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La festa stava incominciando a diventare rumorosa: non chiassosa, ma rumorosa. Cominciava ad acquistare quell’atmosfera viziata di futilità di cui finiscono per cadere vittima tutte le feste. E c’era qualcosa, qualcosa nell’odore acre di troppe sigarette, nel freddo della brezza del Canyon che soffiava dalle finestre aperte, il suono vacuo e stridulo delle chiacchiere umane, che diceva che si stava facendo tardi: era tardi ed era il momento di andare, anche se in realtà non era affatto tardi. Non era ancora mezzanotte.
L’uomo che si chiamava Herman Dalton stese le lunghe gambe, afflosciandosi sulla poltrona, il grosso sigaro cacciato in un angolo della bocca, i capelli ispidi come arbusti tra i quali aveva passato le dita troppo spesso.
«Ma le dico, Blaine,» tuonò, «che deve esserci una fine. Se non si fa qualcosa, verrà il momento in cui gli affari non esisteranno più. Già adesso l’Amo ci ha messi tutti quanti con le spalle al muro.»
«Signor Dalton,» gli disse fiaccamente Blaine, «se è di questo che vuole discutere, dovrà cercare qualcun altro. Io non me ne intendo di affari, e meno ancora me ne intendo dell’Amo, anche se è lì che lavoro.»
«L’Amo ci sta assorbendo,» disse Dalton, in tono rabbioso. «Ci porta via persino la possibilità di vivere. Sta distruggendo un sistema di convenzioni e di principi etici costruito faticosamente per secoli e secoli da uomini sinceramente votati al bene pubblico. Sta distruggendo il sistema commerciale che è stato creato con tanta cura. Ci sta rovinando, lentamente e inesorabilmente: non tutti in una volta, ma uno ad uno. Per esempio, c’è il problema di quel cosiddetto vegetale da macelleria. Si piantano dei semi, e poi si va a dissotterrare i tuberi come se fossero patate, ma invece di essere patate sono pieni zeppi di proteine.»
«E così,» disse Blaine, «per la prima volta in vita loro, milioni di persone mangiano carne, che prima non potevano permettersi di comprare; che il suo splendido sistema di convenzioni e di principi etici non permetteva loro di comprare, perché non riuscivano mai a guadagnare abbastanza.»
«Ma gli agricoltori!» gridò Dalton. «E gli operatori del mercato della carne! Per non parlare poi degli interessi degli spedizionieri …»
«Immagino,» lo interruppe Blaine, «che le cose sarebbero andate meglio se i semi fossero stati venduti esclusivamente agli agricoltori e ai supermercati. O se fossero stati venduti al prezzo di un dollaro o di un dollaro e mezzo l’uno, invece che a dieci centesimi al pacchetto. In questo modo, la carnè naturale avrebbe conservato la sua potenzialità concorrenziale, e l’economia sarebbe rimasta al sicuro. Ma, naturalmente, quei milioni di persone…»
«Lei non capisce!» protestò Dalton. «Gli affari sono il sangue vivo, la linfa stessa della nostra società. Se si distrugge il commercio si distrugge l’Uomo.»
«Di questo dubito molto,» disse Blaine.
«Ma la storia ha dimostrato l’importanza del commercio. Ha creato il mondo quale è oggi. Ha aperto nuove terre, ha spinto i pionieri all’avanguardia, ha fatto sorgere le fabbriche e…»
«Posso dedurre, signor Dalton, che lei è un appassionato cultore di storia.»
«Sì, signor Blaine. Mi interessa particolarmente…»
«E allora, forse, avrà notato anche un’altra cosa. Le idee, le istituzioni, le fedi, con l’andare del tempo finiscono per sopravvivere alla loro stessa utilità. Lo scoprirà in ogni pagina della storia… il mondo si evolve, e la gente ed i metodi cambiano. Non ha mai pensato che gli affari, così come lei li concepisce, possono essere sopravvissuti alla loro utilità? Il commercio, gli affari, hanno dato il loro contributo, e il mondo va avanti. Il commercio è soltanto un altro dodo…»
Dalton si raddrizzò di colpo, con i capelli ritti sulla testa, il sigaro che gli penzolava dalle labbra.
