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— Questa mattina — disse, — Conrad si è seccato nel vedermi sconvolta, e mi ha costretto a prendere la Soporina. Mi sono appena svegliata.
S’incamminarono verso la casa di lei in silenzio, ed anche quando furono nell’appartamento non si scambiarono che monosillabi, occhiate e brevi carezze. Al di là di quei cenni che bastavano per capirsi, già da tempo s’erano detto tutto ciò che poteva esser detto fra loro.
Essendo un iperego, Bill non aveva paura che Conrad!o forzasse a una rotazione prematura. Più tardi, quando giacquero accanto al buio, si concesse un po’ di sonno. Senza la Soporina, eventi distorti si agitavano irrazionalmente dentro di lui. Sognare, era la parola usata dagli antichi. Era una delle cose che lo avevano spaventato di più dal giorno in cui aveva cominciato a diminuire le dosi di droga. In quei pochi minuti di sonno si mescolarono centinaia di frammenti fatti di esperienze casuali, di cose che aveva letto e di desideri inespressi. E in strano contrasto con la pace di quel mondo unificato, le sue reminiscenze storiche lo portarono a sognare un terribile momento che faceva parte del XX Secolo. Queste sono le grandi guerre paranoiche, pensò. E così fu, perché lo aveva pensato.
Frenticamente rovistò nello scompartimento dei guanti di un’antica automobile. — Aspetti! — supplicò. — Le dico che abbiamo del sulfamide-14. L’abbiamo preso regolarmente secondo gli ordini. A Patterson ne abbiamo preso una doppia dose, perché c’erano state esplosioni atomiche in tutta quella zona del Jersey, e non sapevamo quale area sarebbe stata dichiarata contaminata.
Bill spalancò la borsa e cominciò a rovesciare oggetti sul pavimento e sul sedile dell’auto, ansimando, alla luce della torcia elettrica impugnata da Clara. Il cuore gli tambureggiava per il terrore. Poi si ricordò dei loro medibox; annaspò con le mani intorno alla cintura.
Il capitano della Sorveglianza Medica si scostò dal finestrino della macchina. Con un cenno del capo fece avvicinare il caporale che attendeva davanti al posto di blocco. — Sparate a questi due e rovesciate l’auto fuori strada prima di bruciarla.
Attraverso la maschera antiradiazioni Bill emise un grido acuto. — Aspetti! L’ho trovato! — Allungò un braccio fuori dal finestrino con il medibox in mano. — Questo è un medibox — spiegò. — È qui dentro che teniamo le nostre droghe, e lo portiamo alla cintura per averle sempre con noi.
Il capitano della Sorveglianza Medica tornò ad avvicinarsi. Ispezionò il medibox e le droghe, poi lo restituì. — Da ora in avanti tenete le vostre droghe a portata di mano. Prendetele ogni volta, secondo le istruzioni che verranno date per radio. Capito?
Clara gli appoggiò pesantemente la testa a una spalla, e Bill sentì i singhiozzi disperati che uscivano dal filtro della sua maschera.
Il capitano non abbassò la pistola. — Dobbiamo bruciare la vostra macchina. Siete passati da una zona contaminata e non possiamo sterilizzarla qui in strada. A un miglio da qui troverete un’unità per la sterilizzazione. Fermatevi e sarete passati ai raggi insieme ai vostri oggetti personali. Dopo continuerete a piedi, ma senza uscire dai bordi della strada; se farete un passo fuori strada vi verrà sparato a vista.
Il nastro d’asfalto era gremito di gente in fuga. La notte era illuminata dai roghi dei cadaveri, a mucchi, cosparsi di benzina. Dappertutto c’erano militi della Sorveglianza Medica. I fuggiaschi che barcollavano, quelli che tossivano, quelli che deliravano, quelli che sostenevano la loro compagna… tutti costoro erano portati fuori strada, uccisi con un colpo alla nuca e bruciati. E a sud si vedevano i bagliori di un altro bombardamento.
Bill si fermò in mezzo alla strada e guardò indietro; Clara gli si aggrappò a una spalla.
— Qui c’è un tipo di contaminazione per cui non abbiamo droghe — disse, e s’accorse che stava piangendo. — Siamo tutti pazzi.
Anche Clara piangeva. — Oh, caro! Cos’hai fatto? Dove sono le droghe?
L’acqua dell’Hudson continuava a evaporare in cristalli di ghiaccio che si alzavano fin nella stratosfera, e quel lenzuolo di corpuscoli scintillava riflettendo i lampi delle lontane esplosioni atomiche. Ma il brontolio di quel bombardamento si trasformò in una nota acuta… era il segnale di una chiamata urgente sul visifono della camera da letto, e Bill si risvegliò con un sussulto.
