125188.fb2 Nelle tue mani - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 2

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Questa volta l’intervallo fu più lungo, ma quando la chiamata si ripeté, era quasi sopra la sua testa. Si curvò e letteralmente strisciò fino all’antica quercia dalla quale il richiamo era giunto, incerto e pieno di timore, ma colmo d’una ardente aspettativa.

«Vieni avanti, Adamo, Adamo!» Il suono era direttamente sopra di lui, ma Dio non si manifestò di persona in maniera visibile. Lentamente, il robot ruotò la testa guardando in alto, attraverso i rami dell’albero. Là c’era soltanto un uccello… e dal suo becco dischiuso giunse di nuovo il richiamo: «Adamo, Adamo!»

Un mimo poliglotta: l’aveva già sentito imitare altri uccelli… e adesso stava imitando la sua voce e le sue parole! E lui, aveva seguito il suo richiamo attraverso la foresta nella speranza d’incontrare Dio! Lanciò un grido stridulo in direzione dell’uccello, la sua rabbia era così acuta che la creatura alata si affrettò a volar via dal ramo per appollaiarsi su un altro albero e allungare la testa verso di lui. «Dio?» chiese l’uccello con la sua stessa voce, poi passò a imitare il rauco richiamo d’una ghiandaia.

Il robot si accasciò contro l’albero, rifiutandosi di consentire che la speranza svanisse del tutto. Sapeva così poco di Dio. Non era possibile che Lui avesse usato l’uccello per chiamarlo fin lì? Quanto meno, quell’albero non era molto dissimile da quello sotto il quale Dio aveva fatto addormentare Adamo prima di creare Eva.

Prima il sonno, poi la venuta di Dio! Si stiracchiò, ben deciso in questo suo tentativo d’imitare il torpore dei maiali, respingendo i tentativi sciocchi della sua mente d’indovinare dove potessero trovarsi le sue costole. Fu una cosa lenta e difficile, ma insisté, tenace, riuscendo a ipnotizzare se stesso fino a intorpidirsi mentalmente; a poco a poco i rumori della foresta divennero un rivolo sottile nella sua mente. Poi, anche questo si acquietò.

Non aveva nessun modo per sapere quanto tempo fosse durato, ma d’un tratto si rizzò a sedere, stordito, al rombo d’un tuono, mentre un torrente di pioggia sferzante gli scrosciava, accecante, sugli occhi. Per un attimo si guardò il fianco, ma non vide nessuna cicatrice.

Una folgore colpi, avvampando, un albero lì vicino, facendogli piovere addosso una cascata di schegge. Questo, certo, non si accordava a quanto aveva visto nel film! Si alzò in piedi, tentennando, scrollando via un po’ di pioggia dalla faccia, e s’incamminò con passo incerto verso la caverna. Ancora una volta il lampo colpi, più vicino; allora accelerò il passo, e cominciò a correre. Il vento fustigava gli alberi, spezzandone qualcuno con selvaggia ferocia, e ci volle tutta l’energia dei suoi magneti per riuscire ad avanzare a dieci miglia all’ora, invece delle sue normali cinquanta. Una raffica più violenta lo colse impreparato, mandandolo a sbattere contro una roccia, con clangore di metallo. Ma non poteva fargli del male, e lui proseguì barcollando fino a quando non raggiunse l’ingresso, protetto da un basso argine, della sua galleria fangosa.

Al sicuro, dentro la sua caverna, si asciugò con una lampada a raggi infrarossi, seduto accanto all’imboccatura della galleria per studiare la furia selvaggia della burrasca. Certo, tutto quel furore non trovava posto nell’Eden, dove la rugiada inumidiva le foglie, la sera, sotto carezzevoli brezze musicali!

Annuì lentamente, rilassando i muscoli che serravano la mascella. Quello non poteva essere l’Eden, ed era nell’Eden che Dio l’aspettava. Non aveva importanza quale maligno incantesimo Satana avesse usato su di lui, per attirarlo fin là, derubandolo dei ricordi. Tutto quello che importava era tornare, e non avrebbe dovuto esser difficile, dal momento che il Giardino si stendeva tra i fiumi. Stanotte, finita la tempesta, sarebbe tornato là fuori e domattina avrebbe seguito il ruscello in mezzo alla foresta finché non l’avesse condotto là, dove Dio l’aspettava.

Con la fede di un bimbo, si voltò e, continuando a raffigurarsi in mente la sua creazione e quella di Eva, cominciò a strappare i sottili pannelli di berillite dai tavoli e dagli armadi del laboratorio. Fuori, la tempesta continuava a imperversare furiosa, ma lui non l’udiva più. Domani si sarebbe messo in viaggio verso casa! Questa parola era nebulosa, nella sua mente, come lo erano tutte le parole più belle, ma aveva un buon suono, sgombro da ogni concetto di solitudine, e gli piaceva.

