125415.fb2 Oltre la follia - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 7

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In gara, generalmente si presupponeva di dover usare il carburante per alimentare al massimo i razzi di spinta, e di accendere i razzi di frenata posti sul muso soltanto per correggere deviazioni di rotta. — Che intenzioni hai? — replicò l’avversario, accostandosi con una breve fiammata dei propulsori. — Vuoi bruciare tutto il carburante e poi tornare a terra con il paracadute?

Il meccanismo automatico delle boe diede il segnale di partenza, e i due jet balzarono avanti per il primo giro, procedendo affiancati a poche centinaia di metri l’uno dall’altro. Al termine del primo percorso Conrad aveva già perso tre chilometri, esibendosi in curve troppo strette e veloci che subito dopo lo facevano deviare fuori dalla rotta ottimale.

Quello di un jet che decelerava bruscamente sfiorando le boe era uno spettacolo emozionante. L’altro pilota eseguiva curve pulite da manuale, usando quasi soltanto i razzi di coda. Ma questo non dava molto brivido agli spettatori che avevano regolato la televisione sul canale dov’erano in corso le gare. A ogni giro Conrad perse un po’ di terreno, anche se ciò non risultava evidente dal punto di vista delle telecamere automatiche montate sulle boe, perché lui si divertiva a sfiorarle pericolosamente, ridacchiando fra sé al pensiero dell’eccitazione che stava fornendo ai telespettatori.

Senza il benché minimo rammarico si accorse d’aver già perso la gara quando ancora mancavano due giri al termine. Si congratulò sportivamente con l’avversario e poi indugiò in quota, seguendo con lo sguardo l’altro velivolo che planava verso terra continuando a economizzare carburante. Per un poco Conrad girò intorno alle boe di partenza le cui telecamere lo stavano probabilmente inquadrando, e si esibì in una serie di manovre acrobatiche a bassa velocità.

La zona in cui si trovava era molto all’esterno dell’atmosfera, ed a Conrad il gelido vuoto dello spazio non piaceva affatto. Il buio senza vita su cui si stagliavano gli sciami di stelle gli appariva ostile e repellente. Ciò che lo eccitava nel volojet erano il tempismo e l’autocontrollo necessari alla manovra, e anche il pensiero che stava facendo qualcosa che avrebbe spaventato a morte il povero vecchio Bill Walden.

L’oscurità e il silenzio del firmamento stellato lo portarono a riflettere sui suoi problemi personali. C’era come un tarlo che lo rodeva: qualcosa in cui si mescolavano Clara, Bill Walden e la sua piagnucolosa figliola. Seccato da quell’intuizione così sfuggente diresse il velivolo verso terra, con una planata spettacolare che ridusse la sua già esigua scorta di carburante.

Ora che si soffermava a pensarci, lo strano comportamento di Clara era cominciato circa nello stesso periodo in cui Bill aveva preso l’abitudine d’imbrogliare sull’inizio del proprio turno. Quella ragazzina, Mary, doveva aver saputo che stava accadendo qualcosa altrimenti non avrebbe osato piombargli in casa in quel modo disgustoso.

Conrad aveva proseguito la picchiata fino a sentir sibilare l’aria intorno al jet, nella ionosfera. Sfruttando i pochi secondi che restavano tirò indietro la cloche e azionò i razzi frenanti, rallentando la velocità di discesa. Aveva appena cominciato a rimettersi in volo orizzontale quando due cose sconvolgenti accaddero insieme.

D’improvviso Conrad capì (vuoi per un momentaneo contatto fra la sua mente e quella di Bill, vuoi per semplice deduzione) che Bill Walden e Clara condividevano un segreto. E nello stesso momento qualcosa parve afferrargli il cervello come una gelida mano estranea.

Con una decelerazione di sette G che ancora lo inchiodava sulla poltroncina sagomata imprecò, a denti stretti: — Corpo di mille droghe! Cosa sta facendo quel maledetto pazzoide? Vuole ammazzarci entrambi?

Conrad fece appena in tempo ad allungare una mano per inserire il pilota automatico, prima che Bill Walden s’impadronisse di lui costringendolo a un’ego-rotazione anticipata. Nell’ultimo istante di consapevolezza, ancora stordito dall’ira e dalla vergogna per ciò che aveva capito, ebbe il tempo di riflettere con amara ironia che non poteva neppure prendersi la soddisfazione di spegnere i motori per ammazzare Bill Walden.

