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CAPITOLO 15

I

«Cosa?».

«Posso organizzare tutto. Posso farti un amsir… Scusami: un amsir e un bastone da lancio e un paio di dardi. Ho parecchie ottime riprese del territorio marziano, girate dai miei satelliti orbitali».

«Satelliti orbitali? Vuoi dire che hai occhi su Marte?».

«Certamente. Adesso non parliamo di accelerare qualcosa che l’uomo sta realizzando lassù. La nostra esplorazione spaziale è molto sofisticata di questi tempi, in confronto a quel che era quando la componente primaria del sistema era umanoide. Ma voglio dire che ho materiale base in abbondanza. Tu vai pure a caccia del tuo amsir. Ci saranno sfondi e illuminazione adeguati. E una perfetta riproduzione del terreno. Sono sicuro che potremo procurarti un grosso pubblico. Aspetta un momento che domando».

«Un gradimento altissimo», gli disse Comp, dopo un momento. «Hai più di quattrocentomila spettatori, il trentotto per cento del pubblico potenziale».

«Credo di non capire. Il trentotto per cento del pubblico per che cosa?».

«Il pubblico della tua attualità, amico. Senti, il numero degli spettatori e il numero degli abitanti del mondo sono teoricamente identici, giusto? In pratica, ci sono sempre alcuni individui che dormono e altri occupati in altro modo. Quindi non c’è mai stato un pubblico del cento per cento per un’attualità… Nella versione in diretta, almeno. Il primato è ottantatrè per cento o giù di lì, ma si trattava della competizione fra Melanie Altershot e Charles Dawn, molto, molto tempo fa. Bene, ho interpellato la popolazione per sapere se era interessata a una caccia all’amsir, e adesso stanno tutti aspettando… il trentotto per cento sta aspettando, e molti altri hanno detto che sono interessati a vederla in differita. Tutto sta a vedere se tu sei disposto. Ma ritengo doveroso informarti che non c’è stato un pubblico del trentotto per cento da moltissimo tempo».

«Capisci, non abbiamo a disposizione tutto il giorno», disse Donder.

«Bene, mi piacerebbe», disse Jackson. «Proprio qui, eh?». Oltre all’impazienza di Donder, aveva notato anche Vixen e Batten. Quei due, adesso, avevano una specie di gingillo volante.

Era di un color lavanda chiaro e traslucido. Caracollava avanti e indietro fra i due, che stavano a una certa distanza l’uno dall’altra, e se lo lanciavano. L’oggetto pareva tracciare motivi nell’aria, perché si lasciava dietro una lieve scia color lavanda che aleggiava nell’aria per un momento e poi si disintegrava in filamenti polverosi.

Avevano cominciato il gioco mentre Comp spiegava a Jackson cos’era un’attualità, e Jackson era impegnato ad ascoltare. Uno o due, nel gruppo, avevano smesso di guardare Jackson per seguire il volo. Avevano incominciato a disperdersi e ad avviarsi verso Batten e Vixen. «Sicuro», ripeté Jackson. «Procurami l’attrezzatura e un amsir, e ci sto».

«Bene!», dissero simultaneamente Durstine e Comp. Pall sorrise. Jackson ricambiò il sorriso. «So cos’è», disse lei. «Non avevi immaginato che qui avresti avuto la possibilità di fare qualcosa che doveva piacerti moltissimo».

«Pall, tesoro», disse Old, «una delle ragioni per cui voglio vederlo è che lo fanno in un posto dove la gente fa cose che non le piacciono».

Pall si coprì la bocca con le dita. «Oh, Jackson, scusami», disse.

II

In quel mondo, le ossa degli amsir erano fatte dagli insetti. Arrivarono sfrecciando sopra gli steli d’erba frusciante, in uno sciame assai più piccolo di quello che aveva smantellato Susiem: e ognuno portava una particella bianca. Ronzarono, si raggrupparono in una formazione efficiente, e in un attimo apparve il bastone da lancio. Quella che doveva essere l’impugnatura era debitamente modellata, come se fosse stata pazientemente raschiata con la sabbia; il cardine era ben sistemato, l’intaccatura per il dardo era debitamente incisa. Jackson lo prese e l’ammirò.

«Somiglia moltissimo al mio, Comp. Disponi di ottimi visori».

«E i dardi?».

