.
«Suppongo che, fisicamente, debbano cambiare per forza. Mentalmente… Lei è uno psicologo, signor Talman. Come si sentirebbe, se…»
«Potrebbero esserci compensazioni».
Summers scoppiò a ridere. «Bell’eufemismo, questo. Compensazioni… diamine, l’immortalità è soltanto una di queste… compensazioni!»
«La considera una benedizione?» chiese Talman.
«Ma si, certamente. Rimarrò all’apice delle sue capacità per chissà quanto tempo. Non soffrirà di nessun deterioramento. I veleni della fatica eliminati automaticamente per irradiazione. Certo, le cellule del cervello non possono rinnovarsi allo stesso modo… diciamo… del tessuto muscolare; ma il cervello di Quent non può venir danneggiato in quella sua robusta custodia, fabbricata apposta. L’arteriosclerosi non rappresenta nessun problema per il tipo speciale di plasma che usiamo… non c’è calcio che si depositi sulle pareti interne delle arterie. La condizione fisica del suo cervello viene controllata in maniera perfetta, e automatica. Le uniche afflizioni di cui Quent potrà mai soffrire sono mentali».
«E la claustrofobia? No. Mi ha detto che possiede lenti con le funzioni degli occhi. Grazie a queste, deve possedere, automaticamente, una sensazione di spazio».
Summers disse: «Se dovesse notare qualche cambiamento — oltre alla normale evoluzione mentale di questi sette anni — m’interesserebbe molto. In quanto a me… be’, io sono cresciuto fra i transplant. Non sono conscio dei loro corpi meccanici intercambiabili più di quanto un medico non lo sia, quando pensa ad un amico come ad un fascio di muscoli, vasi sanguigni e nervi. È la facoltà raziocinante che conta, e quella non è. cambiata».
Talman fece, soprappensiero: «Lei è una specie di medico, per i transplant, in ogni caso. Un profano potrebbe avere un altro tipo di reazione. Specialmente se è abituato a vedere… un viso».
«Non sono mai stato conscio di quella mancanza».
«E Quent?»
Summers esitò. «No», disse infine, «sono sicuro di no. Si è adattato benissimo. Il riadattamento alla vita di un transplant dura un anno, e dopo tutto fila liscio come il velluto».
«Ho visto dei transplant al lavoro, su Venere, da lontano. Ma non se ne vedono molti fuori dalla Terra».
«Non abbiamo abbastanza tecnici addestrati. Letteralmente, ci vuole metà di una vita per addestrare un uomo a lavorare sui transplant. Bisogna essere ingegneri elettronici qualificati ancora prima di cominciare». Summers scoppiò a ridere. «Tuttavia le compagnie di assicurazione coprono molte delle spese iniziali».
Talman lo fissò perplesso: «Come mai?»
«Fanno polizze sui rischi da lavoro… l’immortalità. Lavorare nella ricerca atomica è pericoloso, amico mio!»
Uscirono dall’aereo, nell’aria fresca della notte. Mentre si avvicinavano a un tassì in attesa, Talman disse: «Siamo cresciuti insieme, Quentin ed io. Ma il suo incidente è accaduto due anni dopo da quando avevo lasciato la Terra, e non l’ho più rivisto da allora».
«Come transplant? Uhm… Certo, è un appellativo infelice, questo. Qualche idiota incompetente ci ha appiccicato quest’etichetta, mentre avrebbero dovuto essere gli esperti delle relazioni pubbliche a scovare un nome adatto. Per colmo di sfortuna, quell’appellativo ha fatto presa. Col tempo, speriamo di rendere popolari i… transplant. Ma non è ancora possibile. Siamo appena all’inizio. Ne abbiamo soltanto duecentotrenta, adesso. Quelli che hanno avuto successo».
«Molti fallimenti?»
«Non più adesso. Ma quando abbiamo cominciato… È una faccenda complicata, sa? Dalla prima trapanazione del cranio fino all’energizzazione finale e al ricondizionamento, è l’impresa tecnica più difficile, complessa, estenuante, che la mente umana abbia mai elaborato. Conciliare un meccanismo colloidale con una rete di collegamenti elettronici… ma il risultato ne vale la pena».
«Psicologicamente, vuol dire? Be’… Quentin potrà parlarle di questo aspetto. E in quanto all’aspetto tecnologico, lei non ne conosce neanche la metà. Nessuna macchina colloidale complessa come un cervello umano è stata mai costruita… finora. Non è una questione soltanto meccanica. È un miracolo vero e proprio, questa combinazione d’un tessuto vivente intelligente con dei congegni artificiali che rispondono alla perfezione».
«Ma avrà pur sempre dei limiti, quelli della macchina… e del cervello».
«Vedrà. Eccoci arrivati. Ceneremo con Quent…»
Talman sbarrò gli occhi. «Cenare?»
