124951.fb2 Mimetizzazione - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 4

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«I sensi. O la mancanza di essi. Ho contribuito a mettere a punto un bel po’ di apparecchiature compensatorie. Leggo romanzi d’avventure, mi ubriaco di stimolazioni elettriche, e assaporo i cibi, anche se non posso mangiarli. Guardo i programmi televisivi. Cerco per quanto possibile di conservare l’equivalente di tutti i piaceri umani puramente sensori. Serve a creare un equilibrio che è senz’altro indispensabile».

«Parrebbe. Ma funziona?»

«Senti un po’. Possiedo occhi d’una straordinaria sensibilità anche alle minime sfumature cromatiche. Ho delle braccia accessorie che sono delicate al punto da consentirmi di manipolare oggetti di dimensioni microscopiche. Posso disegnare e… sotto pseudonimo, sono un vignettista molto popolare. Lo faccio come attività collaterale. Perché il mio vero lavoro è ancora la fisica. È tuttora un ottimo lavoro. Conosci la sensazione di puro piacere che provi quando hai risolto un problema, di geometria, elettronica o psicologia… un problema, insomma? Adesso risolvo problemi infinitamente più complicati, che oltre ai calcoli in sé esigono reazioni d’una frazione di secondo. Come ad esempio, manovrare da solo una nave spaziale. Altro brandy, per favore. Evapora troppo in fretta, al calore di questa stanza».

«Sei ancora Bart Quentin», dichiarò Talman, «ma sono più convinto di questo quando tengo gli occhi chiusi. Manovrare una nave spaziale…»

«Non ho perso niente di umano», insisté Quentin. «Le emozioni fondamentali non sono cambiate. Non… non è proprio piacevole, per me, che tu te ne stia lì a guardarmi con autentico orrore, ma me ne faccio una ragione. Siamo stati amici per molto tempo, Van. Potresti dimenticartene tu, per primo, e non io».

Talman avvertì all’improvviso una stretta allo stomaco. Ma, nonostante le parole di Quentin, era convinto di avere ormai trovato buona parte delle risposte alle domande per cui era venuto a Quebec. Diventare un transplant non conferiva nessun potere anormale… non c’erano funzioni telepatiche.

Ma c’erano altre domande da fare. Sì, certo.

Versò dell’altro brandy e sorrise al cilindro che luccicava sull’altro lato del tavolo, davanti a lui. Sentiva Linda cantare sommessa in cucina.

La nave spaziale non aveva nessun nome, e per due ragioni. Una, perché avrebbe fatto soltanto quest’unico viaggio a Callisto; l’altra era più strana. Sostanzialmente, non era una nave che trasportava un carico, ma il carico stesso era la nave.

Le centrali atomiche sono delle dinamo che, per quanto grosse, possono essere smontate e imballate pezzo su pezzo e distribuite su dei camion o dei vagoni ferroviari. Sono monoblocchi ciclopici, voluminosi e massicci. Ci vogliono due anni per costruire un generatore atomico, e poi dev’essere portato al punto critico sulla Terra; negli enormi impianti standardizzati di controllo che coprono sette contee della Pennsylvania. Il Dipartimento Pesi e Misure ed Energia possiede una sbarra di metallo in una bacheca di vetro a temperatura rigorosamente costante a Washington: è il metro-standard. Allo stesso modo, in Pennsylvania, c’è, protetto da eccezionali misure di sicurezza, l’unico generatore-standard d’energia atomica di tutto l’intero sistema solare.

Il combustibile nucleare doveva obbedire a un solo requisito: esser filtrato attraverso una griglia metallica dalle maglie del diametro d’un paio di centimetri: una misura arbitraria, che contribuiva, comunque, a dare un minimo di uniformità ai carburanti. Per il resto, qualunque sostanza andava bene per produrre energia atomica.

Poche persone, comunque, accettavano di lavorare con l’energia atomica, qualcosa di troppo violento e pericoloso. I tecnici vi lavoravano a rotazione, per turni brevissimi. E anche così, soltanto la garanzia dell’immortalità sotto forma di transplant impediva che le neurosi sfociassero in aperta pazzia.

