125675.fb2
— Assolvetemi, padre, poiché ho peccato. — Col volto illuminato dal crepuscolo, Marjorie era inginocchiata nel confessionale, nella penombra della cappella, dove la luce vicino all’altare pareva un occhio guardingo. — Ho provato rancore nei confronti di mia figlia e di mio marito.
Soltanto padre James era con lei nella cappella. Rigo si era rinchiuso nei sotterranei con Hector Paine, mentre Stella, Tony e padre Sandoval avevano sellato le giumente per recarsi al villaggio a far visita a Sebastian Mechanic e a sua moglie Dulia, la quale, secondo il marito, era la miglior cuoca di Grass e dei cinque pianeti più vicini. Eugenie era nella sua casetta, fuori dalla quale non aveva quasi più osato mettere il naso, dopo il ricevimento.
Nell’attraversare il giardino per recarsi alla cappella, Marjorie aveva udito Eugenie cantare in tono ebbro e lamentoso, pur senza troppa malinconia, una canzone famosa del lontano passato, intitolata «St. Louis Blues». Ricordava di aver letto da qualche parte che il blues era una musica antica, triste ma vigorosa, in grado di esprimere qualunque dolore. Inoltre continuava a ripetere mentalmente un verso della canzone, che le era rimasto impresso nella memoria: I hate to see the evening sun go down,ossia «Detesto veder tramontare il sole della sera».
— Ho perso la pazienza con Stella — proseguì Marjorie, senza spiegar nulla, perché padre James conosceva troppo bene tutta la famiglia per aver bisogno di spiegazioni. — Inoltre — aggiunse — ho litigato con Rigo. — Intanto pensò: Abbiamo litigato perché intende partecipare alla Caccia, rischiando la vita, anzi, molto più della vita. Poi concluse: — Infine, ho dubitato di Dio.
Allora padre James trasalì, recuperando tutta la propria attenzione: — Perché mai?
Marjorie bramava giustizia: Se Dio fosse buono, Rigo ed io ci ameremmo, pensò. E Rigo non mi tratterebbe così male. Se Dio fosse buono, padre Sandoval non mi tratterebbe come se fossi una mera appendice di mio marito, ingiungendomi di obbedirgli ogni volta che mi sento infelice. Non ho fatto niente di male, eppure sono l’unica ad essere punita, e ciò non è affatto giusto. Mordendosi le labbra, non disse nulla di tutto questo. Invece, tentò di confondere le tracce: — Se fosse davvero onnipotente, Dio non permetterebbe l’esistenza della peste.
Seguì un lungo silenzio, durante il quale Marjorie pensò che padre James si fosse addormentato. In tal caso, come lo si sarebbe potuto biasimare? I peccati degli Yrarier erano abbastanza noiosi e ripetitivi, ancorché capitali: Rigo era incline a peccare di superbia; Eugenie, invece, di accidia; Stella di invidia; e lei stessa, Marjorie, che si era sempre tanto sforzata di non commettere alcuna colpa, ribolliva d’ira nei confronti di tutti e tre!
— Marjorie — disse finalmente padre James — alcuni giorni fa, uno stelo d’erba mi ha tagliato una mano: è una ferita dolorosa, e non guarisce facilmente.
— Capisco — mormorò Marjorie. Anche a lei era capitato qualcosa del genere, ma non capiva dove volesse andare a parare il prete.
— D’un tratto, guardando il sangue che mi scorreva dalla ferita fra le dita e bagnava il suolo, mi sono reso conto di non poter far niente per guarirla, quantunque lo desiderassi. Non potevo ordinare alle cellule una istantanea guarigione. Ero, o meglio, sono incapace di influire sull’azione delle cellule, e così pure di entrare in esse per osservarne l’attività. Lo stesso vale per te, e per tutti noi. Ma supponiamo che tu possa creare. Ecco: un microrganismo, capace non soltanto di riprodursi, bensì anche di percepire, e di pensare! Supponiamo che tu possa crearlo nel tuo stesso corpo, ordinargli di moltiplicarsi, e individuare e distruggere ogni malattia. Supponiamo che tu possa inviare questi microrganismi a rimarginare immediatamente una ferita. Ad occhio nudo, però, non li vedresti, né sapresti quanti di essi sono impegnati nella lotta. Non potresti sapere dove si trova e cosa fa ognuno di essi, né quali sforzi compie e quanto dolore prova, né se la fatica e la disperazione abbiano indotto una parte di essi ad abbandonare la battaglia. Potresti sapere soltanto di aver creato una tribù di guerrieri e di averla inviata a combattere una guerra, di cui apprenderesti l’esito soltanto al momento della guarigione, o della morte.