«Per Dio!» gridò. «Ho l’impressione che lei creda davvero in ciò che dice. È questo, ciò che pensa l’Amo?»
Blaine ridacchiò, seccamente.
«No. È quello che penso io. Non ho lo minima idea di quello che pensa l’Amo. Io non mi occupo della sua politica.»
Ed era sempre così, si disse Blaine. Dovunque si andasse, era sempre così. C’era sempre qualcuno che cercava di estorcere un accenno, un indizio, un piccolo segreto che poteva appartenere in esclusiva all’Amo. Come un branco di avvoltoi in vedetta, come un mucchio di guardoni… assetati di sapere ciò che succedeva; forse sospettavano che succedesse molto più di quanto succedeva in realtà.
La città era un manicomio di intrighi e di voci e di bisbigli. Era piena di rappresentanti, di operatori, di pseudodiplomatici. E quel tipo che gli stava davanti, pensò Blaine, gli stava presentando una specie di protesta ufficiale contro una nuova malefatta perpetrata ai danni di qualche fiera organizzazione commerciale ad opera di una nuova iniziativa dell’Amo.
Dalton tornò a sistemarsi sulla poltrona. Strinse di nuovo, perversamente, il grosso sigaro. I capelli ricaddero, in una posizione abbastanza simile a quella che avrebbero dovuto avere se fossero stati pettinati.
«Lei ha detto che non si occupa della politica dell’Amo,» disse. «Mi sembra che mi abbia detto di essere un viaggiatore.»
Blaine annuì.
«E questo significa che lei viaggia nello spazio, e visita altre stelle.»
«Più o meno,» disse Blaine.
«Allora è un para.»
«Immagino che si possa chiamarmi così. Ma, francamente, debbo dirle che si tratta di un nome che non viene impiegato, di norma, nelle conversazioni tra persone educate.»
Il rimprovero non fece il minimo effetto su Dalton: quello era immune alla vergogna.
«E com’è?» chiese. «Va da solo?»
«Ecco, non proprio solo. Porto con me un registratore.»
«Un registratore?»
«Una macchina, che registra tutto su nastro. È piena di strumenti di ogni genere, estremamente miniaturizzati, è ovvio, e registra tutto quello che vede.»
«E questa macchina viene con lei…»
«No, accidenti, Gliel’ho detto. La porto con me. Quando vado, la porto con me. Come lei porterebbe una borsa di documenti.»
«La sua mente e quella macchina. Caspita!» fece Dalton.
Blaine non si prese il disturbo di rispondere.
Dalton si tolse il sigaro dalla bocca e l’esaminò attentamente. L’estremità che aveva tenuto in bocca era vistosamente masticata: era sbrindellata, alla lettera, e ne penzolavano filamenti umidi. Con un brontolio di concentrazione, se lo ricacciò in bocca, girandolo per riavvolgere i filamenti.
«Per tornare all’argomento di cui stavamo parlando prima,» annunciò in tono pontificale, «l’Amo ha tutte queste novità aliene e immagino che sia tutto regolare. Mi rendo conto che le controllano con cura prima di metterle sul mercato. Non ci sarebbe nessuna ragione di lamentarsi, nossignore, proprio nessuna ragione, se le mettessero sul mercato attraverso i canali distributivi normali. Ma non lo fanno. Non permettono a nessuno di vendere quelle merci. Hanno organizzato la loro rete di commercio al minuto e, per aggiungere la beffa al danno, chiamano queste rivendite Stazioni di Scambio. Come se avessero a che fare con un branco di selvaggi. Era il nome che davano ai posti dove si facevano scambi con gli indiani.»
Blaine ridacchiò.
«Molto tempo fa, deve esserci stato un dirigente dell’Amo con uno spiccato senso dell’umorismo. Mi creda, signor Dalton, è una cosa un pò difficile da accettare.»