Clara s’era avvolta nella vestaglia e nell’incamminarsi verso l’apparecchio era rigida per l’apprensione. Con un movimento rapido Bill si alzò e andò a nascondersi in un angolo della stanza per togliersi dal campo visivo delle lenti.
Dal visifono uscì una voce fredda e controllata: — Clara Manz?
— Sì. — Quella di Clara non salì in una nota allarmata solo perché strinse i denti.
— Qui è la direzione della Sorveglianza Medica. Un controllo di routine ci ha rivelato che lei sta prolungando di due ore il suo turno di ego-rotazione. È un periodo di tempo superiore a quelli medi nella statistica dei casi di deviazioni. La prego di darmi una spiegazione esauriente.
— Io… — Clara dovette deglutire un groppo di saliva per poter continuare. — Penso di aver preso un dose eccessiva di Soporina.
— Signora Manz, le nostre registrazioni indicano che lei ha già ritardato di alcune ore l’ego-rotazione in numerosi altri turni. Abbiamo fatto su questo un controllo di routine, ma la scoperta è abbastanza grave. — Ci fu un silenzio teso, un silenzio che esigeva una risposta razionale. Ma come avrebbe potuto esserci una risposta razionale?
— La mia iperego non si è lamentata, e io… be’, io ho lasciato che una cattiva abitudine mi prendesse un po’ la mano. Capisco che… ma questo non accadrà più.
La voce snocciolò gelidamente una piatta ramanzina circa le responsabilità che una personalità aveva verso l’altra e sui doveri dei cittadini prima che Clara potesse spegnere il visifono.
Entrambi restarono seduti dov’erano senza dire parola, a lungo, finché l’onda di terrore che li aveva sommersi non cominciò a ritrarsi. E quando si guardarono, dai due lati opposti della camera oscura e silenziosa, sapevano entrambi che restava loro soltanto un’altra occasione di vedersi prima che la Sorveglianza Medica li prendesse.
Cinque giorni dopo, l’ultimo giorno del suo turno di ego-rotazione, Mary Walden prese una matita indelebile e sotto l’ascella sinistra si scrisse l’indirizzo di Conrad Manz, l’ipoego del suo padre-assegnato.
Per tutto il mattino suo padre e sua madre avevano litigato, rovinando il giorno di riposo della famiglia. Il motivo era stato il ritardo con cui la ipoego di Helen continuava a effettuare l’ego-rotazione. Suo padre non la riteneva una cosa importante, ma sua madre si era irritata e aveva minacciato di lamentarsi con la Sorveglianza Medica.
Durante il pranzo non aprirono bocca, salvo che a un certo punto quando Bill disse: — Mi sembra che siano Conrad e Clara Manz i responsabili di un matrimonio anomalo, e non noi. Tuttavia loro ne sembrano perfettamente soddisfatti; la sola che si lamenta sei tu. Se questa donna ha preso l’abitudine di usare troppa Soporina per il pisolino che fa nel suo giorno di riposo, perché non le lasci un appunto?
La replica di Helen fu una sola. Le sibilò fra i denti in un sussurro teso: — Bill, vorrei soltanto che la bambina non avesse idea della sordida situazione in cui hai coinvolto anche lei.
Mary s’irrigidì a quella frase, incredula che la madre potesse ignorare sia la sua presenza, sia la possibilità che lei capisse, sia i suoi sentimenti nel vedersi tagliata fuori a quel modo dalla discussione.
Dopo pranzo Mary sparecchiò la tavola gettando i resti del cibo e i piatti di carta nell’inceneritore di rifiuti. Suo padre s’era chiuso in biblioteca, ed Helen si stava vestendo per recarsi all’Assemblea Cittadina. La sentì tornare in cucina, per salutarla, mentre era occupata a lavare la tavola. Ma pur sapendo che Helen era alle sue spalle, ben vestita e impaziente di uscire, finse di non essersi accorta di lei.
— Cara, io vado all’Assemblea Cittadina.
— Eh? Oh… sì.
— Fai la brava bambina, e non ritardare la tua ego-rotazione. Hai soltanto un’ora prima che il tuo turno scada. — Il volto un po’ altero di Helen si addolcì in un sorriso.
— Sì, sarò puntuale.
— E non badare troppo alle cose che io e tuo padre abbiamo discusso questa mattina. Vuoi?