— Non capisco, padre.
— Talvolta mi chiedo se questo non sia proprio quello che Dio ha fatto con noi.
Marjorie si sforzò di comprendere: — Ma questo non significherebbe appunto che la potenza di Dio è limitata?
— Forse no. Potrebbe essere anzi una manifestazione di onnipotenza. Forse Egli si serve, per necessità o per scelta, di organismi che lo assistano nel microcosmo. Forse, creando noi, ha creato l’equivalente biologico del microscopio o degli antibiotici.
— State dunque dicendo che Dio non può eliminare la peste?
Invisibile a Marjorie, padre James sospirò: — Sto dicendo che forse Dio ha creato noi, come suoi strumenti, proprio allo scopo di fermare la peste. Forse Egli ha affidato a noi il compito di fare quello che noi preghiamo che faccia Lui. Ci ha creati con uno scopo particolare e ci ha inviati a combattere. Ma noi non traiamo particolare gioia dalla guerra, quindi continuiamo a pregarlo di richiamarci, e Lui ci ignora perché non ci segue individualmente, non sa quanti siamo, né in che parte del corpo ci troviamo con precisione, e non controlla se disperiamo o perseveriamo. Soltanto se il corpo dell’universo guarirà, Dio saprà che abbiamo compiuto la missione affidataci! — E il giovane prete parve tossire.
Dopo un momento, Marjorie si accorse che padre James stava ridendo, ma non capì se di lei, oppure di se stesso.
— Conosci il principio di indeterminazione, Marjorie?
— Sono abbastanza istruita — ella ribatté, molto irritata.
— Allora sai che, secondo il principio di indeterminazione, non possiamo conoscere esattamente, in un certo momento, sia la posizione sia l’attività di una particella, poiché se conosciamo con precisione l’una, ci risulta del tutto indeterminata l’altra: l’osservazione stessa influisce sempre sull’attività delle particelle. Forse Dio non ci osserva individualmente, perché così facendo interromperebbe la nostra opera e interferirebbe col nostro libero arbitrio.
Dubbiosa e annoiata, Marjorie chiese: — Ma questa è dottrina, padre? — Ancora non riusciva a capire dove volesse arrivare il prete.
Di nuovo, padre James sospirò: — Niente affatto, Marjorie. Si tratta soltanto dei discorsi a vanvera di un sacerdote che ha nostalgia di casa. E poi, tu stessa sei abbastanza esperta di teologia per sapere che questa non è certo dottrina. — Ben contento di essere nascosto dal confessionale, padre James si grattò la testa. A parte il fatto che Marjorie avrebbe dovuto prendersi molto meno sul serio, quello che egli aveva appena detto non avrebbe certo riscosso l’approvazione di padre Sandoval.
— Se la peste ci sterminerà tutti, sarà a causa dei nostri peccati — insistette Marjorie, ostinata. — Non sarà certo perché non ci siamo battuti abbastanza. Inoltre, le nostre anime sono immortali.
— Così sostengono sia la Santità sia gli Ammuffiti — mormorò padre James. — Questi ultimi sono convinti che lo sterminio dell’umanità sia necessario, affinché le nostre anime possano vivere nella Nuova Creazione.
— Non intendo sostenere che siamo esentati dal combattere la peste — obiettò Marjorie — ma semplicemente che essa è una punizione per i nostri peccati.
— I nostri peccati? I tuoi e i miei, Marjorie?
— Il peccato originale — ella bisbigliò — commesso dai capostipiti del genere umano. — Adamo ed Eva avevano agito seguendo esclusivamente l’impulso della passione, senza riflettere, proprio come agivano sempre Rigo e Stella, che forse erano capaci persino di ridere nel provocare una catastrofe, e non erano mai sereni, tranquilli, rispettosi come avrebbero dovuto essere. Così riflettendo, Marjorie sospirò.
— Il peccato originale? — chiese padre James, incuriosito. Ormai da molto tempo non era più privo di dubbi a proposito del peccato originale, né questa era la sua unica incertezza riguardo la dottrina. Ciò dovrebbe significare che la mia fede è in crisi, pensò. Eppure sento che ora essa è forte come non mai. Quindi soggiunse: — Credi dunque al peccato originale, Marjorie?