«E, una merce dopo l’altra,» imperversò Dalton, «si danno da fare per mandarci in malora. Anno per anno, ci sottraggono o rendono inutili i prodotti di cui c’era grande richiesta. È un processo di erosione che ci logora. Non c’è un attacco frontale, c’è questa erosione continua. E adesso ho sentito dire che forse metteranno il loro sistema di trasporto a disposizione del grosso pubblico. Si renderà conto del colpo che sarebbe per le vecchie strutture commerciali.»
«Immagino,» disse Blaine, «che rovinerebbe gli autotrasportatori e parecchie linee aeree.»
«Lo sa benissimo che succederebbe proprio questo. Non esiste un sistema di trasporti in grado di fare concorrenza a un sistema telecinetico.»
«Mi sembra,» disse Blaine, «che la soluzione sia questa: realizzate anche voi un sistema telecinetico. Avreste potuto farlo già parecchi anni fa. C’è molta gente, al di fuori dell’Amo, che sarebbe in grado di insegnarvi come si fa.»
«Mostri!» disse Dalton, rabbiosamente.
«No, Dalton. Non mostri. Persone del tutto normali, che possiedono i poteri paranormali, grazie ai quali l’Amo è arrivato al punto in cui è arrivato… Proprio quei poteri che lei ammira nell’Amo, ma deplora negli altri.»
«Non ce lo permetteremmo mai,» disse Dalton. «C’è tutta una situazione sociale…»
«Sì, lo so,» disse Blaine. «C’è una situazione sociale. La folla continua a crocifiggerli?»
«Qualche volta,» ammise Dalton, «l’atmosfera morale è piuttosto confusa.»
«L’immaginavo,» disse Blaine.
Dalton si tolse il sigaro dalla bocca e l’osservò con un’espressione di disgusto. Ad una estremità, il sigaro era spento, all’altra sbrindellato. Dopo averlo studiato per un momento, lo gettò ai piedi di una pianta in vaso: cadde tra i rami più bassi e rimase lì, a penzolare oscenamente.
Dalton si appoggiò alla spalliera della poltrona e intrecciò le dita sul ventre, poi levò lo sguardo verso il soffitto.
«Signor Blaine,» disse.
«Sì?».
«Lei è un uomo dotato di grande discernimento e di assoluta integrità: e dimostra la massima impazienza nei confronti delle situazioni confuse. Mi ha messo con le spalle al muro su di un paio di argomenti, e mi è piaciuto il modo in cui c’è riuscito.»
«Servo suo,» disse Blaine, freddamente.
«Quanto la pagano?» «Abbastanza,» disse Blaine.
«Abbastanza non esiste. Non ho mai visto un uomo che…»
«Se sta cercando di comprarmi, vuoi dire che ha perso la ragione.»
«Non sto cercando di comprarla, ma di assicurarmi i suoi servigi. Lei conosce tutti i segreti dell’Amo. Lei conosce un sacco di gente. Come consulente, lei avrebbe un valore inestimabile. Noi saremmo felici di discutere …»
«Mi scusi, signore,» disse Blaine, «ma per lei sarei completamente inutile. Nelle circostanze attuali, non sarei di alcuna utilità, mi creda.»
Perché lui era lì da un’ora: da troppo tempo. Aveva mangiato, e aveva bevuto qualcosa, e aveva parlato con Dalton (anzi, aveva sprecato una quantità di tempo, con Dalton) e adesso doveva andare oltre. Perché la notizia della sua presenza a quella festa sarebbe arrivata fino all’Amo, e prima che ci arrivasse, lui avrebbe dovuto essere lontano.
Si udì un fruscio di stoffa, ed una mano si posò sulla sua spalla.
«Shep,» disse Charline Whittier, «sei stato molto carino a venire.»
Blaine si alzò e si voltò verso di lei.
«Sei stata molto gentile a invitarmi.»
Lei lo guardò socchiudendo gli occhi vivaci, da folletto.
«Ti ho invitato davvero?»
«No,» disse lui. «Siamo sinceri. È stato Freddy che mi ha trascinato qui, sperando che non ti dispiacesse.»
«Sai di essere sempre il benvenuto.» Charline gli serrò le dita sul braccio. «C’è qualcuno che voglio presentarti. Ci scusi, signor Dalton.»
«Certamente,» disse Dalton.