Le aste corte, grossolanamente affusolate, erano state prodotte nello stesso modo del bastone da lancio. La punta venne formata dagli exterocettori da scavo che uscirono zampillando dal suolo e si raccolsero su ognuno dei dardi sostenuti dalle api, e si ritrassero lasciando punte di silicato fuse nelle coppe pronte a riceverle… e ognuna, sembrava a Jackson, era già appesantita dalla sua goccia sintetica di colla di amsir. Prese i dardi e li fece saltellare nel cavo della mano. Li rotolò tra le dita. «Ottimi», disse. «Ottimi, splendidi».

Salì il pendio della depressione e si guardò intorno. Il paesaggio davanti a lui era ondulato, deserto, non c’era traccia di Ahmuls o di altri. Ma c’erano molte api raccolte nell’aria, lassù.

«Guarda alla tua sinistra», disse Comp. «Sto cominciando a costruire il tuo amsir».

A circa settantacinque metri di distanza, gli exteroaffettori attaccarono l’erba. Scendevano sfrecciando per afferrare gli steli lanciati dai tagliatori al suolo. Li afferravano e li mettevano in posizione. Si muovevano con estrema rapidità, destrezza ed economia. Sembrava che l’erba si fosse liberata della sua docilità alla brezza e avesse deciso di piegarsi a modo suo. Si piegava in tutte le direzioni verso un centro comune, mentre gli exteroaffettori la prendevano: ma piegandosi si precipitava avanti, sradicata, e quando arrivava al centro, saliva zampillando, sospinta da sprazzi di argento ronzante, e davanti agli occhi di Jackson le api intessevano le ossa di un amsir.

Dita e tarso, gamba e rotula, femore e anca, lo intessevano dall’interno all’esterno. Spina dorsale, clavicola, giunture delle spalle, braccia, gomiti, avambracci, mani… Jackson vide il mignolo estendersi come il germoglio di un arbusto magico. Collo e cranio si intrecciarono in una compattezza strutturale. Poi la carne: ciuffi fibrosi lottavano assestandosi sulle ossa verdi. Dopo un momento, tutto fu completamente collegato. Poi le api lo vestirono: fu adattata la pelle, e le bolle si gonfiarono. Becco e artigli, cresta e ali; le trine svolazzanti… pallide; e mentre si muoveva appena, fremendo, gli exteroaffettori si insinuarono agilmente tra le fibre per dargli vita, schiarendolo.

Un esercito di scavatori si precipitò di corsa, e fuse i frammenti scintillanti del giavellotto. Lo gettarono in alto: un lancio basso, ma l’ala ondeggiò, mentre la mano destra s’abbassava di scatto per afferrarlo: con gli occhi scavati, si raddrizzò per girare la testa e guardare Jackson.

«Comp, il tuo nome è miracolo», disse Jackson.

«Il mio nome è Comp».

Jackson aprì il Velcro della tuta e se la sfilò. Immediatamente gli exteroaffettori si affollarono attorno a lui. Rabbrividì, quando gli si posarono su tutto il corpo. Ma era un tocco delicato: e sparirono di nuovo in un batter d’occhio. «Lozione solare», spiegò Comp.

«Oh. Già, è logico».

Si guardò intorno per vedere come la prendevano gli altri. Ma non ce n’era nessuno, vicino a lui. Erano tutti giù, nella depressione, seduti o sdraiati graziosamente, ognuno con un exteroaffettore su ciascun occhio, su ogni orecchio, su ogni mano. Una piccola fila, come una cintura di minuscole gemme, era posata su ogni stomaco, appena al di sotto dell’ombelico. Jackson guardò l’amsir d’erba ritto e vigile al centro delle stoppie. Jackson raccattò il bastone da lancio e i due dardi. La tuta era disintegrata.

«Sono pronto, quando vuoi, amico», gridò all’amsir.

«Pronto», gli disse Comp all’orecchio, e si ritirò.

III

L’amsir agitò la mano, brandendo il giavellotto verso di lui. Jackson mosse qualche passo, rapidamente: correre sull’erba era diverso, ma ricordava. Il ricordo gli diede i piedi dell’Ohio anziché i piedi della Spina: ma almeno glieli diede. Provò qualche lancio a vuoto con il bastone, si piazzò il dardo di riserva sotto l’ascella, e scattò.

Si comportava nell’unico modo possibile: come se lui e l’amsir avessero aggirato una duna nello stesso momento e si fossero visti da lontano. Corse via, diagonalmente, giù per il pendio, accelerando, pronto a buttarsi e a rotolare giù se l’uccellaccio avesse lanciato il giavellotto.