— Ma padre! è dottrina!
— Ebbene, dimmi: credi alla colpa collettiva?
— Cosa intendete dire?
— Pensi che i bon, considerati come collettività, siano colpevoli di quello che è accaduto a Janetta bon Maukerden?
— È una domanda che concerne la dottrina? — chiese Marjorie, perplessa.
— E i santificati? Possono essere considerati collettivamente colpevoli di condannare i loro figli maschi a una sorta di schiavitù, com’è accaduto per esempio al giovane Rillibee? Dobbiamo forse credere che il ragazzo sia stato asservito a causa della colpa collettiva, ossia del peccato originale?
— Io sono un’antica cattolica, quindi so che in generale la Santità è in errore! Non spetta a me stabilire dove sbaglia in modo particolare!
Trattenendosi a stento dal ridere, padre James pensò: Oh, se soltanto Marjorie avesse maggior senso dell’umorismo, e Rigo più pazienza, e Stella maggior perspicacia, e Tony più fiducia, ed Eugenie maggior intelligenza! Anziché ascoltare la confessione dei loro peccati, dovremmo dar loro quello di cui hanno più bisogno! Con un sospiro, sì massaggiò le tempie per scacciare una vaga emicrania, quindi concesse a Marjorie l’assoluzione e le assegnò una ragionevole penitenza: accettare che Rigo cavalcasse al seguito dei veltri e tentare di non giudicarlo troppo aspramente.
Pentita, eppure pronta finalmente a ribellarsi a un’altra penitenza simile a quella che da molti anni le era invariabilmente inflitta da padre Sandoval, la quale consisteva nel garantire al marito un affetto e un sostegno incondizionati, Marjorie rimase così sorpresa dalla ben più mite penitenza scelta da padre James, che non protestò: poteva certo astenersi dal giudicare Rigo, se non era obbligata ad assecondarlo. In seguito rammentò il discorso di padre James sui microrganismi, la colpa, il peccato, e non riuscì più a toglierselo dalla mente.
Intanto, nella cappella, padre James s’inginocchiò ad implorare perdono per se stesso. Aveva sbagliato nello sfidare la fede di Marjorie per puntellare la propria. Non era affatto sicuro che fosse un bene, per lei, astenersi dal giudicare il marito. Sebbene il suo vero movente fosse probabilmente la superbia, Rigo si era convinto che fosse il senso del dovere a spingerlo a condividere l’ossessione dei bon. Ma se costoro peccavano, egli avrebbe dovuto ben guardarsi dall’imitarli.
Poiché padre Sandoval era troppo dogmatico per fornire consigli che non fossero frasi fatte, padre James desiderò consultare frate Mainoa, o magari frate Lourai, con cui sentiva di avere in comune molto più dell’età.
Quella notte, destata da un ritmico tuonare, Marjorie si recò a passeggiare per la villa e incontrò Persun Pollut, il quale, al pari di lei, era intento a una nervosa perlustrazione, titillandosi le lunghe orecchie e tormentandosi la barba folta.
— Cosa succede? — sussurrò Marjorie. — Ho già sentito questo rombo in precedenza, ma mai tanto vicino.
— I villici dicono che sono gli Hippae — mormorò Persun. — Odono spesso questo rombo in primavera, specie durante l’intervallo. Appena mi sono svegliato, sono salito qui alla villa per accertarmi che fosse tutto a posto.
— Va tutto bene. — Marjorie gli posò una mano su un braccio, sentendolo rabbrividire. — Ma cosa stanno facendo gli Hippae?
Persun scosse la testa: — Credo che non lo sappia nessuno. Secondo i villici, gli Hippae danzano. Sebastian sostiene anche di aver saputo da qualcuno dove danzano, però non gli piace parlarne.
— Ah.
Rimasero entrambi a guardar fuori dalle alte finestre del terrazzo, mentre il tuono faceva vibrare il pavimento sotto i loro piedi.
— È un mistero, come tutto, su Grass, pensò Marjorie. Cosa posso fare per comprenderlo? Come potrebbe agire un microrganismo intelligente, che avesse semplicemente il permesso di fare quello per cui è stato creato, ma senza essere osservato o guidato direttamente da Dio? Poi chiese: — Per favore, Persun. Potreste dire a Sebastian che vorrei parlargli?