* * *

Quando Bill Walden sentì il rombo dei razzi di frenata e si accorse della pressione che schiacciava il suo corpo nell’imbottitura del sedile, una fredda morsa di terrore gli attanagliò il cuore. Il suo spavento fu tale che non pensò neanche di rifare l’ego-rotazione per restituire il corpo a Conrad, posto che ce ne fosse stato il tempo.

Malgrado il peso che gli comprimeva la nuca sul poggiatesta riuscì a voltarsi, e vide il terreno salire verso di lui come una mostruosa mazza che s’abbattesse sopra un insetto. Chiuso fra il panico e la squassante violenza della decelerazione perse conoscenza di colpo, senza neppure accorgersi che sui comandi si era accesa una scritta verde che gli prometteva salvezza: Pilota Automatico.

Il velivolo si appoggiò da solo sulla rampa, in un sibilare di razzi che si spegnevano. Bill rinvenne pochi secondi dopo, ma scosso com’era non riuscì a far altro che restare seduto sulla poltroncina, a lungo.

Quando infine riuscì a trovarne la forza si alzò, annaspò con mani tremanti e inesperte sul sistema d’apertura del portello, e vacillando scese sulla rampa intorno a cui aleggiavano ancora ondate d’aria surriscaldata. Il luogo distava oltre un chilometro dagli edifici del Volojet Club, visibili oltre una distesa di campi sterposi, e s’avviò a piedi in quella direzione. Ma non dovette camminare per molto perché un velicolo di servizio lo raggiunse quasi subito.

Il conducente spalancò la portiera. — Ehi, Conrad, che diavolo è successo? Perché non sei atterrato sulla rampa degli hangar?

Con il trucco di Conrad sulla faccia, Bill si disse che poteva giocare sull’equivoco. — I comandi non rispondevano bene — si limitò a spiegare con un gesto vago.

Al Club, un posto che vedeva per la prima volta in vita sua, Bill trovò un elicottero pubblico e vi salì, accendendo il quadro con il bracciale d’identità. Un breve volo lo riportò in città, e scese nello spazio d’atterraggio più vicino a casa sua.

Per lui quella era la fine, e lo sapeva. Conrad avrebbe fatto senza dubbio rapporto sull’accaduto. Non era stata sua intenzione forzare con tanto anticipo e con tanta violenza l’ego-rotazione. Forse, anzi, quella volta non avrebbe voluto forzarla affatto. Ma in lui era scattato qualcosa d’imprevisto e irresistibile… come se il bisogno di anticipare il turno per vedere Clara fosse diventato un istinto che agiva al di fuori della sua volontà e certamente al di fuori d’ogni ragionevole prudenza.

Salito su un’auto pubblica s’avviò cautamente nel traffico cittadino, avanzando nei viali spaziosi fra gli alti edifici con l’incertezza di un principiante per cui le macchine non fossero un’estensione del proprio corpo. Anche parcheggiare in uno spazio libero gli riuscì difficoltoso.

Clara non si sarebbe aspettata di vederlo così presto. Dal suo appartamento, non appena si fu rifatto il trucco, la chiamò con il visifono. Gli parve strano il modo in cui ormai si guardavano l’un l’altra, a lungo e con intensità, parlandosi più con gli occhi che a voce.

Poco dopo riuscì a calmarsi del tutto, e andò a cambiarsi con passo più energico. Ma quando allo specchio si vide vestito con gli abiti di Conrad, in casa sua, gli sfuggì una risata secca.

Fu mentre infilava il pacco con la roba di Conrad nel vano per la spedizione postale che notò la porta del ripostiglio. Era socchiusa. Mandò via il pacco e s’avvicinò alla porta, poi si fermò fuori, in ascolto. Dovette trattenere il respiro per udire meglio.

Con un brivido Bill allungò una mano e aprì la porta. E nella penombra vide Mary. La ragazzina sedeva sul pavimento, in un angolo, con le ginocchia sollevate contro il petto. I suoi fragili polsi erano incrociati sullo sterno, fra le ginocchia e il torace, e aveva i pugni chiusi come… come quelli di un feto. La fronte era china, gli occhi serrati e i lineamenti le si erano distesi in un’espressione vacua e lontana.

Quella vista sconvolgente mozzò il fiato a Bill e gli fece defluire il sangue dalla faccia. Con un fremito corse a inginocchiarsi davanti a lei. Nella sua gola, contratta, martellavano le parole: Oh, cosa ti ho fatto? Cosa ti ho fatto? ma non riuscì a dire verbo. Da quanto tempo la bambina era lì dentro? La domanda era così atroce che non poté sopportare di pensarci.