Charline condusse via Blaine.
«Sai,» disse lui, «sei stata piuttosto scortese.»
«Sono venuta a salvarti,» rispose Charline. «Quell’uomo è uno scocciatore tremendo. Non riesco proprio a immaginare come sia capitato qui. Io non l’ho invitato di certo.»
«Ma chi è, esattamente?» chiese Blaine. «Ho paura di non averlo capito.»
Lei scrollò le spalle nude, segnate da un paio di graziose fossette.
«Il capo d’una specie di delegazione commerciale. È qui per piangere con l’Amo che gli ha spezzato il cuore».
«Questo lo ha fatto capire. È inviperito e decisamente infelice.»
«Ma tu non bevi niente!» esclamò Charline.
«Ho appena finito di bere.»
«E hai mangiato qualcosa? Ti diverti? Ho un nuovo dimensino, l’ultima novità…»
«Forse,» disse Blaine. «Forse più tardi.»
«Vai a prenderti ancora da bere,» disse Charline. «Devo salutare altri ospiti. Cosa ne diresti di fermarti anche dopo? Sono settimane che non ci vedevamo.»
Blaine scosse il capo.
«Mi rincresce moltissimo, sinceramente. Sei stata molto gentile a chiedermi di restare.»
«Sarà per un altra volta,» disse lei.
Si mosse per andarsene, ma Blaine tese un braccio per fermarla:
«Charline,» fece, «nessuno ti ha mai detto che sei un tesoro?»
«Nessuno,» rispose lei. «Assolutamente nessuno.»
Si alzò in punta di piedi e lo baciò lievemente sulla guancia.
«E adesso và a divertirti,» gli disse.
Blaine la seguì con lo sguardo, mentre si allontanava fra la folla degli invitati.
Dentro di lui, l’essere rosa si agitò, e nel suo agitarsi era implicito un punto interrogativo.
Ancora un pò, gli disse Blaine, mentre osservava la folla. Lasciami continuare ancora un pò. Poi ne parleremo.
E percepì la gratitudine, l’improvviso scondinzolare di riconoscenza per l’essere stato ascoltato e accettato.
Andremo d’accordo, disse Blaine. Dovremo andare d’accordo per forza. Siamo appiccicati l’uno all’altro.
L’essere tornò a raggomitolarsi: Blaine lo sentì raggomitolarsi e lasciare l’iniziativa a lui.
All’inizio si era spaventato, e poteva spaventarsi di nuovo, ma per il momento aveva accettato la situazione: e per quella creatura doveva trattarsi di una situazione particolarmente orripilante, perché quel luogo era immensamente lontano e diverso dal distacco e dalla serenità della stanza azzurra su quel pianeta remoto.
Vagò senza una meta nella sala, evitando il bar, soffermandosi un istante per sbirciare in un’altra sala dove c’era il dimensino nuovo, e infine si diresse verso il vestibolo. Perché adesso doveva proseguire. Prima che spuntasse l’alba, lui doveva essere lontano parecchi chilometri… o ben nascosto.
Evitò qualche gruppetto di gente che spettegolava, e rivolse cenni di saluto ai conoscenti che gli rivolgevano la parola o che lo salutavano da lontano.
Forse gli sarebbe occorso un pò di tempo per trovare una macchina con la chiavetta dell’accensione dimenticata dal guidatore distratto. Poteva anche darsi, e quel pensiero lo colpì con forza brutale, che non riuscisse a trovarne neppure una. E in questo caso, che cosa avrebbe potuto fare? Forse buttarsi fra le colline, e tenersi nascosto là, per un giorno o due, fino a quando fosse riuscito a farsi un’idea chiara. Charline sarebbe stata dispostissima ad aiutarlo, ma era una chiacchierona inguaribile, e per lui sarebbe stato molto meglio non farle sapere niente. Sul momento non gli veniva in mente nessun altro che avrebbe potuto aiutarlo. Qualcuno dei ragazzi dell’Amo sarebbe stato disposto a farlo: ma aiutandolo si sarebbe compromesso, e lui non era ridotto in condizioni così disperate. Naturalmente, c’erano anche molti altri: ma tutti avevano qualche interesse preciso in quella pazzesca rete di intrighi e di petizioni che circondava l’Amo… e non si poteva mai sapere di chi era il caso di fidarsi. Ce n’erano alcuni, di questo si rendeva perfettamente conto, che lo avrebbero venduto senza pensarci due volte, nella speranza di ricavare qualche concessione o qualche vantaggio, magari immaginario.