— Domani — promise Pollut. — Appena sarà giorno.
Lontano, nelle praterie, oltre l’astroporto e il Comune, oltre la foresta palustre, lo stesso rombo pulsava nelle orecchie di tutti coloro che vivevano a Klive: i bon Damfels erano svegli, in ascolto, ma alcuni membri della famiglia erano ben più che desti.
Nell’ala maggiormente isolata della villa, in un lungo corridoio abbandonato, Stavenger bon Damfels teneva la obermum per la chioma e il colletto, trascinandola come un sacco pesante sul tavolato polveroso. Semisoffocata, con la fronte sanguinante, Rowena resisteva, aggrappandosi alle gambe del marito: — Stavenger! Ascoltami, Stavenger!
Come se non la udisse, o non si curasse delle sue parole, con gli occhi iniettati di sangue e la bocca così serrata da sembrar priva di labbra, l’obermun continuò ad avanzare come un automa.
— Per tutto quello ch’è sacro, Stavenger! Oh, Stavenger! L’ho fatto per Dimity!
Intanto, Amethyste e Emeraude, spaventate, nascondendosi dietro gli angoli e le porte socchiuse, seguivano i genitori. Poco prima, nei giardini, Stavenger aveva picchiato Rowena senza accorgersi delle figlie nascoste dietro una fontana d’erbe, oppure senza curarsi di essere osservato.
Il corridoio, sporco e abbandonato, si trovava in un’ala di quattro piani che era disabitata da almeno una generazione: il soffitto cadente era macchiato dall’acqua che filtrava dal tetto di paglia marcia e dai tavolati dei tre piani sovrastanti; i ritratti alle pareti erano coperti di muffa; e la scala che saliva dal piano terreno era marcia.
— Non sa quello che sta facendo — sussurrò Amy. Si leccò dagli angoli della bocca le lacrime che le scendevano dalle guance, e aggiunse: — è impazzito! Non si rende conto!
— Sa benissimo quello che fa — obiettò Emmy, accennando alla lanterna che teneva in mano. — Quest’ala è priva d’illuminazione da parecchi decenni, ormai, eppure adesso ci sono lanterne per tutto il corridoio. Papà le ha prese tutte dall’aviorimessa, proprio come io ho preso questa: aveva già progettato tutto.
Nell’osservare le lanterne che spandevano fioche luci, appese alle maniglie o posate su antiche mensole polverose, Amy annuì con riluttanza: — Sì, ma perché? Perché sta facendo questo alla mamma?
— Shhh! — ammonì Emmy, traendo la sorella nel buio accanto a sé.
In quel momento, Stavenger si fermò in fondo al corridoio, scaraventò Rowena in una stanza, e chiuse a chiave la porta con rugginosa irrevocabilità; poi intascò la chiave e rimase immobile, come in ascolto. Dopo un poco, con voce odiosa, aspra, metallica, chiamò: — Rowena!
Dalla stanza chiusa non giunse risposta.
— Non andrai mai più là, a Collina d’Opale, a cospirare coi fragras! Non mi tradirai mai più!
Silenzio.
Impassibile, raccogliendo e spegnendo le lampade una dopo l’altra, Stavenger ripercorse lentamente il corridoio, passò davanti alla porta oltre la quale tremavano le sorelle nascoste, e se ne andò come per sempre, lasciando la tenebra dietro di sé.
Le due ragazze attesero che la porta esterna del piano terreno si richiudesse sbattendo; poi, mentre dalla stanza chiusa in fondo al corridoio giungeva un incessante gemito di sofferenza e tradimento, Emmy accese la propria lanterna con dita tremanti, e corse insieme alla sorella sul tavolato sconnesso del corridoio, sollevando soffocanti nubi di polvere.
Il battente della porta di legno della foresta palustre era spesso e solido, come pure la cornice, e aveva grandi cardini metallici. Poche, nell’estancia, erano le porte altrettanto robuste: quella dell’ufficio privato di Stavenger, quella del tesoretto, e il portone della villa. Cosa mai poteva essere stato custodito in passato in quella stanza, da render necessaria una tale protezione?
Le ragazze bussarono ripetutamente, senza che il gemito s’interrompesse.