— Certo.
La donna uscì. Non era passata a salutare Bill. Mary era acutamente conscia della presenza di suo padre che non s’era mosso dalla biblioteca. Passò in punta di piedi davanti alla porta e lo vide seduto su una sedia, con lo sguardo fisso sul pavimento. La ragazzina rimase in soggiorno, immobile presso la finestra e con gli occhi tesi: se lui si fosse alzato, se avesse voltato una pagina, se avesse sospirato, avrebbe potuto sentirlo. Ma non udì niente.
S’avvicinava il momento in cui avrebbe dovuto lasciare il corpo se voleva che Susan Shorrs arrivasse in tempo alla prima ora di scuola del suo turno. Perché i bambini dovevano fare l’ego-rotazione con mezza giornata di anticipo sugli adulti?
Finalmente Mary riuscì a pensare a qualcosa da dire. Doveva fargli sapere che era abbastanza grande da capire il motivo del loro litigio, se soltanto lui glielo avesse spiegato.
Mary entrò in biblioteca e con aria esitante sedette sul bordo di una poltrona accanto a lui. Il padre non alzò lo sguardo. Anche nella luce piena del giorno il suo volto appariva grigio. In quel momento Mary capì che anche lui era solo e ne fu commossa.
— Qualche volta penso che tu e Clara Manz — disse d’un tratto — siate gli unici a non essere così scioccamente puntigliosi su questa storia di dover fare la rotazione proprio all’ora obbligatoria. Be’, a me non importa se Susan Shorrs va a scuola anche con un’ora di ritardo!
Lui se la prese sulle ginocchia e per qualche istante il cuore di Mary batté così forte che le parve di sentirselo andare in pezzi. Fu come se avesse pronunciato una formula magica, un incantesimo che le avesse aperto la porta del suo amore. Ma soltanto dopo che lui le ebbe spiegato perché rincasava sempre tardi il primo giorno del loro turno di famiglia, Mary capì che qualcosa di grave stava succedendo. Bill le disse e le ripeté che sapeva di renderla infelice, e che questo lo faceva sentire in colpa. Ma nello stesso tempo le accarezzava!a testa e scrutava nei suoi occhi come se avesse paura di lei.
Mentre il padre parlava, Mary cominciò a leggere nei tremiti del suo corpo, nelle sue mani sudate, nei suoi occhi supplichevoli la paura della morte. La paura che lei potesse ucciderlo dicendo o facendo qualcosa di sbagliato, o forse con il semplice fatto che lei esisteva.
Ma non fu questo ad addolorare Mary, perché all’improvviso qualcosa era piombato come un macigno su ogni altro suo pensiero: vorrei soltanto che la bambina non avesse idea della sordida situazione in cui hai coinvolto anche lei.
Coinvolta. Doveva dunque esserci qualcosa che la coinvolgeva con Conrad e Clara Manz, visto che erano loro l’oggetto della discussione.
Quando poco dopo suo padre uscì di casa, Mary andò alla scrivania di lui e tirò fuori i documenti di famiglia. Appena ebbe trovato l’indirizzo di Conrad Manz le venne l’idea di annotarlo sul suo stesso corpo. E poiché era sicura che Susan Shorrs non si lavava mai, quello le parve un lampo di genio: a un’ora qualsiasi del giorno di riposo di Susan, ovvero di lì a cinque giorni, l’avrebbe costretta a un’ego-rotazione anticipata e sarebbe andata a trovare Conrad e Clara Manz. Il suo piano era tanto semplice nell’esecuzione quanto vago negli obiettivi che si prefiggeva di ottenere.
Mary era già in ritardo quando arrivò al reparto per i bambini di una stazione pubblica per l’ego-rotazione. All’esterno era in attesa un autobus scolastico, e prenotò un passaggio per la scuola a nome di Susan Shorrs. Poi trovò un gabinetto libero e lo aprì con il suo bracciale d’identità. Indossò uno dei costumi appositi e impacchettò il vestito e gli oggetti personali spedendoli a casa sua.
I ragazzini della sua età non mettevano il trucco, ma Mary aveva l’abitudine di guardarsi allo specchio fino all’ultimo istante del suo turno. Cercava sempre, con tutte le sue forze, di vedere quale fosse l’aspetto di Susan Shorrs. A lato dello specchio qualcuno aveva scribacchiato due versi che le strapparono una risatina:
… e poi ci fu l’ego-rotazione, con un brivido che mai l’aveva sconvolta tanto perché si rendeva conto di quel che stava per fare.