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— Zurath.
— Testa.
Il Drac rise.
— Lode.
— Ah, ah, che ridere.
— Ah ah.
All’alba del secondo giorno facemmo rotolare la capsula al centro del piccolo altopiano, incastrandola fra due grossi massi, uno dei quali aveva una sporgenza che, nelle nostre speranze, doveva servire a trattenerla all’arrivo delle ondate. Tutto attorno disponemmo delle pietre piuttosto grosse come fondamenta, e riempimmo le fessure con pietre più piccole. Quando il nostro muro ebbe raggiunto l’altezza delle ginocchia, ci rendemmo conto che una costruzione fatta con quelle pietre lisce e tonde, senza malta, non poteva stare in piedi. Dopo qualche esperimento, scoprimmo un sistema per spaccare le pietre, in modo da avere dei lati piatti: prendevamo una pietra e la sbattevamo con violenza sopra un’altra. Facemmo a turni: uno spaccava pietre e l’altro costruiva. La pietra era una specie di vetro vulcanico, e facevamo anche dei turni per toglierci le schegge a vicenda. Ci vollero nove di quegli interminabili giorni per finire il muro. Le ondate ci vennero varie volte vicino, e una ci arrivò alle caviglie. Per sei di quei nove giorni piovve. La dotazione della capsula includeva un telo di plastica, e questo divenne il nostro tetto. Si riempiva al centro, così ci praticammo un buco, che ci fornì anche una riserva di acqua fresca. Se arrivava un’ondata di una certa entità, potevamo dire addio al nostro tetto; ma noi avevamo fiducia nel muro, che era spesso circa due metri alla base, e uno alla sommità.
Una volta finito, ci sedemmo all’interno e ammirammo la nostra opera per circa un’ora, finché non cominciammo a renderci conto che eravamo restati senza niente da fare. — E adesso Jerry?
— Ess?
— Adesso cosa facciamo?
— Adesso aspettare noi. — Il Drac alzò le spalle. — Cosa altro, ne?
Annuii. — Gavey. — Mi alzai e andai alla porta. Non avendo legname per fare una porta vera e propria, nel punto dove i due muri avrebbero dovuto incontrarsi, a uno avevamo fatto fare una curva, estendendolo per circa tre metri, parallelamente all’altro, con l’apertura dalla parte opposta rispetto ai venti prevalenti. I venti non avevano mai smesso di soffiare, ma la pioggia era cessata. Il nostro muro non era gran che da guardare, ma vederlo lì, nel bel mezzo di quell’isola deserta, mi faceva sentir bene. Come dice Shizumaat: La vita intelligente prende posizione contro l’universo. O almeno, era questo il senso che ero riuscito a ricavare dall’inglese pasticciato di Jerry. Presi una scheggia appuntita e feci un altro segno sulla roccia che mi serviva da calendario. Dieci segni in tutto e sotto il settimo una piccola X per indicare la grossa ondata che aveva sfiorato la cima dell’isola.
Gettai a terra la scheggia.
— Dannazione, odio questo posto!
— Ess? — Jerry sporse la testa dall’altra parte dell’apertura. — Parli chi, Davidge?
Gli lanciai un’occhiataccia. — A nessuno.
— Ess va «nessuno»?
— Nessuno. Niente.
— Ne gavey, Davidge.
Mi battei sul petto col dito. — Me! Parlo a me stesso! Questo lo gavey, faccia di rospo?
Jerry scosse la testa. — Davidge, ora dormo. Non parlare tanto a nessuno, ne? — Sparì dietro alla parete di roccia.
— Ma va a quel paese, figlio di… — Mi incamminai lungo il fianco della collina. Solo che tu una madre, a rigor di termini, non ce l’hai, faccia di rospo. E neanche un padre. «Se potessi scegliere, con chi ti piacerebbe fare naufragio su un’isola deserta?» Mi chiesi se qualcuno aveva mai scelto di finire in un angolo gelato dell’inferno, insieme a un ermafrodito.
Giunto a metà del pendio, seguii un sentiero che avevo segnato con delle rocce fino a una pozza formata dalle maree, e che avevo ribattezzato ranch delle lumache. Attorno alla pozza c’erano numerose rocce, e sotto di queste, nell’acqua bassa, vivevano i più grossi lumaconi marini che avessi mai visto. Avevo fatto la scoperta durante una pausa dei lavori e avevo chiamato Jerry.
Jerry aveva alzato le spalle. — E allora?
— Come allora? Senti, Jerry, le tue reazioni non dureranno in eterno. Cosa mangeremo quando saranno finite?