Avvicinò le mani a lei, ma non la toccò. Poi un tremito d’orrore lo costrinse a indietreggiare e ad alzarsi. Quando tornò in soggiorno aveva un solo pensiero: doveva chiamare qualcuno che la aiutasse. E soltanto la Sorveglianza Medica poteva prendersi cura di un caso come quello.

Immobile davanti al visifono seppe che le conseguenze di un atto così disperato avrebbero tradito tutto ciò che lui aveva sempre fatto e pensato. Doveva chiamare la Sorveglianza Medica. Non poteva fronteggiare senza quell’aiuto le conseguenze del suo comportamento illegale. Poi, come un’immagine rimasta intrappolata nell’apparecchio, vide nel vetro il fantasma del volto di Clara: una donna sola, tagliata fuori dalla vita, che aveva soltanto lui a cui affidarsi.

Una parte di lui, un angolo della mente che aveva sempre rifiutato di guardare ai drammi dell’esistenza, era stata di colpo tagliata via. Si sentiva confuso, stordito e disturbato da pensieri che non riusciva a identificare. Le emozioni che facevano tremare il suo corpo non avevano precedenti. E come un animale inerte e spaventato restò li in piedi, mentre il suo cuore rallentava le pulsazioni e l’incertezza era una rete da cui non riusciva a districarsi.

Infine la consapevolezza che Clara lo stava aspettando lo indusse a muoversi, e uscì di casa. Quello che lasciava di sé era un appartamento con la porta del ripostiglio chiusa, un appartamento senza ripostiglio.

Ma quando fu in casa di Clara e poté stringerla fra le braccia la paura d’essere scoperto e punito lo abbandonò. Ciò che sentiva era soltanto un grande bisogno di lei. Gli sembrò che ci fosse appena una piccola differenza fra quello e i loro primi abbracci, ed era una differenza in meglio, perché adesso Clara era tesa e apprensiva. Questo gli dava una nuova tenerezza per lei, come il sentimento che si può provare per un bambino indifeso. Ebbe l’impressione che non ci fossero più limiti al mare di dolcezza e di comprensione che d’un tratto dilagava in lui, e la profondità di quel sentimento lo sorprese. La baciò più volte, accarezzandola e cullandola fra le braccia come una bambina spaurita.

— Oh, Bill — mormorò Clara. — Ci stiamo comportando male, Mary è stata qui, ieri.

Qualunque cosa volesse dire, questo non aveva importanza per lui. — Va tutto bene — le rispose. — Non preoccuparti.

— Ma lei ha bisogno di te, Bill. E io ti sto tenendo lontano da lei.

Ancora una volta, qualunque cosa fosse quella di cui stava parlando, gli parve irrilevante di fronte al fatto che lei non era felice. Le accarezzò il viso. — Clara, non angustiarti di questo. Cerchiamo di essere sereni com’eravamo un tempo.

La condusse sul divano e sedette, stringendola a sé, con la testa di lei poggiata su una spalla.

— Conrad è preoccupato a causa mia. Sa che qualcosa non va. Oh, Bill, se lui ci scoprisse chiederebbe il massimo della pena per te.

Bill sentì ancora la paura come una pietra gelida nel petto. Fu costretto a pensare a Helen e alla vergogna cocente che avrebbe provato. Il comportamento della Sorveglianza Medica sarebbe stato automatico come quello di una macchina, logico quanto un’equazione: quando più alte si levavano le proteste degli offesi, quando nessuna voce interveniva a difendere un contravventore allora erano messe in atto le contromisure più drastiche. Conrad adesso sapeva, naturalmente: Bill aveva potuto sentire il suo odio.

La fine si avvicinava; la morte si sarebbe chiusa su di lui con dita elettroniche. L’allucinante sensazione di un fantasma che afferrava la sua mente, e poi…

L’infelicità di Clara e il modo in cui girò il volto rigato di lacrime contro la sua spalle, costrinsero Bill a controllare il panico e a dedicarsi a lei per tranquillizzarla con le sue carezze.

Anche più tardi, quando giacquero assieme nella perlacea luce lunare che entrava dalla finestra, fece all’amore con lei badando solo a placarne l’angoscia. Con attenzione e dolcezza cercò di staccare la mente di Clara da ogni altra cosa, e di spingerla soltanto su ciò che stavano facendo, di ancorare i pensieri di lei ai sensi e di tenerli lì. Poi si staccò dal suo corpo con un movimento brusco che le diede uno spasimo di piacere. E dopo aver mormorato qualche secondo ancora, con il respiro che le si placava pian piano, Clara s’addormentò di colpo come una bambina.