— Trova Sylvan! — sussurrò freneticamente Emmy alla sorella — è l’unico che possa aiutarci.
Amy la fissò con occhi stralunati, balbettando: — Pensavo di chiamare Shevlok.
Emmy la scrollò per avere la sua totale attenzione: — Sarebbe inutile. Shevlok non ha fatto altro che bere da quando è ricomparsa Janetta. È quasi sempre privo di conoscenza.
— Se l’intervallo fosse finito?
— In tal caso, Shevlok se ne andrebbe a caccia tutto il giorno e si sbronzerebbe tutta la notte. Trova Sylvan!
— Emmy.
— Lo so! Hai un terrore folle di papà! Be’, anch’io! è come un Hippae, feroce e inavvicinabile, con gli occhi sfavillanti. Ho sempre l’impressione che se soltanto aprissi bocca, mi butterebbe a terra e mi calpesterebbe a morte. Però non intendo lasciare la mamma chiusa qua dentro, senz’acqua e senza cibo: non la lascerò morire così! Ma tu sai bene che papà lo farà, se non glielo impediremo.
— Ma perché papà.
— Lo sai benissimo: perché mamma è andata a Collina d’Opale a parlare con la gente che ha trovato Janetta. Si è convinta che… — stralunando gli occhi, Emmy si sforzò di dire quello che non le era permesso esprimere.
— Non importa! Ho capito! — Amy la scrollò. — Troverò Sylvan. Tu resta qui: gli racconterai quello che è accaduto, se io non ne avrò il tempo.
— Prendi la lanterna. Io aspetto qui.
Di corsa, Amy scese le scale, stando alla larga dalla ringhiera scricchiolante che cedeva al minimo tocco.
Per ritornare dall’ala in rovina al resto della villa, occorreva attraversare i vecchi alloggi della servitù e l’aviorimessa. Quest’ultima era stata chusa a chiave da Stavenger, tuttavia le sorelle erano passate da una finestra fracassata prospiciente il cortile delle cucine estive. Era quasi mezzanotte, perciò i servi erano già andati a dormire da parecchio tempo, ma se anche fossero rimasti svegli, avrebbero senza dubbio simpatizzato per Rowena.
Nella sala principale della villa, Stavenger stava gridando minacce incomprensibili, e Figor, saggiamente, attendeva in silenzio che la burrasca cessasse. In breve, le urla destarono tutti i parenti, però nessuno intervenne: i commenti sussurrati e i rumori delle porte che si aprivano e si chiudevano furono inghiottiti dal silenzio della casa, accentuato dalla voce tonante dell’obermun.
Pensando che Sylvan potesse essere soltanto nella sua stanza, o in biblioteca, o in palestra, Amy si recò innanzitutto alla biblioteca, che era la più vicina, e lo trovò seduto in un angolo tranquillo, con le dita nelle orecchie per non udire le urla, intento a leggere un libro. Si inginocchiò accanto a lui e gli tolse le dita dalle orecchie: — Sylvan! Papà ha picchiato la mamma e l’ha chiusa nella vecchia ala abbandonata, senz’acqua e senza cibo! Emmy è là che aspetta: pensiamo che papà voglia lasciar là la mamma. — E s’interruppe, restando a fissare la sedia vuota.
Sylvan era già balzato in piedi e corso fuori.
Alle prime luci del giorno, Sebastian Mechanic si recò a Collina d’Opale, dove trovò Marjorie già intenta a far colazione. In risposta alla sua domanda, indicò una direzione, seppur con riluttanza, poi le sconsigliò di addentrarsi da sola nella prateria.
Quantunque sembrasse molto stanca e nervosa, molto magra, forse addirittura malata, Marjorie fu ragionevole: ammise che in effetti sarebbe stata una sciocchezza allontanarsi dall’estancia, quindi chiese a Sebastian come stesse la sua famiglia e cominciò a conversare del più e del meno, con pazienza e fascino disarmanti.
Quando Sebastian, convinto che ella avesse chiesto informazioni per pura curiosità, fu tornato al suo lavoro, Marjorie si recò alle stalle, sellò Don Chisciotte, e lasciò un messaggio ad uno stalliere, benché non intendesse rivelare a nessuno la propria meta: — Se non tornerò entro il crepuscolo, dite a mio marito, o a mio figlio, di venire a cercarmi con l’aeromobile. Non dovrebbe essere difficile trovarmi, perché ho con me un radiosegnale. — Sarebbe bastato un urto violento, come una caduta da cavallo o una percossa, per attivare il radiosegnale applicato a una gamba di Marjorie, sotto i pantaloni.