Raggiunse la porta del vestibolo: e fu come uscire da una foresta fitta in una pianura spazzata dal vento… qui il chiacchiericcio rombante giungeva soltanto come un mormorio, e l’aria sembrava più limpida e molto più pura. Era scomparso il senso di oppressione causato dalla presenza dei corpi e delle menti, e lo strano ritmo pulsante delle chiacchiere oziose e dei pettegolezzi maligni.
La porta esterna si spalancò, ed una donna entrò nel vestibolo.
«Harriet,» disse Blaine. «Dovevo immaginare che saresti venuta. Non manchi mai alle feste di Charline, adesso me lo ricordo. Raccogli tutti i particolari di ciò che è successo d’importante e…»
Il suo sussurro telepatico gli scottò il cervello.
Shep, pezzo di stupido! Che cosa ci fai, qui (Immagine di uno scimmione con un cappelluccio da cotillon sulla testa, immagine della parte posteriore di un cavallo, immagine di un derisorio simbolo fallico).
«Ma tu…»
Certo. Perché no? (Una fila di fila di punti interrogativi sbalorditi.) Credi che lo siate solo voi dell’Amo? Solo tu? Segreto, sicuro… ma ho il diritto di avere dei segreti. In quale altro modo una buona giornalista potrebbe arrangiarsi? (Mucchi d’immondizia smossa, fluttuare interminabile di dati statistici, un orecchio enorme con un paio di labbra che si muovevano, si muovevano come per mormorare qualcosa.)
Harriet Quimby parlò con la voce, dolcemente.
«Non vorrei perdere una delle feste di Charline per niente al mondo. Si incontrano personaggi così sorprendenti.»
Pessima educazione, disse Blaine, con fare di riprovazione. Perché era veramente pessima educazione. Solo in alcuni casi era accettabile l’uso della telepatia… e mai ad una festa della buona società.
Al diavolo l’educazione. Metto a nudo la mia anima davanti a te, ed ecco la ricompensa. (Una faccia straordinariamente simile a quella di Blaine, con una mano sottile e decisa che lo schiaffeggiava.) Lo sanno tutti, in città. Sanno persino che sei qui. Arriveranno fra poco… se non sono già qui. Sono venuta prima che ho potuto, non appena ne ho avuto notizia. Parla a voce stupido. Qualcuno se ne accorgerà, se stiamo qui zitti a guardarci.
«Sprechi il tuo tempo,» disse Blaine. «Non c’è nessun personaggio sorprendente, questa sera. È l’assortimento meno entusiasmante che Charline abbia mai invitato.» Spie!!!
Può darsi. Dobbiamo correre il rischio. Tu stai scappando. Proprio come Stone. Come tutti gli altri. Sono qui per aiutarti.
«Ho parlato con un grosso affarista,» disse lui. «Uno scocciatore tremendo. Sono appena uscito per prendere una boccata d’aria.» Stone! Che cosa ne sai di Stone?
Lascia perdere, per ora. «In questo caso, me ne vado. È inutile che stia qui a perdere tempo.» La mia macchina è in fondo alla strada ma tu non puoi uscire con me. Io andrò avanti e porterò qui la macchina, con il motore acceso. Tu gironzola per un pò, poi squagliati dalla porta della cucina (pianta della casa, con una linea rossa che conduceva in cucina).
So dov’è la cucina.
Non fare pasticci. Nessuna mossa brusca, ricordatelo. Niente aria decisa e volitiva. Vattene in giro come un normale invitato alla festa, annoiato a morte. (Cartone animato di un tale con le palpebre semiabbassate, le spalle curve per il peso di un bicchiere di cocktail tenuto in una mano flaccida, le orecchie gonfie a furia di ascoltare, e un sorriso congelato impastato sulle labbra.) Ma arriva in cucina, e poi esci dalla porta di servizio che dà sulla strada.