Per un tempo interminabile Bill restò con lo sguardo fisso sul bianco disco della luna che si spostava nell’inquadratura della finestra, ascoltando il sussurro ritmico che le usciva dalle labbra dischiuse nel sonno. Ma ad un tratto s’accorse che il suo respiro s’era accelerato e nel corpo di lei c’era una tensione insolita. Il cuore gli balzò in gola; sottili brividi fatti di un orrore imprecisato gli si diramarono lungo la schiena. Si girò e vide gli occhi di lei spalancati nel pallore lunare. E anche dietro il trucco che li sottolineava seppe che quelli erano gli occhi di Helen.

Fece l’unica cosa che gli restava da fare: compì l’ego-rotazione. Ma in quel terribile istante fu conscio di un’altra cosa che non aveva messo in conto. Nello sguardo di Helen non c’era soltanto la vergogna di trovarsi a fare la rotazione nella casa della sua ipoego; non c’era soltanto il disgusto per lui che l’aveva portata a quel punto; c’era, come se fosse una donna del XX Secolo, odio per colei che era la sua rivale in amore. E odiava Clara doppiamente perché lui non si limitava a tradirla con una qualsiasi altra donna, bensì con quella che condivideva il suo corpo e che lei non avrebbe mai potuto conoscere.

Mentre l’ego-rotazione lo portava nel buio, Bill fu dolorosamente certo che la prossima cosa che avrebbe visto sarebbe stato il volto adamantino di un sorvegliante medico.

* * *

Il maggiore Paul Grey e altri due ufficiali della Sorveglianza Medica entrarono nell’appartamento dei Walden circa due ore dopo che Bill ne era uscito per recarsi da Clara. Ciò che il maggiore Grey scoprì lo fece irritare soprattutto con se stesso. In ogni caso di deviazione sociale, o di mancato uso di droghe, le informazioni più importanti erano ottenibili solo lasciando proseguire la situazione sotto sorveglianza. Ma lui non aveva previsto che la vita di Conrad Manz potesse essere in pericolo, e certamente sarebbe intervenuto prima se avesse saputo intuire quello che li aspettava nell’appartamento dei Walden.

Dunque il maggiore Grey fu costretto a darsi la colpa di ciò che era successo a Mary Walden. Avrebbe dovuto controllare sul computer del suo ufficio i dati in arrivo da Susan e da Mary, e non soltanto quelli inviati dai bracciali di Bill e di Conrad e delle loro mogli.

Non l’aveva fatto perché quello era il turno di Susan e non s’era aspettato che Mary anticipasse la rotazione. Ora capiva che Helen e Bill Walden dovevano aver litigato sul fatto che Clara ritardava la propria uscita dal turno, e che questo aveva diretto l’attenzione della ragazzina sui coniugi Manz. Aveva anticipato l’ego-rotazione per conoscerli… in cerca di un padre più affezionato, ovviamente.

Tuttavia… la situazione non sarebbe arrivata a quel punto se il capitano Thiel, di servizio alla scuola di Mary, non avesse erroneamente attribuito la scomparsa di Susan dall’aula a un’ancora scarsa abitudine agli effetti delle droghe. Il capitano Thiel sapeva già che lui era in città per occuparsi di Bill Walden, perché Grey l’aveva chiamato per discutere il caso. Ma soltanto diciotto ore dopo la scomparsa di Susan aveva intuito che Mary doveva aver forzato la rotazione, mossa da ragioni connesse con le aberrazioni del padre.

Nel momento in cui il capitano l’aveva avvertito, il maggiore Grey sapeva già che Walden aveva costretto all’ego-rotazione Conrad in circostanze drammatiche, e si accingeva ad intervenire. Era arrivato lì convinto di trovare in casa il padre e la figlia, e invece… trovare Mary in stato catatonico l’aveva angosciato. Chiaramente il padre non aveva fatto altro che lasciarla lì.

Uno sguardo bastò al maggiore Grey per capire che non sarebbe stato possibile interrogare Mary per diversi giorni, sempre a patto che le cure avessero funzionato con lei. Lasciò ai due ufficiali l’incarico di portarla in ospedale e andò a casa dei Manz.

Usò il bracciale per aprire d’autorità, e appena fu entrato vide che in piedi nella stanza di soggiorno c’era una donna avvolta in un lenzuolo. Sapeva che si trattava di Helen Walden. Era strano quanto il trucco morbido e sensuale di Clara Manz sembrasse inadatto, perfino agli occhi di un estraneo, sul volto rigido e composto della sua iperego. Capì che Helen doveva darsi molto più colore sulle guance, e che nel farsi la bocca le dava un taglio severo. Senza dubbio la sua espressione tesa era dovuta a quell’incongruo make-up tanto quanto all’improvviso indumento.