Spiegandone la funzione, ella mostrò allo stalliere gli strumenti di cui si era fornita: un coltello laser per aprirsi la via fra le erbe, se necessario, e un registratore di rotta da cartografo, che poteva servire anche da radiogoniometro. Voleva far capire di essere consapevole del rischio, nonché del tutto intenzionata a tornare. Ad ogni modo, se le fosse accaduto qualcosa, tutti i problemi si sarebbero risolti: quello di Rigo, quello di Stella, e anche il suo. Risolutamente, non pensò a Tony.
Per sfogare una strana agitazione, Don Chisciotte scalpitava, coi muscoli guizzanti. A lungo Marjorie lo accarezzò e gli parlò, cercando di capire la causa del suo turbamento. Dal modo in cui si strusciava a lei, ebbe l’impressione che desiderasse conforto e aiuto. Quando ella montò in sella, tuttavia, lo stallone partì al trotto nella prateria come per una normalissima cavalcata: sì fidava così tanto di lei, da essere disposto a compiere qualcosa che ripugnava alla sua stessa natura, anche a rischio della vita.
Dopo aver percorso un breve tragitto, Marjorie continuò a sentire il tremito nervoso di Don Chisciotte e arrossì, vergognandosi di approfittare tanto di lui. Nell’accarezzarlo, mormorò: — Padre James dice che Dio ci ha creati come se fossimo microrganismi, per servirsi di noi, ma io credo che i microrganismi si possano amare a vicenda, o essere amici di altri tipi di microrganismi. Non ti farò correre alcun perìcolo, amico mio. — Poi pensò: E io? Metterò a repentaglio la mia vita? Il suicidio è proibito, ma i martiri conquistano la gloria. Se morirò, Dio se ne accorgerà? Secondo quello che ha detto padre James, Egli probabilmente non sa quale dei Suoi microrganismi è impegnato a compiere la Sua opera. Agli occhi di Dio, io non ho nome, né individualità. Se morissi, Egli non lo saprebbe neppure. Ma se anche lo sapesse, che importanza avrebbe? E quando mi ha creata, ha forse provveduto anche per la salvezza della mia anima? Ammesso e non concesso che i microrganismi abbiano l’anima.
Non se la sentiva di andare di proposito incontro alla morte, proprio perché secondo l’educazione che aveva ricevuto, il suicidio era peccato; però poteva correre un rischio calcolato. Se fosse rimasta uccisa, sarebbe stato un evento indipendente dalla sua volontà, e Don Chisciotte sarebbe sopravvissuto. È rapido come il vento, Don Chisciotte: senza me in groppa, saprebbe sfuggire al demonio in persona, pensò Marjorie, prima di sforzarsi di liberare la mente dall’angoscia.
Se lei non fosse tornata, Rigo avrebbe detto: — Quella stupida, sciocca donna! Non mi ha mai amato come meritavo! — Eppure Marjorie lo amava, o desiderava amarlo, come desiderava amare Stella. Era un desiderio doloroso, spossante. Sulla Terra non aveva mai neppure incontrato Eugenie, né la precedente amante di Rigo. E Stella, dedita agli svaghi e alle amicizie, aveva trascorso parecchio tempo fuori casa. Ma lì, su Grass, vivendo ogni giorno a stretto contatto con entrambe, Marjorie era tormentata dalle loro frustrazioni e non riusciva a reagire: diventava sempre più debole e più irresoluta, non riusciva a dormire, sentiva sempre una minaccia di morte alle proprie spalle. Negli ultimi tempi aveva perduto persino la speranza: rammentava a stento, ormai, il fanciullesco ottimismo con cui per tutta la vita aveva superato le continue delusioni.
Oltre il prato per l’allenamento dei cavalli, che distava poco dalla villa, ma era così isolato da sembrare remoto, Marjorie varcò per la prima volta i confini di Collina d’Opale e, con una vaga tristezza, guardando fisso innanzi, si lasciò alle spalle i giardini d’erba per addentrarsi sempre più nelle praterie selvagge del pianeta, dove le persone, i loro veicoli e i loro animali erano considerati intrusi.
D’improvviso si udì un ululato.