«Già». Gli occhi di Summers mostrarono un’espressione divertita. «No, non mangia trucioli d’acciaio. In effetti…»
Lo shock d’incontrare di nuovo Linda colse Talman di sorpresa. Non si era aspettato di vederla. Non adesso, in quelle condizioni così diverse. Ma lei non era cambiata granché, era sempre la stessa donna piena di calore, amichevole, proprio come la ricordava, anche se adesso era un po’ più vecchia, ma sempre molto graziosa, adorabile. Aveva sempre avuto fascino. Era snella e alta, la sua testa coronata da una bizzarra pettinatura spiraleggiante, color miele ambrato. I suoi occhi castani non avevano la tensione che Talman si era aspettato di trovarvi.
Le strinse una mano. «Non dirlo», esclamò. «So quanto tempo è passato».
«Non conteremo gli anni, Van». Alzò gli occhi a fissarlo, sorridendo. «Riprenderemo dal punto esatto dove c’eravamo interrotti. Con un drink, no?»
«Uno lo berrei volentieri», annuì Summers, «ma devo tornar subito a rapporto al quartier generale. Mi basterà parlare con Quentin solo per un minuto. Dov’è?»
«Là dentro». Linda gl’indicò una porta con un cenno del capo, e tornò a rivolgersi a Talman: «Così, sei stato su Venere? Ti sei sbiancato un bel po’, non c’è che dire. Raccontami com’è andata».
«Si». Prese lo shaker dalle mani di lei e, agitò con cura i Martini. Provava imbarazzo. Linda sollevò le sopracciglia.
«Sì, siamo ancora sposati Bart ed io. Sei sorpreso?»
«Un po’».
«È ancora Bart», lei spiegò, con calma. «Può anche non sembrarlo, sulle prime, ma è proprio l’uomo che ho sposato. Perciò puoi rilassarti, Van».
Verso i Martini. Senza guardarla, disse: «Fintanto che tu sei soddisfatta…»
«So cosa stai pensando. Che è come avere per marito una macchina. Sulle prime… be’, ho superato quella sensazione. Dopo un po’, ci siamo riusciti entrambi. Certo, sulle prime è stato necessario uno sforzo; immagino che anche tu dovrai farlo per adattarti, quando lo vedrai, all’inizio. Ma questo non è importante, te lo garantisco. Lui è… Bart». Spinse un terzo bicchiere verso Talman, e lui la guardò sorpreso.
«Non…»
Linda annui.
Cenarono insieme, tutti e tre. Talman scrutò il cilindro di settanta centimetri per settanta, davanti a lui, adagiato sul tavolo, e cercò di leggervi la personalità e l’intelligenza attraverso le sue doppie lenti. Non poté fare a meno d’immaginarsi Linda nelle vesti d’una sacerdotessa al servizio d’una qualche immagine di divinità aliena, e l’idea lo inquietò. Adesso Linda stava infilando forchettate di gamberetti in salsa in un piccolo scomparto metallico, tirandoli fuori col cucchiaio quando il segnalatore gliel’indicava.
Talman si era aspettato una voce piatta e senza toni, ma il sonovox dava profondità e timbro, tutte le volte che Quentin parlava.
«Quei gamberetti… puoi mangiarli senz’altro, Van. È soltanto l’abitudine che mi fa buttar fuori il cibo dopo averlo avuto per un po’ nell’apposito scomparto. Certo, l’assaggio… ma non ho saliva».
«L’as… l’assaggi».
Quentin scoppiò a ridere. «Senti, Van. Non cercar di fingere che tutto questo è per te del tutto naturale. Dovrai abituartici».
«A me ci è voluto parecchio tempo», interloquì Linda. «Ma dopo un po’ mi sono scoperta a pensare che era proprio il genere di sciocchezza che Bart aveva sempre avuto l’abitudine di fare. Ricordi quella volta che indossasti quell’armatura per la riunione del consiglio d’amministrazione a Chicago?»
«Be’, volevo dimostrare qualcosa», disse Quentin. «Mi sono dimenticato cos’era, ma… stavamo parlando del sapore. Posso gustare questi gamberetti, Van. Certe sfumature mi mancano, è vero. Le sensazioni più delicate per me sono perdute. Ma posso gustare qualcosa di più del dolce, dell’amaro, del salato e dell’acido. Le macchine erano in grado di assaporare diversi gusti già anni or sono».
«Ma non c’è digestione…»
«Ma neanche mal di pancia. Ciò che perdo in raffinatezza del gusto lo guadagno con la libertà dai disordini gastrointestinali».
«E neanche rutti più», commentò Linda. «Grazie a Dio».
«E posso anche parlare a bocca piena», aggiunse Quentin. «Ma non sono il cervello col corpo da supermacchina al quale tu stai pensando dentro di te, vecchio mio. Io non sputo fuori raggi della morte».