L’amsir si stava voltando. Mille o diecimila exteroaffettori spostarono il suo peso, gli alzarono le braccia, gli inarcarono i fianchi, alzarono la gamba. Si inclinò in avanti, piantò la gamba, alzò l’altra, e prese a correre come il vento, con le trine che svolazzavano, le ali spiegate. Corse attraverso il pendio, diagonalmente, allontanandosi da lui, tagliandogli la strada, mettendolo in una posizione in cui avrebbe dovuto lanciare nella direzione opposta a quella in cui stava correndo.

Merda!, pensò Jackson. Avevo dimenticato quanto sono furbi. Girò la testa per guardare indietro. I grandi occhi scuri e vuoti lo guardavano lungo l’ala. Jackson tese in avanti le gambe e puntò i piedi. Stava per arrestarsi slittando. L’amsir sogghignò, spiegò le ali e restò sospeso, immobile nell’aria, con le gambe staccate dal suolo. Piegò le ginocchia; un’ala si abbassò, l’altra si alzò. Si posò, girò su se stesso come su un perno, con gli artigli affondati nell’erba ruvida, il giavellotto brandito. Le gambe cominciarono un movimento a forbice. Venne avanti correndo come uno struzzo, diretto verso Jackson, divorando la distanza, sicuro di poter schivare ogni colpo.

Per acquistare lo slancio necessario per centrarlo con un dardo, Jackson avrebbe dovuto corrergli incontro, adesso. Se fosse corso a lato, l’amsir avrebbe potuto prenderlo perfettamente di mira. E lui, al massimo, avrebbe potuto tentare un colpo obliquo. Se fosse fuggito via, l’amsir l’avrebbe rincorso e abbattuto.

Oh, cribbio, pensò Jackson. E va bene, proviamo questo. Avanzò di tre passi, caricando il bastone, e al quarto passo lanciò.

Gesù, il tiro non aveva forza. Era abbastanza diritto, ma non aveva carica: era come tirare direttamente verso l’alto. Oppure con un braccio malato.

Sono fatto di pappa, in questo posto!, pensò. Il dardo poteva raggiungere l’amsir, ma quello sarebbe stato stupido se si fosse preso il disturbo di cambiare passo per schivarlo. Il dardo non gli avrebbe trapassato la pelle: sarebbe rimasto impigliato nelle trine. E anche se gli si fosse piantato nella carne, non avrebbe avuto la forza necessaria per bloccarlo.

Il dardo raggiunse l’amsir, che barcollò goffamente per evitarlo. Ma aveva sbagliato i calcoli. Gli corse incontro. Il dardo lo colpì al petto, in basso a sinistra, e parve penetrare, assurdamente. Penetrò fino all’estremità, con un suono di fibre sconvolte. L’amsir perse l’equilibrio. Allargò le ali per riprenderlo e lasciò cadere il giavellotto.

«Il dardo! Lanciagli l’altro dardo!», disse Comp all’orecchio di Jackson.

«Giusto». L’amsir era completamente proteso, e non aveva trazione. Jackson lanciò il secondo dardo, e questa volta aveva ormai abbastanza pratica per dargli un vero slancio. Lo sentì su e giù per il braccio, attraverso la schiena, fino alla pianta del piede, come una corda d’elettricità. Scagliò quel dardo più forte di quanto avesse mai fatto in vita sua, e in compenso gli strappò metà delle sensazioni che avrebbe dovuto provare. Ma colpì l’amsir d’erba: il dardo si piantò sotto la clavicola, a destra, e uscì dalla parte opposta, proseguì per un paio di metri, scese, rimbalzò a terra lasciandosi dietro una scia d’erba strappata. Il braccio destro dell’amsir si piegò all’indietro, come se i blocchi dei cardini di un aereo non avessero funzionato. Si raggomitolò intorno alla superficie dell’ala sinistra e piombò prono sulla prateria. Si sentì il suono del collo che si spezzava.

«È morto», disse Jackson.

Comp disse: «Ascolta».

Il suono era incomprensibile. Sembrava quello che potresti udire se corressi svelto, trascinando una lancia a punta in giù, sulla sabbia. «Che cosa diavolo è?».

«Sono gli applausi, Jackson. Gli applausi del trentotto per cento della popolazione mondiale… Con il volume dell’audio al minimo, naturalmente».