«Non vorrai andartene… così?» disse Blaine. «Molto spesso i miei giudizi sono inesatti, ti assicuro.» Ma tu? Perché fai questo? Che cosa ci guadagni? (Una persona perplessa e arrabbiata che reggeva un sacco vuoto.)
Ti amo (Una staccionata sulla quale erano incisi molti cuori intrecciati.)
Frottole. (Una saponetta che lavava energicamente una bocca.)
«Non dirglielo, Shep,» disse Harriet. «Spezzeresti il cuore di Charline.» Io sono una giornalista, e ho in mente di fare un servizio, e tu ci sei dentro.
Hai dimenticato una cosa. Quelli dell’Amo possono aspettarmi all’uscita della strada dal canyon.
Shep, non preoccuparti. Ho già provveduto a tutto. Vedrai che li faremo fessi.
«Va bene, allora,» disse Blaine. «Non dirò niente. Ci vediamo.» E grazie.
Lei aprì la porta e scomparve, e Blaine sentì il rumore dei suoi passi attraverso il patio, giù per le scale.
Si girò, lentamente, verso le sale affollate, e quando varcò la porta, lo scoppio della conversazione lo investì in piena faccia… il suono confuso di molte persone che parlavano contemporaneamente, senza fare molto caso a quello che dicevano, senza cercare di parlare in modo sensato: chiacchieravano per il solo gusto di chiacchierare, cercando di conformarsi a quel mare di rumore.
Dunque Harriet era telepatica e questo lui non lo avrebbe mai sospettato. Comunque, se faceva la giornalista e possedeva quella facoltà era logico che non andasse in giro a sbandierarla.
Strano come anche una donna sappia tenere la bocca chiusa, pensò Blaine, e si chiese come mai fosse possibile. Ma Harriet, si ricordò, era più giornalista che donna: la si poteva considerare fra i migliori giornalisti di quel tempo.
Blaine si fermò al bar, e prese uno Scotch con ghiaccio; rimase lì, oziosamente, per un momento, a sorseggiarlo. Non doveva far capire che aveva fretta, non doveva neppure aver l’aria di dirigersi da qualche parte, eppure non poteva permettersi di farsi risucchiare in uno dei gruppetti impegnati nella conversazione… non ne aveva il tempo.
Poteva entrare nella sala del dimensino per un minuto o due: ma era pericoloso. Ci si identificava troppo rapidamente con lo spettacolo: si perdeva il senso del tempo, si perdeva tutto, tranne la sensazione creata dall’apparecchio. E spesso era inquietante, e confondeva le idee, capitare nel bel mezzo d’una trasmissione.
Non sarebbe stata una buona idea, si disse.
Scambiò un rapido saluto con un paio di conoscenti, subì le feste commosse di un tale leggermente sbronzo che conosceva da dieci giorni soltanto, fu costretto ad ascoltare un paio di barzellette stupidissime, eseguì un blando rituale di flirt con una ricca vedova tutta vezzi che lo aveva colto alla sprovvista.
E intanto continuava ad avanzare verso la porta che conduceva alla cucina.
E finalmente ci arrivò.
Si soffermò sulla soglia, poi scese le scale con aria distratta e disinvolta.
La cucina era vuota: era una stanza fredda e metallica, tutta scintillii di cromature e di elettrodomestici. Ad una delle pareti era appeso un orologio munito della lancetta dei secondi, che riempiva la stanza con il suo pesante ronzio.
Blaine depose il bicchiere, ancora pieno per metà di Scotch, sulla tavola più vicina: e a sei passi da lui stava la porta di servizio.
Fece i primi due passi, e mentre stava per fare anche il terzo un grido silenzioso di avvertimento esplose nel suo cervello. Si girò di scatto.
Freddy Bates stava ritto accanto all’enorme frigorifero, con una mano infilata nella tasca della giacca.
«Shep,» disse Freddy Bates, «se fossi in te non mi ci proverei. L’Amo ha fatto circondare la casa. Non hai la minima probabilità di cavartela.»