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Era meraviglioso sentire che c’era qualcuno che aveva bisogno di te, e ti voleva!
La primavera era tornata un’altra volta e Adamo sedeva sotto uno degli alberi in fiore, dando pigramente da mangiare a una nuova nidiata di maialetti, mentre le mani di Eva si muovevano rapide per completare quello che sarebbe stato il suo nuovo abito, copiato attentamente da quello di Dan.
Erano quasi pronti a ritornare al sud per mescolarsi tra gli uomini e assolvere la missione di ricondurre la razza alla sua eredità. Già la plastica manipolabile che lui aveva sintetizzato e lei modellato sui rispettivi corpi era diventata parte integrante di loro stessi, e i muscoli magnetici che lui vi aveva dissimulato non richiedevano più un impulso cosciente per esibire le loro emozioni con espressioni umane. Quando si alzò in piedi e si avvicinò a lei, avrebbe potuto benissimo essere soltanto un uomo dall’insolita bellezza.
«Sempre alla ricerca di Dio?» lei gli chiese, gaiamente. Ma non c’era nessuna preoccupazione dipinta sul suo volto. L’orgia metafisica era da tempo guarita.
Un sorriso pensoso si disegnò sul suo viso, mentre cominciava a infilarsi il nuovo abito. «Si trova ancora dove l’ho trovato io… Qualcosa dentro di noi che non ha bisogno d’essere cercato. No, Eva: stavo pensando al terzo robot, con la speranza che sia sopravvissuto. Anche se non abbiamo trovato alcuna traccia della sua cupola, là dove la tua documentazione l’indicava, sono ancora convinto che dovrebbe essere con noi».
«Forse lo é, in spirito, dal momento che tu insisti a dire che i robot hanno un’anima. Dov’è la tua fede, Adamo?»
Ma nella sua voce non c’era nessuna sfumatura di derisione verso di lui. Anima o no, il Dio di Adamo era stato molto buono con loro.
E lontano, verso sud, una figura invecchiata zoppicava sopra il pietrisco sparso su un breve pianoro davanti a un dirupo roccioso. Sotto le sue mani, la porta abilmente nascosta si spalancò, e lui la spinse verso l’interno, per poi chiuderla e sbarrarla dietro di sé; si avviò lungo una stretta galleria che terminava in una caverna rotonda. Erano passati anni da quando era stato là dentro l’ultima volta, ma quel luogo era ancora, per lui, la casa. Si sedette, cigolando, su una panca e cominciò a togliersi gli indumenti sbrindellati e macchiati dal viaggio. Come ultima cosa, si tirò via dalla testa una maschera e una parrucca grigia, rivelando così il corpo logoro e ammaccato del terzo robot.
Esalò un sospiro di stanchezza, guardando i pochi libri e i documenti stracciati che aveva salvato dalla rovinosa crescita delle stalattiti e delle stalagmiti all’interno della cavità, e l’interruttore corroso che l’umidità non prevista aveva cortocircuitato settecento anni prima. E infine il suo sguardo si appuntò sul suo tesoro più grande. Era sbiadito perfino sotto il telo di plastica, ma il volto amareggiato di Simon Ames lo guardava ancora, del tutto riconoscibile.
Il terzo robot annuì verso quel volto antico, con uno strano miscuglio di vecchia familiarità e d’una reverenza perennemente nuova. «Più di duemila miglia nelle mie condizioni, Simon Ames, per controllare una storia che avevo udito in una delle colonie, e molti mesi per cercarli. Ma dovevo saperlo. Sì, loro sono un’ottima cosa per il mondo. Daranno ad essi tutte le cose che io non ho potuto, e i loro pensieri sono giovani e forti, così come la razza è giovane e forte».
Per qualche istante guardò la cavità intorno a sé e la galleria che i batteri da lui adattati avevano aperto, divorando il suolo. Poi tornò a fissare quell’immagine. Infine, spense il generatore principale e restò seduto, immobile, al buio.
«Settecento anni fa sono uscito di qui per scoprire che l’uomo si era estinto, sulla Terra», mormorò, sempre rivolto all’immagine. «Quattrocento anni fa avevo imparato a sufficienza per tentare di ricreare l’uomo, e più di trecento anni fa gli ultimi ovuli umani supercongelati si sono sviluppati con successo. Adesso, la mia parte è compiuta. L’uomo ha una tradizione che lo collega senza interruzioni alla sua razza, senza alcuna coscienza dell’interruzione. È forte, giovane, fecondo, e ha nuovi capi, migliori di quanto io potrei essere da solo. Non posso fare nient’altro per lui».
Per un attimo, vi fu soltanto il cigolio delle sue mani che scivolavano contro altro metallo. Poi un debole sospiro: «Alle mie mani, Simon Ames, hai affidato la tua razza. Ora, nelle Tue Mani, Dio di quella razza, se tu esisti come il mio fratello crede, rimetto lui… e il suo spirito».
Poi vi fu un clic quando le sue mani trovarono l’interruttore del suo generatore. E il silenzio finale.
SA-10 si legge in inglese Say-Ten, pronuncialo quasi uguale a Satana. (N.d.T.)