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Mary ebbe un fremito di terrore. E trovarsi addosso il vestitaccio scialbo che Susan indossava per andare a scuola accentuò la stranezza della situazione in cui s’era cacciata anticipando troppo la rotazione: una situazione grave quanto pericolosa. In genere si pensava che nei bambini la differenza fra l’ipoego e l’iperego fosse scarsa, ma quando rialzò lo sguardo il suo spavento crebbe. I ragazzi cambiavano. Le riuscì difficilissimo riconoscere qualcuno dei presenti, benché la maggior parte di loro fossero gli alter-ego dei suoi vecchi compagni di classe. La signora Harris era del turno B, che si sovrapponeva a quelli di Mary e di Susan, ma di tutti gli altri la ragazzina identificò con certezza soltanto l’ipoego di Carl Blair grazie alle sue lentiggini.
Mary era sicura che se non se ne fosse andata quanto prima la signora Harris l’avrebbe riconosciuta. Se avesse lasciato l’aula con la necessaria naturalezza la donna non avrebbe avuto sospetti. Comunque era inutile cercar d’immaginare il modo di camminare di Susan. Alzò due dita.
Con un cenno del capo l’insegnante le diede il permesso di andare al gabinetto, e la ragazzina uscì dal banco. Ma solo quando poté chiudere la porta dietro di sé smise di sentirsi lo sguardo della signora Harris ficcato nella schiena come un trapano. Non riuscì a rilassarsi molto: la paura le faceva vedere il mondo della sua ipoego come un mondo completamente diverso.
Fu una camminata lunga quella che portò Mary attraverso tutta la città fino all’indirizzo che si era segnato. Suonò il campanello, e quando la porta si aprì ebbe la sorpresa di vedersi aprire da Conrad Manz, già rientrato dal lavoro. Un’altra cosa la sorpresa: allorché l’uomo sorrise lei scoprì di amarlo all’istante.
— Ebbene, che cosa desideri, signorina? — chiese Conrad.
Mary non poté rispondere; riuscì soltanto a restituirgli il sorriso.
— Come ti chiami? Abiti da queste parti?
Sorridere era più difficile; Mary deglutì un groppo di saliva. D’un tratto l’uomo sbarrò gli occhi con stupore e arrossì.
— Ehi! Ehi! Via… sono certo che non c’è nessun bisogno di piangere, piccola. Coraggio, entra e vediamo un po’ cosa possiamo fare per aiutarti. Clara! Abbiamo visite: una signorinella un tantino… emozionata.
Mary lasciò che un braccio robusto di lui le circondasse le spalle e la conducesse, piangente, nell’elegante appartamento. Poi vide Clara venire verso di lei con aria premurosa che… no, quel sorriso dolce e premuroso non apparteneva affatto a sua madre: era diversa.
— Adesso sentiamo un po’, piccola. Va meglio? Cos’è che ti ha portata qui? — domandò Conrad appena lei ebbe smesso di piangere.
Mary dovette abbassare lo sguardo davanti al suo, e dirlo le costò uno sforzo: — Io voglio… vivere con voi.
Clara torse nervosamente fra le dita il fazzoletto bagnato di lacrime. — Ma piccola, noi abbiamo già avuto il nostro primo figlio-assegnato. Ce lo consegneranno il prossimo turno. E dopo io dovrò partorire un bambino che sarà assegnato a qualcun altro e… non ci darebbero mai il permesso di prenderci cura di te.
— Io ho pensato che forse potrei essere tua figlia. La tua vera figlia, voglio dire — mormorò Mary disperata, già sapendo quale sarebbe stata la risposta.
— Cara — disse dolcemente Clara, — i bambini non vivono con i loro genitori naturali. Non è pratico, e non è da persone civili. Io ho avuto una bambina, concepita e poi nata durante il mio turno, ma tu sei già troppo grande per poter essere stata partorita da me. Chiunque siano i tuoi genitori naturali, questo è un dato che appare soltanto negli archivi della Sorveglianza Medica e non ha molta importanza.
— Ma voi siete un caso speciale — insisté Mary. — E a causa della famiglia particolare a cui mi hanno assegnata io credevo che i miei veri genitori foste voi. — Rialzò lo sguardo e vide che Clara si era sbiancata in viso.
Anche Conrad Manz era piuttosto agitato, adesso. — Cosa vuoi dire con il fatto che siamo un caso speciale? — la interrogò seccamente.
— Ecco, voi… — E solo in quell’istante Mary si rese conto di quanto speciale fosse quel caso, e di come essi fossero sensibili riguardo al loro matrimonio.
Lui la prese per le spalle e la costrinse a guardarlo in faccia, fissandola con durezza. — Ti ho chiesto perché noi saremmo un caso speciale! Clara, per tutte le teste che non ho, cosa sta dicendo questa ragazzina?
