125188.fb2 Nelle tue mani - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 1

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Simon Ames era vecchio, e il suo volto era amaro come poteva esserlo soltanto quello d’un idealista incallito. Per un attimo uno strano miscuglio d’emozioni l’attraversò mentre guardava gli operai intenti a versare cemento per riempire la piccola apertura nella struttura a forma di cupola, ma i suoi occhi tornarono subito a fissare il robot che si scorgeva all’interno.

«L’ultimo Ames, il Modello Dieci», disse con voce mesta a suo figlio. «E perfino in questo non ho potuto inserire una serie completa di bobine mnemoniche! Qui, ci sono soltanto le scienze fisiche; nell’altra forma maschile, le scienze biologiche, e quelle umanistiche nella versione femminile. Ho dovuto ripiegare sui libri e su una serie completa di strumenti e congegni, per coprire il resto. Siamo ormai così totalmente concentrati sui robot-soldati, che non c’è più tempo, e neanche mezzi, per qualcosa di più pacifico e costruttivo… Dan, non c’è proprio più nessun modo di evitare la guerra?»

Il giovane capitano delle Squadre Lanciamissili scrollò le spalle, mentre la sua bocca si storse in una smorfia d’amarezza: «Nessuno, papà. Hanno nutrito i popoli con le glorie della carneficina e del saccheggio per tanto tempo, che adesso devono a tutti i costi trovare un pretesto per usare le loro orde di guerrieri-robot».

«Quei folli, ciechi, idioti!» Il vecchio rabbrividì. «Dan, potranno sembrarti paure da vecchie comari, ma questa volta è proprio vero. A meno che noi non riusciamo in qualche modo a evitare questa guerra, o a vincerla in fretta, non rimarrà nessuno in grado di combatterne un’altra. Ho passato la mia vita sui robot, so quello che sono in grado di fare… e non dovrebbero mai essere stati costruiti per farlo! Credi proprio che sprecherei un patrimonio per questi depositi soltanto per un capriccio?»

«Non sto discutendo, papà. Dio mi è testimone che la penso come te!» Dan tenne gli occhi puntati sugli operai che versavano l’ultimo cemento, eliminando in tal modo ogni soluzione di continuità in quelle pareti spesse sei metri. «Be’, per lo meno, se qualcuno sopravviverà, avrai fatto tutto quello che potevi per loro. Adesso le cose sono nelle mani di Dio».

Simon Ames annui, ma non c’era nessuna soddisfazione sul suo viso quando tornò indietro con suo figlio. «Tutto quello che ho potuto… e mai abbastanza! E Dio? Non saprei neppure per che cosa pregare, perché sopravviva: la scienza, la vita, o la cultura». Le parole si spensero nel silenzio con un sospiro; i suoi occhi tornarono a fissare la galleria appena riempita di cemento.

Dietro di loro, la cupola lentamente sprofondò dentro al suolo, la superficie esterna spazzata dalla pioggia di Dio e dalle ventate di distruzione dell’uomo. La neve la copri, e poi si sciolse, e altre cose si accumularono, che nessun sole d’estate poteva disperdere, fino a quando il suolo raggiunse lo stesso livello della sua sommità. La foresta avanzò lenta e le stagioni scivolarono via nella loro immutabile alternanza, accumulando uno sopra l’altro i decenni e i secoli. All’interno, il lucido involucro di SAIO aspettava, immobile.

E alla fine il fulmine colpi, squarciando un albero, e penetrò dritto nella cupola, percorse un cavo, cortocircuitò un interruttore arrugginito, facendolo scattare, e infine si scaricò nel suolo sottostante.

Sopra il robot un cardinale cominciò a cantare, all’improvviso, e l’automa alzò lo sguardo, meravigliato. In qualche modo sulla sua faccia stolida si disegnò un’espressione di meraviglia. Si fermò ad ascoltare, ma ormai l’uccello era scappato via alla vista della sua figura che si muoveva pesantemente. Con un lieve sospiro, proseguì schiantando gli arbusti della foresta, fino a quando non si ritrovò vicino all’ingresso della caverna.