Seicento lunghi anni si erano trascinati con interminabile lentezza, e perfino il duro pavimento di cemento era butterato da tutti quei secoli di andirivieni e di attesa. Il tempo aveva eroso tutte le sue speranze, tutti i progetti, tutte le congetture, e ora c’era soltanto una disperazione sorda, atona, troppo vecchia per poter mai esplodere in accessi di rabbia o addirittura pazzia. Il robot-femmina si accasciò immota sullo scavatore atomico, i suoi occhi fissavano, spenti, la cupola, tra le file dei libri, le bobine dei film. Inutili, ingombranti macchine stavano, coperte di polvere, qua e là sul pavimento. Là giaceva anche un piccone, e i suoi occhi lo contemplarono svogliati; un tempo, quando il dizionario le aveva mostrato la sua immagine, rivelandole il suo corpo, aveva creduto che fosse la chiave per fuggire, ma adesso era soltanto un altro simbolo di futilità.

Si avvicinò ad esso senza uno scopo, lo afferrò per la parte metallica e colpi la parete col manico di legno; un’altra scheggia si staccò dal legno, un po’ di polvere vecchia di secoli s’innalzò turbinando e ricadde, ma ciò non offri nessuna nuova via d’uscita. Niente l’offriva. L’umanità, e gli altri robot, i suoi simili, dovevano esser morti molto tempo prima, lasciandola senza nessuna speranza di libertà, ma altresì senza nessun uso possibile di essa, se fosse riuscita a conquistarla.

Un tempo, aveva elaborato piani e progetti per ricostruire l’eredità dell’uomo, grazie alle sue vaste conoscenze di psicologia, ma adesso lo scrittoio coperto di appunti era soltanto una presa in giro; allungò stancamente una mano…

E s’immobilizzò, diventando una statua di metallo! Attraverso la parete di cemento un fioco segnale l’aveva raggiunta, animando la radio ricevente che faceva parte di lei!

Concentrando in un unico sforzo disperato tutta la sua energia, inviò a sua volta un segnale; ma non vi fu risposta. Restò immobile per parecchi minuti, mentre i segnali continuavano a giungerle dall’esterno, sempre più intensi, ma sempre vaghi e distaccati, del tutto inconsci della sua presenza. Lei si riscosse, concentrò l’attenzione… e come un lampo improvviso, i pensieri dell’altra mente robotica divennero più potenti, chiari e comprensibili: ma erano pensieri incoerenti, sconvolti, folli! E proprio mentre la loro demenza si palesava, cominciarono ad affievolirsi; un attimo dopo l’altro, finirono per svanire in distanza, e la lasciarono di nuovo sola e senza speranza!

Con uno sferragliante grido selvaggio, scagliò l’inutile piccone contro la parete, da cui rimbalzò con un’eco assordante. Il robot-femmina non era più senza uno scopo; i suoi occhi avevano osservato le schegge di cemento che si staccavano dal muro sotto l’urto della punta metallica acuminata, e fu rapida ad agguantare il piccone prima che cadesse a terra, e questa volta strinse il manico di legno tra le mani robuste. Con tutta la forza dei suoi magneti, sollevò il piccone e lo vibrò, mentre i suoi piedi scostavano a calci i frammenti che cadevano giù in una fitta pioggia, per la forza e la rapidità dei suoi colpi.

Dietro a quel muro che si stava sbriciolando in fretta c’era la libertà… e la follia! Certo non poteva esserci nessuna vita umana in un mondo che poteva far impazzire un robot, ma se ci fosse stata… Respinse quell’immagine e continuò ad aggredire con selvaggia violenza la massiccia parete.

Il sole illuminò la foresta intrisa d’acqua e sconvolta dalla tempesta, rivelando il robot-maschio che procedeva instancabile lungo la riva del ruscello. Malgrado il pesante fardello che trasportava, adesso le sue gambe si muovevano veloci, e quando arrivava su qualche tratto sabbioso o di terreno coperto soltanto d’erba, i suoi passi si allungavano ancora di più; aveva fretta: si era baloccato anche troppo a lungo con le illusioni, in quella terra ostile.

Il ruscello giunse alla confluenza con un corso d’acqua più grande; il robot si fermò, e lasciò cadere il suo ingombrante fardello, aprendolo a metà. Gli bastarono pochi minuti, e si trovò a spingere sull’acqua una barca confezionata a regola d’arte coi pannelli di berillite. Vi sali dentro. Il piccolo generatore che aveva estratto dal microscopio elettronico ronzò sommesso e un getto d’acqua cominciò a schizzar via d’ambo i lati della barca; un propulsore rozzo ma efficace, come testimoniava la scia ribollente alle sue spalle. Anche se la barca appariva lenta al confronto col suo rapido passo sulla terraferma, non ci sarebbero state deviazioni o barriere invalicabili a ostacolare il suo cammino.