La stretta dell’uomo le faceva male e Mary ricominciò a piangere. Se ne liberò, indietreggiando di scatto. — Voi siete gli ipoego dei miei genitori-assegnati, di mio padre e di mia madre. È per questo che ho pensato che potrei essere la vostra vera figlia… e che voi voleste tenermi qui. Io non voglio stare là con loro; io voglio qualcuno che…
Clara fu d’un tratto calma, libera da quell’improvvisa paura. — Ma cara, se coi tuoi sei infelice, soltanto la Sorveglianza Medica può assegnarti a qualcun altro. D’altra parte, può darsi che i tuoi genitori-assegnati abbiano dei problemi personali in questo momento. Forse, se cercassi di capirli, scopriresti che in realtà ti vogliono bene.
L’espressione di Conrad era invece quella di chi si rifiuta fermamente di capire. Quando parlò lo fece con gelida calma, gli occhi fissi in quelli di Mary. — Che cosa stai facendo qui? La figlia del mio iperego… in casa mia! E hai il coraggio di dire che vorresti vivere con me e con l’ipoego di tua madre!
Smarrita, Mary ebbe l’impressione che la terra le tremasse sotto i piedi. Negli occhi aveva soltanto quelle due facce che la fissavano immobili, silenziose, come congelate nelle sue lacrime mentre indietreggiava ciecamente fino alla porta. Poi volse loro le spalle e corse fuori, in quel mondo che le crollava attorno.
Il giorno di riposo di Conrad Manz fu quello successivo al pomeriggio in cui la figlia di Bill Walden era venuta a casa sua. Dieci giorni, dunque, da quando quella seccante riunione al municipio di Santa Fé gli aveva mandato a monte l’occasione di una buona gara di volojet. Stavolta, stabilendo che la gente con cui lavorava era propensa a indire riunioni d’emergenza nella mattinata, aveva iscritto il suo nome a una gara pomeridiana. La visita di Mary Walden continuava a metterlo sottosopra ogni volta che ci ripensava, ma poiché quello era il suo giorno di riposo si era ripromesso di non pensarci, e la psiche scrupolosamente drogata di Conrad era capacissima di mantenere quell’impegno.
Cosi, seduto nella piacevole frescura del salone del Volojet Club, Conrad sorseggiò il suo drink tranquillamente e senza curarsi di dare il minimo contributo alla conversazione che languiva attorno a lui.
— Guardiamola a questo modo — disse malinconicamente Albert, un pilota inglese la cui faccia era in sintonia con la voce. — Occorrono circa 10.000 unità di credito per sollevare un velivolo di 40 tonnellate fino all’altezza del satellite e fargli girare sei volte il percorso di gara. Per noi questa è una spesa abituale. D’altra parte, un intellettualoide che buttasse via tutti i suoi giorni di riposo in una biblioteca a scartabellare microfilm non spenderebbe 1.000 unità di credito in un anno intero. Anzi, potrebbe dimostrare che per lui quest’attività si risolve in un guadagno. Il Ministero dell’Economia non viene a dirci che il tempo libero deve risolversi in un guadagno. Però dice che le gare di volojet costano più unità di credito di quante molti piloti ne guadagnano nei loro giorni lavorativi. Secondo me il giorno in cui quelli decideranno di mettere al bando il volojet non è lontano.
— Proprio così — intervenne un altro pilota. — C’è stato un tempo in cui potevate dimostrare che le gare di volojet erano utili per la progettazione di astronavi migliori. Ma miglioramenti tecnici non ce ne sono più da decenni. Dal loro punto di vista noi non facciamo che bruciare risorse allo stesso ritmo con cui altri le creano. E far notare che ricaviamo introiti dalla televisione è ancora peggio: il Ministero può dimostrare che per trasmettere uno slalom di razzo-sci la televisione spende cento volte meno che per una gara di volojet.
Conrad Manz sogghignò nel suo drink. Da qualche minuto si era accorto che la piccola e procace Angela, la moglie dagli occhi dolci e dalla voce rauca di Albert, stava cercando d’intercettare il suo sguardo. Ma da li a un quarto d’ora i ragazzi della rampa avrebbero avuto un jet pronto per lui. E per quanto Angela gli piacesse, non intendeva lasciar perdere la gara per dedicarsi a lei.
Tuttavia permise al suo sorriso di allargarsi, e quando lo sguardo di Angela s’incrociò di nuovo con il suo le rivolse un malizioso cenno di complicità. La donna interpretò quel segnale proprio nel modo da lui previsto. Bene, pensò, se non altro le avrebbe offerto il modo di sganciarsi da una conversazione noiosa.
Si alzò e quando le fu accanto la prese per mano. Lei non esitò a baciarlo, aprendo le labbra procaci contro le sue.
Conrad si volse ad Albert, che stava parlando, e lo toccò su una spalla. — Angela e io vorremmo trascorrere un po’ di tempo insieme se non ti secca.
Ciò che seccava Albert era d’essere stato interrotto a metà del discorso, ma esibì una doverosa cortesia. — Naturalmente, fate pure. Sono lieto che vi troviate bene insieme.