Il sole brillava vivido sopra la sua testa; si mise a studiarlo, pensieroso. Sapeva il suo nome, e anche la complessa catena di reazioni nucleari coinvolgenti il carbonio che si svolgeva dentro di esso. Ma non sapeva come lo sapeva, e perché.

Ancora per un attimo restò immobile, in silenzio, poi aprì la bocca per un lungo grido lamentoso: «Adamo! Adamo, vieni avanti!» Ma, adesso, in quel richiamo tante volte ripetuto s’infiltrava il dubbio, come pure nella posizione della sua testa, protesa in avanti ad aspettare una risposta. E ancora una volta l’unica risposta fu l’indistinto brusio della foresta.

«Dio? Oh, Dio, mi senti?»

Ma la risposta fu la stessa. Un topo di campagna sgusciò tra l’erba e un falco s’innalzò sopra la foresta. Il vento frusciava tra gli alberi, ma non vi fu nessun segno del Creatore. Lasciando indugiare a lungo lo sguardo dietro di sé, tornò lentamente alla galleria che aveva scavato e, spingendo e agitandosi, tornò giù dentro alla sua caverna.

L’unica lampadina funzionante illuminava la cavità. Lasciò vagare il suo sguardo, dalla frastagliata spaccatura che attraversava l’intera parete fino al punto in cui qualche antica esplosione aveva scagliato grossi frammenti di calcestruzzo. In mezzo, c’erano soltanto rovine e terriccio. Un tempo, a giudicare dai resti, buona parte dello spazio disponibile era stata piena di libri e film, ma adesso c’erano soltanto pezzi marciti di rilegature e inutili frammenti di celluloide, mescolati a schegge di vetro e sudiciume.

Soltanto sul lato dove lui era stato, immobile, per tanti secoli, il disastro non era completo. Là c’erano gli strumenti d’un piccolo laboratorio, molti ancora utilizzabili, e lui li nominò uno ad uno, dal proiettore con relativo schermo a un generatore atomico che ancora ronzava quietamente.

Qui, e nella sua mente, c’erano ordine e logica, e il mondo là fuori sembrava essersi anch’esso conformato a un modello comprensibile. Soltanto lui pareva esser privo di scopo. Com’era finito li? Come mai non aveva nessun ricordo di sé? Se non c’era nessuno scopo per lui, perché mai possedeva una mente funzionante? Ma tutte queste domande non gli fornivano alcuna risposta.

C’erano soltanto quelle enigmatiche parole nel frammento di celluloide conservato all’interno del proiettore. Ma quelle poche, fra esse, a lui comprensibili erano tutto ciò che aveva. Spense la luce e si chinò dietro il proiettore, lo accese e fissò attento lo schermo.

Brevi attimi d’un confuso turbinio oscuro, sullo schermo, poi punti e dischi luminosi che diventavano stelle e pianeti, creando un firmamento. «All’inizio», scandi una voce, «Dio creò il cielo e la terra». Il firmamento scomparve e sullo schermo fu sostituito dagli inizi della vita.

«Simbolismo?» mormorò il robot. L’astronomia e la geologia facevano parte delle sue conoscenze strettamente scientifiche, ma sentì ugualmente la mistica bellezza e l’intrinseca verità di quell’affermazione. Perfino le forme di vita, incontrate là fuori, concordavano nell’aspetto con quelle comparse sullo schermo.

Poi una voce stentorea, non dissimile dalla sua stessa potente voce, riempi l’altoparlante: «Ora scendiamo a creare l’uomo a nostra immagine!» E comparve una nube luminosa che simboleggiava Dio, il quale plasmava l’uomo dalla polvere del suolo e gli alitava dentro la vita… Adamo si sentiva solo, e dalla sua costola fu fatta Eva. Qui, nell’Eden, Eva fu tentata da una serpentina nebbia d’oscurità; e a sua volta tentò il debole Adamo, ma Dio scopri il loro peccato e li esiliò. Ma l’esilio finiva in una macchia confusa, là dove la pellicola era spezzata, e l’altoparlante tacque.

