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— Fremont Street? — chiese il tassista. — Scusi, signore, ma non so dove si trova.
— A Boston, — disse il professor Hale. — Avrei dovuto dirglielo… a Boston.
— Boston? Vuol dire Boston, Massachusetts? È parecchio lontano da qui.
— Perciò, sarà meglio partire subito, — disse il professor Hale, a fil di logica. Una breve discussione d’ordine finanziario e il trasferimento d’una consistente porzione del denaro prelevato dalla cassaforte dell’università, ridiedero una completa tranquillità di spirito al tassista. Si misero in viaggio.
Era una notte d’un gelo pungente, per il mese di marzo, e il riscaldamento del tassì non funzionava molto bene. Ma il Tartan Plaid funzionò in modo superlativo sia per il professor Hale che per il tassista, e quando ebbero raggiunto New Haven ambedue cantavano a gran voce le canzoni dei vecchi tempi.
— Via ce ne andiamo, nell’ampia selva al di làaaa… — ruggivano le loro voci.
Si racconta, per quanto, data l’incresciosità della cosa, sia con ogni probabilità un parto della fantasia, che a Hartford il professor Hale si sia rivolto sfrontatamente a una giovane donna in attesa d’un tram notturno, sporgendosi dal finestrino, chiedendole se volesse andare a Boston. Comunque, a quanto pare, la giovane donna non andò a Boston poiché, alle cinque del mattino, quando la macchina si arrestò davanti al 614 di Fremont Street, Boston, soltanto il professor Hale e il tassista si trovavano al suo interno.
Il professor Hale scese dal tassì e guardò la casa. Era la dimora d’un milionario, ed era circondata da un’alta cancellata di ferro con del filo spinato in cima. Il cancello era chiuso a chiave e non c’era nessun campanello visibile.
Ma la casa si trovava a un solo tiro di sasso dal marciapiede e il professor Hale non si lasciò scoraggiare. Tirò un sasso. Poi un altro. Alla fine riuscì a fracassare un vetro.
Dopo un breve intervallo, un uomo comparve alla finestra. Un maggiordomo, decise il professor Hale.
— Sono il dottor Milton Hale, — gridò. — Voglio vedere subito Rutherford R. Sniveley. È importante.
— Il signor Sniveley non è in casa, signore, — rispose il maggiordomo. — In quanto alla finestra…
— Al diavolo la finestra? — urlò il professor Hale.
— Dov’è Sniveley?
— A pescare.
— Dove?
— Ho ordini precisi di non dare quest’informazione.
Forse il professor Hale era un po’ ubriaco. — Me la darà lo stesso, — ruggì. — Per ordine del Presidente degli Stati Uniti.
Il maggiordomo scoppiò a ridere: — Non lo vedo proprio.
— Lo vedrà, — ribadì Hale.
Tornò al tassi. Il conducente si era addormentato, ma Hale lo svegliò a scossoni.
— La Casa Bianca, — gli ordinò il professor Hale.
— Uh?
— La Casa Bianca, a Washington, — ripeté il professor Hale. — E in fretta! — Tirò fuori di tasca un altro biglietto da cento dollari. Il tassista lo fissò e cacciò un gemito. Poi s’infilò la banconota in tasca e mise in moto l’auto.
Cominciava a cadere una spolverata di neve.
Mentre la macchina si allontanava, Rutherford R. Sniveiey, sogghignando, si allontanò dalla finestra. Il signor Sniveiey non aveva mai avuto un maggiordomo.
Se il professor Hale avesse conosciuto il bizzarro carattere dell’eccentrico signor Sniveiey, avrebbe capito subito che Sniveiey non teneva mai servitori durante la notte, ma viveva solo nella grande casa al 641 di Fremont Street. Ogni mattina, alle dieci, un piccolo esercito di servitori invadeva la casa, facevano tutti i lavori il più rapidamente possibile, e se ne andavano tutti prima dell’ora fatidica, mezzogiorno. A parte quelle due ore, ogni giorno, il signor Sniveiey viveva in solitario splendore. Aveva pochissimi contatti sociali, se pur ne aveva.
A parte le poche ore del giorno che passava ad amministrare i suoi vasti interessi (era uno dei più grandi industriali del paese), il tempo del signor Sniveiey apparteneva a lui solo, e lui lo passava praticamente tutto nel suo laboratorio a fabbricare marchingegni.
Sniveiey possedeva, perciò, un portasigari che gli porgeva un sigaro acceso tutte le volte che gliel’ordinava in tono brusco, e un radioricevitore così ben regolato che si accendeva automaticamente sui programmi sponsorizzati da Sniveiey, per spegnersi subito non appena erano finiti. Aveva una vasca da bagno che gli forniva un completo accompagnamento orchestrale quando lui c’era dentro e cantava, e aveva un congegno che gli leggeva ad alta voce qualunque libro posto sul suo leggio.