Conrad elargì al gruppetto un sorriso inespressivo. — Voialtri ragazzi non avete mai provato un razzo-sci? C’è più eccitazione genuina in dieci minuti di quella roba che in un’ora di volojet. Personalmente non m’importerebbe niente se il Ministero proibisse i jet. Non farei che filarmela sulle Montagne Rocciose, il mio giorno di riposo.
Conrad sapeva perfettamente che, se avesse detto una cosa del genere prima di chiedere il permesso ad Albert, lui avrebbe trovato una scusa per non lasciargli portare via sua moglie. Tutte le facce presenti mostrarono lo sdegno dei veri appassionati per uno che improvvisamente si rivelava un voltagabbana. Chi diavolo credevano d’essere, pensò, un antico ordine di nobili cavalieri?
Conrad prese Angela sottobraccio e la condusse elegantemente via prima che Albert riuscisse a escogitare un motivo per trattenerla.
Sul vialetto fuori dal salone del Club lei gli si strinse a una spalla con divertita ammirazione. — Sono felice che tu sia libero per me. Quell’Harold avrebbe parlato di jet fino a farmi venire le convulsioni.
Conrad si piegò a baciarla, ma disse: — Angela, mi spiace ma in progetto non c’è la cosa che pensi. Ho un jet che mi aspetta fra pochi minuti.
Lei si scostò, battendogli un pugno su una spalla: — Oh, Conrad Manz! Tu… e mi hai fatto credere di…
Lui rise, attraendola a sé. — Avanti, tesoro! Io ti abbandono per volare in cielo, almeno, non per parlarne. E sai bene che quando ti faccio venire le convulsioni… non è con le chiacchiere.
Dopo qualche istante lei non riuscì a trattenere la sua risatina un po’ roca e melodiosa. — Non sono la sola ad aver scoperto in te queste doti. Comunque, Clara e io abbiamo preso un drink insieme, dopo l’ultima Assemblea Cittadina. Le ho consigliato di tenerti chiuso a chiave in casa.
Lui si accigliò, contrariato che il discorso fosse scivolato su quell’argomento. Un presentimento continuava a dirgli che in Clara c’era qualcosa che non andava, qualcosa di ancor peggiore del suo strano e preoccupante sognare di dieci giorni prima. Da parecchi turni di ego-rotazione era fredda con lui, e la causa non poteva essere una momentanea mancanza d’interesse per lui, perché si mostrava fredda anche con tutti gli uomini di loro conoscenza verso i quali era sempre stata espansiva. E in quanto a lui, era costretto a rivolgersi ad amiche occasionali come Angela. Non che questo fosse spiacevole, ma si dava per scontato che fra due coniugi vi fosse una regolare ed equilibrata vita sessuale, e quando questa s’interrompeva significava guai con la Sorveglianza Medica.
Angela lo fissò: — Ora che ci ripenso, Clara non ha riso alla mia battuta di spirito. Forse fra voi c’è qualcosa che non va?
— Oh, no — dichiarò lui, seccato. — Talvolta Clara è così… non afferra l’umorismo di certe battute.
Un fattorino del Club li avvicinò mentre passeggiavano sulla rotonda e informò Conrad che il suo jet era pronto.
— Scusami, Angela. Ma mi farò perdonare da te: è una promessa.
— So che la manterrai, dolcezza. Be’, se non altro mi hai tirata fuori dal mare di noia in cui mi stavano facendo affogare, là dentro. — Angela si alzò in punta di piedi a dargli un bacetto, e poco dopo, mentre scompariva dietro la porta a vetri, si volse a salutarlo con un sorriso.
Sulla rampa Conrad trovò un altro pilota pronto a gareggiare con lui. Si accordarono su una scommessa doppia: una su chi sarebbe stato il primo a raggiungere il percorso di gara, e una su chi avrebbe tagliato il traguardo in testa al termine di sei giri sul tracciato aereo di forma esagonale.
Al segnale i due possenti jet schizzarono verso l’alto, e Conrad salì su una colonna di fiamma con un’accelerazione che lo schiacciò nella poltroncina sagomata. Il decollo era la sua specialità e sapeva che avrebbe vinto quella prima parte della scommessa. Sul percorso, tuttavia, se il suo avversario si fosse dimostrato di media abilità, Conrad avrebbe probabilmente perso: a lui piaceva soprattutto fare evoluzioni spericolate, belle dal punto di vista spettacolare ma controproducenti per chi desiderava mantenere la testa fino al traguardo.
Conrad tenne la propulsione al massimo fino all’ultimo secondo, poi accese di colpo i razzi di testa. Il jet vibrò in tutte le strutture per un centinaio di chilometri finché la brusca decelerazione non lo portò a fermarsi fra le boe aeree da segnalazione. L’altro pilota ansimò un’imprecazione quando Conrad gli gridò via radio: — Il vincitore ti saluta, amico!