Il robot spense l’apparecchio e cercò di afferrare il significato di quanto aveva visto e udito. Doveva riguardare lui, dal momento che lui era il solo che si trovasse là a vederlo. Ma come poteva esser questo… a meno che lui non fosse uno di quei personaggi? Non Eva e neppure Satana; forse Adamo. Ma allora Dio avrebbe dovuto rispondergli. D’altro canto, lui poteva esser Dio… allora, forse, ciò che si vedeva nella registrazione non era stato ancora compiuto, Adamo non era stato ancora plasmato, per cui non poteva esserci nessuna risposta.

Annui lentamente fra sé. Sì, lui aveva riposato là dentro, con quel film destinato, appunto, a ricordargli il suo progetto, mentre il mondo si preparava per Adamo. E ora, di nuovo sveglio, doveva uscir fuori e creare l’uomo a sua immagine! Ma prima di tutto, doveva eliminare il pericolo contro il quale il film l’aveva messo sull’avviso.

Si raddrizzò, incamminandosi con passo deciso. S’infilò nella galleria, e con energiche spinte rifece la strada verso l’esterno. Fuori, il sole splendeva ancora, e lui s’incamminò verso il disco luminoso attraverso la foresta dell’Eden, così mal tenuta. Il suo passo si fece furtivo, mentre si muoveva in silenzio nel sottobosco, come un grande folletto metallico, gli occhi che dardeggiavano tutt’intorno e le mani pronte a scattare con la velocità del fulmine.

Finalmente lo vide, arrotolato accanto a una grande roccia. Era più piccolo di quanto si era aspettato, soltanto due metri di nera e scagliosa flessuosità, ma la forma e la lingua biforcuta erano inequivocabili. Gli fu addosso in un movimento che apparve come una macchia confusa, tanto fu veloce, e un grido di esultanza; e quando si allontanò, l’oggetto senza vita sulla roccia aveva smesso per sempre di corrompere anche la più ingenua delle Eve.

Il sole del mattino trovò il robot chino su quello che fino a poco prima era stato un maiale selvatico, e un coltello che si muoveva rapido e preciso nella sua mano. Con delicatezza il robot aprì il cuore del maiale, studiando il funzionamento delle valvole. La vita, decise, era estremamente complicata, e fu colto da un dubbio. Nel film gli era parso facile! E tornò a chiedersi come mai lui conoscesse così bene il complesso ordine del firmamento, ma nulla di quest’altra sua creazione.

Infine, scacciò il dubbio, seppellì i resti del maiale selvatico, e prese posto fra le argille multicolori che aveva raccolto, muovendo con destrezza le dita mentre le impastava, modellandole in forma d’ossa per lo scheletro (quelle bianche), aggiungendovi poi l’argilla rossa per il cuore. I nervi e i capillari sanguigni erano troppo al di là delle sue possibilità, ma non poteva farci niente; d’altra parte, se era stato lui a creare quel gigantesco sole dal niente, Adamo avrebbe certo potuto prender vita dalla sua grossolana scultura.

Il sole salì più in alto, e i particolari si moltiplicarono. L’ultimo degli organi interni era stato completato, compreso il grumo grigio che era il cervello. E il robot cominciò a stendere la rossa guaina dei muscoli. Qui dovette riflettere più a lungo per adattare la struttura muscolare del maiale a gambe e braccia assai più lunghi, e a un torso pure diverso; ma la sua mente affrontò con tenacia tutti i problemi matematici, e infine terminò l’opera.

Inconsciamente, si mise a cantare a bassa voce, imitando gli uccelli, mentre le sue dita modellavano altra argilla, più pallida, per nascondere i muscoli e dare la sua liscia simmetria al corpo. Questo colore aveva dovuto immaginarselo, anche se aveva dedotto che la tinta scura delle labbra, nel film, era il rosso vivo del sangue che scorreva sotto di esse.