La centrale destinata a Callisto era troppo grossa per essere caricata anche nelle navi più grandi di qualunque linea commerciale, ma doveva a tutti i costi esser portata a destinazione. Così, i tecnici avevano costruito una nave intorno alla centrale. Non era proprio un lavoro raffazzonato alla bell’e meglio, ma certo il risultato era insolito. Il profilo era parecchio diverso da quello di ogni altra nave, e ogni esigenza particolare — e se ne erano presentate molte — era stata affrontata e risolta con parecchia ingegnosità, magari in modo tutt’altro che ortodosso. Dal momento che il completo controllo sarebbe stato affidato al transplant Quentin, non si era posta granché cura per gli alloggi del piccolo equipaggio di emergenza. Questi uomini non avrebbero affatto dovuto aggirarsi per l’intera nave, a meno che un guasto non l’avesse reso necessario, e un guasto era quasi impossibile. In pratica il vascello era un’unica entità vivente… ma non del tutto.

Il transplant aveva ogni tipo d’estensioni, collegate ad ogni singolo apparato della grande nave, nelle sue diverse sezioni, per tutte le più svariate funzioni. Gli erano stati staccati tutti gli apparati sensori, tranne la vista e l’udito, poiché Quentin, in quel viaggio, sarebbe stato soltanto il controllo propulsivo della nave… una sorta di superpilota per una nave d’eccezione. Il cilindro col cervello fu portato a bordo da Summers il quale lo inserì… da qualche parte! Quando ebbe finito di collegarlo, la costruzione della nave poté dirsi conclusa.

La nave decollò a mezzanotte in punto per Callisto.

A un terzo del percorso verso l’orbita di Marte, sei uomini in tuta spaziale sbucarono in una grande sala che sembrava uscita dall’incubo di un tecnico.

Da un altoparlante alla parete la voce di Quentin chiese: «Cosa stai facendo qui, Van?»

«Oh, bene», disse Brown. «Ci siamo. E adesso facciamo in fretta. Cunningham, tu individua i collegamenti. Dalquist, tienti pronto con la pistola».

«Cosa devo cercare?» domandò il gigante biondo.

Brown lanciò un’occhiata a Talman: «Sei certo che non sia in grado di muoversi?»

«Ne sono certo», confermò Talman, muovendo gli occhi nervosamente. Si sentiva nudo, esposto com’era allo sguardo di Quentin, e questo non gli piaceva.

Cunningham, scarno, rugoso, disse, accigliandosi: «L’unica mobilità è nella propulsione stessa. Ne ero convinto ancora prima che Talman controllasse. Quando un transplant viene innestato per un lavoro, i suoi utensili sono unicamente quelli per il lavoro che deve compiere».

«Bene. Non perdete tempo in chiacchiere. Interrompete il circuito».

Cunningham aguzzò gli occhi attraverso il visore del casco. «Un momento. Questa non è l’attrezzatura standardizzata. È sperimentale… diversa. Devo prima rintracciare… uhm».

Talman, furtivamente, stava cercando d’individuare le lenti dell’organo della vista del transplant, ma non ci riuscì. Sapeva che in qualche punto di quel labirinto di cavi, tubi, griglie, magneti, valvole e ogni altro marchingegno messo su dai tecnici, Quentin teneva lo sguardo puntato su di lui. Anzi, non da un solo punto, ma da parecchi… Quentin doveva avere una visione d’assieme, con occhi distribuiti in modo strategico in tutta la sala.

Ed era davvero grande, quella sala dei controlli. La luce era d’un giallo fosco. Aveva l’aspetto d’una cattedrale aliena, torreggiante, così alta e spoglia, che finiva per ridurre le dimensioni dei sei uomini a quelle di sorci. Sotto i loro piedi, enormi, spoglie piastre metalliche ronzavano e vibravano; sopra di esse, grandi lampade fluorescenti irradiavano quella luce arcana. Sopra le loro teste, lungo le pareti, correva una lunga e stretta piattaforma metallica; alta sei metri da terra, era cinta da una bassa ringhiera. Due scalette ai lati opposti della sala consentivano di salirvi. Un globo azzurro era sospeso in alto, e l’aria, dal vago sentore di cloro, pulsava d’una grande, mormorante energia.