Le ore passarono e le ombre ripresero ad allungarsi, ma il nuovo ruscello continuava ad allargarsi, e le sue speranze crebbero, anche se guardava le rive con indifferenza: l’Eden non era qui, avrebbe dovuto viaggiare ancora chissà quanto per… Ma a una nuova curva, si rizzò a sedere con un sobbalzo e subito puntò con la barca verso riva, avendo osservato qualcosa di totalmente diverso rispetto al resto del paesaggio. Mentre tirava a riva la barca e si avvicinava, vide una grande buca beante nel terreno, che scendeva almeno a trenta metri di profondità e aveva un quarto di miglio di diametro, circondata da quelle che, ovviamente, erano rovine artificiali. Spezzoni metallici contorti spuntavano tra ammassi di cemento in equilibrio precario, frammisti a manufatti danneggiati al punto d’essere irriconoscibili. Un palo piegato fin quasi a spezzarsi in due, lì vicino, recava ancora un cartello.

Il robot grattò via ruggine e sporcizia e riuscì a leggere le lettere sbiadite:

BENVENUTI A HOGANVILLE. Abitanti 1876

Non significava niente per lui, ma le rovine lo affascinavano. Quello doveva essere stato un vecchio espediente di Satana. Una simile bruttura non poteva essere altro.

Scuotendo la testa fece ritorno all’imbarcazione, e proseguì veloce la sua corsa sull’acqua mentre spuntavano le stelle. S’imbatté in altre rovine, più estese e più difficili da vedere, poiché qui la distruzione era stata più completa e la foresta ne aveva fittamente invaso la maggior parte. Ebbe la certezza che erano rovine soltanto per la presenza di quelle grandi buche dal profilo frastagliato dentro le quali non cresceva neppure un filo d’erba. Mentre la notte passava, trovò altre buche più piccole, come se fossero stati distrutti, uno ad uno, degli oggetti isolati. Alla fine, rinunciò a risolvere l’enigma; non era una cosa che lo riguardasse.

Quando tornò a spuntare il mattino, quelle vaste rovine erano lontane dietro a lui, il fiume era ampio e la corrente assai forte, e ciò gii suggerì che il viaggio dovesse ormai volgere alla fine. Poi, gli giunse il debole odore salmastro dell’oceano, e lui lanciò un grido di gioia, frugando qua e là nel paesaggio alla ricerca d’un conveniente punto di osservazione.

Davanti a lui una bassa collina interrompeva il terreno pianeggiante, coronata da un cocuzzolo verde; il robot si avviò verso di essa. La barca scricchiolò sulla ghiaia, e lui balzò a terra mettendosi a correre sull’erba in direzione della collina, salendo fino in cima al cocuzzolo verdeggiante, rivestito di rampicanti. Da quella piccola altura era visibile tutto l’ultimo tratto del corso del fiume, che percorreva dritto, senza diramazioni, le ultime venticinque miglia prima di raggiungere il mare. Non era difficile immaginare l’Eden là, in quella terra dall’aspetto così piacevole.

Ma adesso, mentre stava per scendere, si accorse che la gibbosità dove era salito non faceva parte del resto della collina, come sulle prime gli era parso. Aveva lo stesso colore verde-grigio delle pareti di cemento della caverna da cui era uscito come un pulcino dall’uovo.

Ma sì, qui doveva esserci un’altra caverna, un uovo non ancora schiuso ma che già si stava rompendo, come la crepa sulla superficie accanto a lui stava a testimoniare. Per un attimo l’immagine d’un uovo che si stava aprendo lo sbigottì, poi si riscosse e si mise a strappare i rampicanti che coprivano la spaccatura. Si aprì un passaggio e vi si calò dentro, allungando la mano verso una piccola piastra inchiodata a poca distanza dalla crepa. Riuscì facilmente a staccarla: era un utensile ben misero, ma se Eva era intrappolata là dentro, bisognosa di aiuto per rompere il guscio, lui gliel’avrebbe dato.

«A voi che riuscirete a sopravvivere all’olocausto, io, Simon Ames…» Suo malgrado si sentì attratto da quelle parole incise, il suo sguardo fu costretto ad abbassarsi e a fissarle. «… dedico questo. Non è facile entrare, ma non dovete aspettarvi una facile eredità. Apritevi la strada con la forza, prendete quello che c’è dentro, usatelo! A voi che ne avete bisogno e faticherete per averlo, ho lasciato tutto il sapere che era…»

Il sapere! Il sapere, proibito da Dio! Satana aveva posto sui suoi passi tutto il male simboleggiato dall’Albero del Sapere, nascosto lì in quel falso uovo, e lui c’era quasi cascato! Qualche minuto ancora… Rabbrividì e arretrò, ma dentro di lui l’ottimismo stava riprendendo vigore. Perché, se c"era l’albero, ciò significava che quello era davvero l’Eden, e poiché lui era stato messo sull’avviso dal segno di Dio, non aveva paura degli inganni di Satana, vivo o morto.