La luce del crepuscolo lo trovò ritto in piedi, intento ad approvare il suo lavoro, annuendo col capo. Sì, era una copia fedele dell’Adamo del film che aspettava soltanto l’alito della vita; e questo doveva venire da lui, esser parte delle forze che scorrevano attraverso i suoi nervi e il cervello metallici.

Collegò, delicatamente, dei fili alla testa e ai piedi del corpo d’argilla; poi aprì la propria piastra toracica per collegare l’altro capo dei cavi ai morsetti del suo generatore, imponendo con la sua volontà alla corrente di scorrer fuori da lui, dentro la figura che giaceva ai suoi piedi. E nel medesimo istante un’ondata di debolezza l’investi, minacciando di oscurare la sua coscienza, ma non si rincrebbe per quella perdita di energia. Il vapore esalò dalla figura distesa, avvolgendola allo stesso modo in cui la nebbia aveva coperto Adamo nel film, poi, lentamente, si dissolse, e lui interruppe il collegamento, concedendosi un attimo per riprendersi, mentre la corrente tornava a percorrere il suo corpo al massimo d’energia. Staccò quindi i fili, facendo attenzione, e li tirò indietro.

«Adamo!» L’ordine echeggiò attraverso la foresta, vibrante d’impazienza. «Adamo, alzati. Io, il tuo creatore, te lo ordino!»

Ma la figura giacque immobile, e adesso vide che su di essa si erano formate delle lunghe, vistose crepe, mentre il nobile sorriso del suo volto si era deformato, diventando un ghigno inverecondo. Non c’era alcun segno di vita! Era morto, come il suolo dal quale veniva.

Si accucciò su di esso, gemendo, ondeggiando avanti e indietro, e le sue dita cercarono di chiudere quelle orribili crepe, riuscendo soltanto a creare un guasto più grande. Alla fine si alzò, e prese a calpestarlo finché non lo ridusse a una chiazza multicolore sulla terra. Continuò a calpestare e a gemere mentre distruggeva il simbolo del suo fallimento. La luna lo guardava beffarda con una faccia saggia e cinica, e lui le lanciò un ululato misto di rabbia e d’angoscia, al quale rispose un gufo solitario che si interrogava sulla propria identità.

Un Dio impotente, o un Adamo senza Dio! Le cose erano andate troppo bene nel film, dove Adamo si alzava dalla polvere del suolo…

Ma il film era simbolico, e lui l’aveva preso alla lettera! E naturalmente aveva fallito. I maiali non erano polvere, ma complesse strutture colloidali, gelatinose. E essi ne sapevano più di lui, poiché ne aveva visti di appena nati, a dimostrazione che in qualche modo erano senz’altro capaci di trasmettersi l’un l’altro l’alito della vita.

D’improvviso, drizzò le spalle e tornò a incamminarsi dentro la foresta. Adamo si sarebbe levato da terra per alleviare la sua solitudine. I maiali conoscevano il segreto, e lui poteva impararlo; ciò che adesso gli serviva erano altri maiali, e non gli sarebbe stato difficile procurarseli.

Ma due settimane più tardi era un robot preoccupato che sedeva osservando i suoi maiali che mangiavano, ingordi e felici, il loro cibo. La vita, invece che rivelarsi più semplice, si era fatta più complicata. Il fluoroscopio e il microscopio elettronico, da lui riparato, gli avevano fatto veder molto, ma c’era sempre qualcosa che mancava. La vita pareva aver inizio soltanto dalla vita; e perfino le due cellule di partenza erano vive in qualche maniera strana che differiva dalla sua. Certo, la vita di un dio poteva esser diversa da quella animale, ma…

Con una scrollata di spalle lasciò perdere la metafisica e tornò al laboratorio, scansando i maialetti che gli camminavano fiduciosi tra i piedi. Lentamente estrasse l’ultimo ovulo dal fluido nutriente in cui l’aveva conservato, lo mise su un vetrino e l’osservò col microscopio ottico. Con un sottile filo di platino depositò qualche spermatozoo vicino all’ovulo. Le sue dita operavano sicure, attraverso i centesimi di millimetro necessari a metterli in posizione.