L’altoparlante disse ancora: «Questa è pirateria».

Brown replicò, in tono disinvolto: «La chiami pure così. E si metta tranquillo. Non le faremo del male. Potremo perfino rispedirla sulla Terra, se riusciremo a escogitare un modo sicuro per farlo».

Cunningham stava esaminando una griglia di lucite, stando bene attento a non toccarla. Quentin disse: «Non vale la pena dirottare questo cargo. Non sto trasportando radium, sapete».

«Mi serve una centrale atomica», replicò Brown, asciutto.

«Come avete fatto a salire a bordo?»

Brown sollevò una mano per asciugarsi il sudore dalla fronte, fece una smorfia e non rispose. «Trovato niente, ancora, Cunningham?»

«Dammi tempo. Sono soltanto un tecnico elettronico. Quest’impianto sembra fatto da un pazzo. Fern, viene qui a darmi una mano».

Talman sentì crescere il disagio. Si era accorto che Quentin, dopo il primo commento sorpreso, l’aveva ignorato… Un indefinibile, irrefrenabile impulso lo spinse ad alzare il capo e a fare il nome di Quentin.

«Dunque?» rispose Quentin. «Fai parte della banda?»

«Si».

«E laggiù, a Quebec, sei venuto a strapparmi informazioni. Ad accertarti che fossi innocuo».

Talman parlò, sforzandosi perché la sua voce non tremasse: «Dovevamo esserne certi».

«Capisco. Come avete fatto a salire a bordo? Il radar segnala subito qualunque massa in avvicinamento. Non avreste potuto abbordarmi nello spazio con la vostra nave».

«Non l’abbiamo fatto. Abbiamo eliminato l’equipaggio d’emergenza e ci siamo impadroniti delle loro tute».

«Eliminato?»

Talman girò gli occhi verso Brown. «Che altro potevamo fare? È un gioco troppo grosso, questo, per le mezze misure. Più tardi avrebbero costituito un pericolo per noi, al momento di dare praticamente inizio al nostro piano. Nessuno ne saprà mai niente, salvo noi. E tu».

Talman lanciò un’altra occhiata a Brown. «Quent, credo che farai meglio a passare dalla nostra parte».

L’altoparlante ignorò ogni minaccia implicita in quel suggerimento.

«Perché volete la centrale atomica?»

«Abbiamo scelto un asteroide», spiegò Talman, piegando di nuovo la testa all’indietro scrutando la grande cavità labirintica della nave, che pareva quasi ondeggiare tra foschi vapori velenosi. Si aspettava che Brown l’interrompesse, ma il grassone non parlò. Talman pensò che era stranamente difficile parlare in modo persuasivo con qualcuno di cui non si conosceva l’ubicazione. «L’unico guaio è che su un asteroide non c’è aria. Con la centrale atomica potremo produrcela da noi. E sarebbe un miracolo se qualcuno riuscisse a scoprire il nostro rifugio, nella Cintura degli Asteroidi».

«E poi, cosa? Pirateria?»

Talman non rispose. L’altoparlante disse pensieroso: «Sì, certo, potrebbe uscirne un bel racket. Per un po’, almeno. Quel tanto che basta a metter su un bel gruzzolo. Nessuno si aspetterà niente del genere… Sì, certo. Potreste ricavarne parecchio da questa vostra idea».

«Bene», fece Talman. «E se pensi questo, qual è il successivo passo, secondo logica?»

«Non quello che pensi tu. Non intendo stare al vostro gioco. Non tanto per ragioni morali, ma per motivi di autoconservazione. Per voi, sarei inutile. Soltanto in una civiltà ampia e complessa c’è bisogno di transplant. Per voi, sarei soltanto bagaglio superfluo».