— Mangiare? — Jerry guardò i lumaconi che si contorcevano e fece una smorfia. — Ne, Davidge. Prima prendono noi. Cercano, trovano e prendono noi.
— E se non ci trovano?
Jerry fece un’altra smorfia, e si voltò per tornare al lavoro. — Acqua beviamo noi, fino quando trovano. — Aveva farfugliato qualcosa a proposito di escrementi di kiz e dei miei gusti, ed era sparito dalla vista.
Da allora, avevo rinforzato le pareti di roccia intorno alla pozza, sperando che la maggiore protezione avrebbe permesso un aumento della popolazione di molluschi. Guardai sotto parecchie rocce, ma non c’era stato alcun aumento apparente. Comunque, non avevo il coraggio di ingoiarne uno. Rimisi a posto la roccia, mi alzai e scrutai il mare. Anche se la cortina perenne di nubi nascondeva come sempre i raggi di Fyrine, non pioveva, e si era sollevata la solita nebbia. Dalla parte dov’ero approdato il mare si stendeva fino all’orizzonte. Fra le creste bianche delle onde, l’acqua era grigia come il cuore di uno strozzino. A circa cinque chilometri dall’isola si formavano delle lunghe ondate parallele. Il settore centrale avrebbe investito l’isola, mentre le altre proseguivano il loro cammino. Alla mia destra, sulla stessa linea delle ondate, potevo distinguere un’altra piccola isola, alla distanza di una decina di chilometri. Seguii con gli occhi la direzione di marcia delle ondate, e dove il grigio-bianco del mare avrebbe dovuto incontrare il grigio più chiaro del cielo, contro l’orizzonte, vidi una linea nera.
Più cercavo di ricostruire mentalmente le carte topografiche di Fyrine IV, più diventavano confuse. Anche Jerry non ricordava niente, o almeno non me lo voleva dire. E poi perché avremmo dovuto ricordarcele? La battaglia avveniva nello spazio, dove ognuna delle due parti cercava di impedire all’altra di stabilire un contingente orbitale. Nessuno aveva intenzione di mettere piede sul pianeta, e ancor meno di combatterci sopra. Comunque quello che vedevo era una massa di terra molto più grande della striscia di roccia e sabbia dove ci trovavamo.
Il problema era come arrivarci. Senza legname, fuoco, foglie, pelli di animale, io e Jerry eravamo in una condizione peggiore dei più arretrati selvaggi. L’unica cosa a nostra disposizione che potesse galleggiare era la nasesay, la capsula. E perché no? Il problema era convincere Jerry.
La sera, mentre il grigio si trasformava lentamente in nero, Jerry ed io ci sedemmo fuori dal muro, a mangiare le nostre razioni. Gli occhi gialli del Drac scrutarono la linea nera sull’orizzonte. Poi scosse la testa. — Ne, Davidge. Pericoloso è.
Mi infilai in bocca il resto della razione, e parlai masticando. — Più pericoloso che restare qui?
— Presto prendono noi, ne?
Lo fissai negli occhi. — Jerry, tu ci credi quanto me. — Mi chinai verso di lui. — Senti, le nostre possibilità di sopravvivenza saranno molto maggiori su una massa di terra più grande. Protezione dalle grandi ondate, forse cibo…
— Non forse, ne? — Jerry indicò il mare. — Come guidare nasesay, Davidge? Dentro, come guidare? Ess eh ondate oltre terra portano, gavey? Bresha. — Jerry batté assieme le mani. — Ess eh bresha su rocce, ne? Noi morti.
Mi grattai la testa. — Le ondate da qui vanno in quella direzione, e cosi pure il vento. Se la terra è grande abbastanza, non dovremo pilotare la capsula, gavey?
Jerry sbuffò: — Ne grande abbastanza; allora?
— Non ho detto che era una cosa sicura.
— Ess?
— Una cosa sicura, certa, gavey? — Jerry annuì. — E quanto a sfracellarci sulle rocce, probabilmente c’è una spiaggia come questa.
— Sicuro, ne?
Alzai le spalle. — No, non è sicuro, ma è sicuro stare qui? Non sappiamo quanto possono diventare grandi quelle ondate. Se ne arriva una e ci porta via dall’isola? Cosa facciamo allora?
Jerry mi guardò stringendo gli occhi. — Cosa la è, Davidge? Base Irkmaan, ne?
Mi misi a ridere. — Te l’ho detto che non abbiamo basi su Fyrine IV.
— Perché vuoi andare, allora.
— Te l’ho detto, Jerry. Penso che le nostre possibilità di sopravvivenza sarebbero migliori.
— Uhmmm. — Il Drac incrociò le braccia. — Viga, Davidge, Nasesay resta. Io so.
— Cosa sai?