Aveva sviluppato la sua tecnica dopo molti fallimenti; ora, uno degli spermatozoi trovò l’ovulo e lo penetrò. Mentre osservava, quell’unica cellula rotonda cominciò ad allungarsi, a dividersi nel mezzo. Sì, questo sarebbe stato un successo! Prima ci furono due, poi quattro cellule; le sue mani agirono fulmineamente e con precisione estrema, mentre, all’interno del campo visivo del microscopio, sostituiva al vetrino una membrana sottile, dotata di minuscoli tubi che portavano l’ossigeno, il nutrimento, e minuscole quantità di ormoni per la stimolazione e il controllo grazie ai quali sperava di modellare a suo piacimento il nuovo essere vivente.

Adesso c’erano otto cellule, e lui attese febbrilmente che si portassero sulla membrana, per proseguire il loro sviluppo. Ma non lo fecero. Mentre guardava, un’ulteriore divisione ebbe inizio, ma si arrestò a mezzo; ancora una volta le cellule erano morte. Tutto il suo studio, il suo lavoro, erano stati futili, vani, ancora una volta.

Rimase lì in silenzio, abbandonando ogni pretesa di divinità. La sua mente abdicò, lasciando che il sogno svanisse nel nulla; e non c’era niente che potesse prendere il suo posto, e dargli uno scopo e una ragione… soltanto il vuoto invece che un disegno preciso.

Scoraggiato, tolse le sbarre alla rozza gabbia e cominciò a spingere su per la galleria i maiali riluttanti fino alla foresta, fuori della caverna. Era un mattino fosco, il sole era nascosto, e s’intonava benissimo al suo umore quando l’ultimo maialetto scomparve tra la vegetazione lasciandolo doppiamente solo. Erano stati ben scarsi compagni, i maiali selvatici, ma avevano occupato il suo tempo, quelle piccole creature gli erano piaciute. Adesso, anche loro se n’erano andate.

Scoraggiato, lasciò cadere i suoi trecento chilogrammi sull’erba, fissando le nere nubi sopra di lui. Una formica si arrampicò incuriosita sopra il suo corpo, e lui la guardò senza interesse. Poi, anche la formica se ne andò.

«Adamo!» Il grido era giunto dalla foresta, squillante e irresistibile. «Adamo, vieni avanti!»

«È Dio!» Si rizzò di scatto, sulle sue membra meccaniche fattesi goffe e insicure. Nell’ora più buia del suo maggior bisogno, Dio era finalmente giunto! «Dio, eccomi!»

«Vieni avanti, Adamo! Adamo, vieni avanti…»

Con un grido selvaggio, il robot si precipitò come un lampo verso il bosco. Un pizzicore elettrico l’impregnava tutto. Non era più indesiderato, non era più un frammento smarrito nella tempesta. Dio era venuto a cercarlo. Continuò ad avanzare incespicando, inciampando sui rami, schiantando arbusti, incurante del fracasso che faceva; che Dio sapesse pure della sua ansia! Il richiamo giunse ancora una volta, adesso spostato su un lato, e lui deviò un poco la sua corsa, proseguendo coi suoi passi pesanti. «Eccomi, sto arrivando!»

Dio avrebbe alleviato le sue preoccupazioni, spiegandogli perché lui era così diverso dai maiali. Dio avrebbe saputo tutto questo. E poi ci sarebbe stata Eva… e non più solitudine! Avrebbe avuto qualche problema a tenerla lontana dall’albero della conoscenza, ma non gliene sarebbe importato!

Il richiamo lo raggiunse da una direzione ancora una volta diversa. Forse Dio non era soddisfatto di tutto il rumore che lui faceva. Il robot calmò il suo passo e venne avanti con reverenza. Intorno a lui gli uccelli cantavano, e adesso la chiamata gli giunse di nuovo, squillante e vicina. Si affrettò, sforzandosi di combinare la velocità col silenzio, malgrado il suo peso.