La vita del signor Sniveiey poteva anche essere solitaria, ma non difettava certo di simili comodità materiali. Eccentrico, si, il signor Sniveiey poteva permettersi di essere eccentrico, con un reddito netto di quattro milioni di dollari l’anno. Niente male per un uomo che aveva iniziato la sua esistenza come figlio d’un comune impiegato d’una compagnia di trasporti marittimi.
Il signor Sniveiey ridacchiò, mentre guardava il tassì che si allontanava, e poi tornò a letto, per il sonno dei giusti.
«Così, qualcuno c’è arrivato con diciannove ore di anticipo», pensò. «Be’, gli servirà davvero tanto!»
Non c’era alcuna legge che potesse punirlo per ciò che aveva fatto…
Quel giorno, le librerie fecero affari d’oro vendendo testi di astronomia. Il pubblico, a tutta prima apatico, adesso si mostrava tremendamente interessato. Perfino antichi e muffiti esemplari dei Principia di Newton andarono venduti a peso d’oro. L’etere era un continuo intrecciarsi di roboanti commenti sulla nuova meraviglia dei cieli. Assai pochi di questi commenti erano professionali, o anche soltanto intelligenti. Poiché quel giorno la maggior parte degli astronomi dormiva. Erano riusciti a restare svegli per quarantott’ore filate, da quando era iniziato il fenomeno, ma il terzo giorno li aveva trovati esausti di mente e di corpo, e inclini a lasciare che le stelle se la sbrigassero da sole mentre loro — gli astronomi, non le stelle — si rifacevano del sonno perduto.
Offerte astronomiche da parte degli studi radiofonici e televisivi indussero alcuni di loro a tentare delle conferenze, ma i loro sforzi furono cose orrende che è meglio dimenticare. Il dottor Carver Blake, trasmettendo alla KNB, cadde addormentato tra un apogeo e un perigeo.
Anche i fisici erano molto richiesti. Tuttavia, il più eminente tra i fisici fu cercato invano. L’unico, solitario indizio della scomparsa del dottor Milton Hale, «Presi soldi. Spiegherò dopo», non fu di molto aiuto. Sua sorella Agatha temeva il peggio.
Per la prima volta nella storia, notizie di astronomia occupavano i titoli di testa dei giornali.
La neve aveva cominciato a cadere quella mattina, sul presto, lungo lo zoccolo continentale dell’Atlantico del Nord, e adesso la situazione meteorologica stava peggiorando continuamente. Proprio appena fuori di Waterbury, Connecticut, il conducente del tassì del professor Hale comincio a dar segni di cedimento.
Non era umano, pensò, che ci si aspettasse che un uomo guidasse fino a Boston e poi, senza praticamente fermarsi, da Boston a Washington. Neppure per cento dollari.
Comunque, non con una bufera di neve come quella. Diamine, riusciva a vedere si e no per una dozzina di metri davanti a sé, nel turbinio, anche quando riusciva a tenere gli occhi aperti. Il suo passeggero se la dormiva sonoramente sul sedile posteriore. Forse, si, avrebbe potuto fermarsi per un’ora qui, lungo la strada, per rifarsi d’un po’ di sonno perduto. Il suo passeggero non si sarebbe neppure accorto della differenza. Quel tizio doveva esser proprio uno svitato, pensò, altrimenti perché non aveva preso un treno o un aereo?
Il professor Hale avrebbe anche potuto farlo. Ma non era abituato a viaggiare, e inoltre c’era il Tartan Plaid. Un tassì gli era parso il modo più facile per arrivare dappertutto — niente preoccupazioni per i biglietti, le coincidenze, le stazioni. Non era questione di soldi, e le condizioni della sua mente sotto l’influsso del Tartan gli avevano fatto trascurare il fattore umano che fatalmente sarebbe entrato in gioco in un viaggio in tassì di quella lunghezza.
Quando si svegliò, quasi congelato, nel tassì parcheggiato, quel fattore umano non poté più essere trascurato. Il tassista era addormentato così profondamente che non si svegliò neppure ai più energici scrolloni. L’orologio del professor Hale si era fermato, così non aveva la minima idea di dov’era e che ora fosse.
Inoltre, per sua sfortuna, non aveva nessuna idea di come guidare un tassì. Inghiottì una rapida sorsata di Tartan per non congelarsi del tutto, poi scivolò fuori dal tassì, e mentre faceva questo una macchina gli si fermò accanto.
Era un poliziotto — e per di più il poliziotto giusto su un milione.
Urlando sopra il frastuono della bufera, Hale si appellò a lui.
— Sono il professor Hale, — gridò. — Ci siamo perduti. Dove mi trovo?
Entri qui prima di gelare, — gli intimò il poliziotto. — Vuol dire il professor Milton Hale, per caso?
— Sì.
— Ho letto tutti i suoi libri, professor Hale, — dichiarò il poliziotto. — La fisica è il mio hobby, e ho sempre desiderato incontrarla. Volevo chiederle appunto del valore revisionato del quantum…