Con lunghi passi saltellanti discese la collina, dirigendosi verso le praterie e il bosco, lasciandosi alle spalle la barca, adesso inutile. Sarebbe entrato nell’Eden camminando coi propri piedi, così come Dio l’aveva creato!

Mezz’ora più tardi fischiettava tra sé tutto felice mentre passava accanto a campi lussureggianti, ricchi di vegetazione, lungo un piccolo sentiero che costeggiava il bosco. Qui c’erano ordine e logica, proprio come doveva essere. Quello era certamente l’Eden!

E a conferma, arrivò Eva! Stava arrivando dal lungo sentiero che lui stava percorrendo, i capelli al vento, e una veste sciolta che le modellava i fianchi e i seni: l’intera forma che la veste celava senza nasconderla era quella di una donna, inequivocabilmente donna, e bella. Si tirò indietro, nascondendosi alla vista di lei, all’improvviso spaurito e incerto, chiedendosi vagamente come avesse fatto ad arrivargli davanti. Poi gli fu accanto, e lui si mosse d’impulso. La sua voce fu un sussurro estatico:

«Eva!»

«Oh, Dan, Dan!» Fu uno strillo acuto che tagliò l’aria, e lei fuggi via, in preda al panico, nel folto del bosco. Lui scosse la testa sbalordito, mentre le sue gambe pomparono con più forza per inseguirla.

Le era quasi addosso quando vide il serpente, vivo e più forte di prima!

Ma non per molto! Mentre lei cacciava un breve rantolo, una delle sue braccia la sollevò, scostandola, mentre l’altra scattò all’infuori e fece schizzar via la testa dai denti venefici dal resto del corpo. La voce del robot fu di gentile rimprovero, quando tornò a metterla giù: «Non avresti dovuto fuggire dal serpente, Eva!»

«Dal… Ugh! Ma… Avresti potuto uccidermi, prima che lui mi avesse morso!» Il pallore terrorizzato stava svanendo dal suo viso, sostituito da un atteggiamento di sfida e di dubbio.

«Ucciderti?»

«Sei un robot! Dan!» I suoi richiami s’interruppero quando una figura nerboruta emerse dal sottobosco stringendo un’ascia in mano; uno splendido cane comparve subito dopo. «Dan, mi ha salvato la vita… ma è un robot!»

«Ho visto, Syl. Stai calma. Vieni qui accanto a me, se puoi. Bene, così! A volte hanno dei periodi di passività ho sentito dire. Shep!»

Il cane rispose con un sordo ringhio, ma i suoi occhi rimasero incollati sul robot. «Sì, Dan?»

«Vai a chiamare gli altri! Grida la parola "robot" e torna indietro. Su. vai!» Disse Dan al cane. Poi, rivolto al robot: «E tu… cosa vuoi?»

SA-10 replicò con un aspro grugnito, curvando le spalle. «Cose che non esistono! Compagnia, e la possibilità d’impiegare la mia forza e la scienza che conosco. Forse non dovrei voler questo, ma non importa. Lo voglio!»

«Uhmmm… Ci sono storie su robot amichevoli nascosti da qualche parte, pronti ad aiutarci, sì, le ho sentite. E abbiamo certamente bisogno d’aiuto. Qual è il tuo nome e da dove vieni?»

La voce del robot era intrisa d’amarezza quando indicò la direzione a monte del fiume. «Dal lato del sole. Finora sono riuscito soltanto a scoprire ciò che non sono!»

«Dunque, è così? Avevo intenzione di recarmi laggiù io stesso, una volta terminato d’insediare la colonia». Dan fece una pausa, studiando soprappensiero la figura metallica. «Durante gli anni dell’inferno abbiamo perduto i nostri libri, o almeno quasi tutti, e i sopravvissuti non erano esattamente dei tecnici. Così, pur cavandocela con le bestie, l’agricoltura, la medicina e cose del genere, per il resto siamo piuttosto primitivi. Se davvero conosci le scienze, perché non rimani con noi?»

Il robot aveva visto troppe speranze infrante, allo stesso modo del suo uomo d’argilla, per fidarsi del tutto di quella promessa d’uno scopo e di compagnia, ma la sua voce mostrò una traccia di commozione quando rispose: «Voi… voi mi volete?»

«Perché no? Sei un magazzino di sapere, Say-Ten, e noi…»

«Satana?»[1]