Scosso da un tremito, Don Chisciotte rizzò le orecchie e s’immobilizzò. Col fiato sospeso, Marjorie rammentò Janetta bon Maukerden e si rese conto, con vergogna e terrore, che gli Hippae, se l’avessero trovata, avrebbero potuto farle ben altro che ucciderla: a questo non aveva pensato, pur essendo pronta ad accettare la morte.
Abbandonato il tortuoso sentiero di erba corta che aveva seguito fino a quel momento, si addentrò fra le erbe alte, smontò di sella e nascose le tracce del passaggio di Don Chisciotte, agendo con lentezza e determinazione per padroneggiare la paura. La creatura che ha ululato, pensò, non può fiutarmi perché sono sottovento. Però qualche altra potrebbe. Sopraffatta dalla consapevolezza della propria temerarietà, tornò indietro fra le erbe alte, orientandosi col registratore di rotta.
Poco più tardi, l’ululato si ripeté, più vicino, dalla direzione di Collina d’Opale.
Dopo una breve sosta, Don Chisciotte tornò con calma sulle proprie tracce. Marjorie fece di tutto per guidarlo di nuovo verso l’ambasciata, ma fu ignorata. Dopo un momento di panico si calmò, lasciandolo fare: Dunque sa qualcosa che io ignoro. Ha fiutato, ha sentito, qualcosa che io non posso percepire. Rimase immobile, nel vano tentativo di ricordare un atto di contrizione che sapeva a memoria da quando era bambina. D’altronde, non poteva certo pentirsi sinceramente per aver offeso Dio, visto che, a quanto ne sapeva, stava proprio eseguendo il Suo volere!
Sempre al passo, senza fretta ma all’erta, con le orecchie ritte come se qualcuno sussurrasse il suo nome, Don Chisciotte valicò alture e costeggiò versanti; poi rallentò, nell’udire vari rumori dinanzi a sé; infine si fermò e si coricò su un fianco, senza attendere alcun segnale. Quando Marjorie sfilò la gamba da sotto il suo corpo e si alzò, lo stallone, sempre all’erta, la scrutò.
— Bene — bisbigliò Marjorie, guardandolo a sua volta. — E adesso cosa succede?
In silenzio, tutto tremante, Don Chisciotte sferzò la coda come per scacciare insetti molesti: pericolo, tutt’intorno.
Anche Marjorie percepiva il pericolo, con tutti i sensi. Consultando il registratore di rotta, constatò di aver seguito la direzione indicatale da Sebastian. Poi Don Chisciotte guardò attorno per individuare la sorgente di un suono ripetitivo, diverso dal rombo della notte precedente, più debole, simile a un coro che alternava ritmicamente gemiti e grida. Con la pelle contratta come per un tremendo prurito, lo stallone dilatò le narici, mentre il vento rendeva più limpido quel suono strano e recava un profumo del tutto alieno, non attraente né repellente.
In pochi istanti, Marjorie coprì Don Chisciotte con bracciate d’erba falciate a colpi di coltello laser, sia per nasconderlo, sia nella speranza di celarne l’odore; quindi strisciò bocconi nell’erba alta in direzione dei suoni. Raggiunto un crinale, rimase immobile a scrutare fra gli steli, verso il profumo recato dal vento. Respirò a pieni polmoni e balzò verso il cielo, ricadde a schiantarsi al suolo, sentì il braccio schiacciarsi sotto il mento fino a diventare sottile come un foglio di carta, ebbe la testa fracassata ma senza provare dolore, mentre il suo corpo svaniva. Invano cercò di muovere un dito.
In un prato, fra i colli, sedevano veltri grigi, verdi come alghe, o viola, con le teste ritte e le zanne snudate, gemendo e ululando ritmicamente, gli occhi bianchi e vacui fissi al cielo sconfinato che sembrava cadere, mentre la loro pelle si contraeva e si deformava, come se prede inghiottite intere si sforzassero in ogni modo di liberarsi.
Ai margini della conca colma di profumo, Marjorie giaceva fra l’erba, con la lingua gocciolante che ciondolava dalla bocca spalancata.
Nel ripido versante del colle di fronte si aprivano a intervalli regolari gli alti ingressi di una grotta, dove la luce del mattino entrava ad illuminare due Hippae che, con la testa gettata all’indietro e le corna cozzanti, danzavano tracciando percorsi sinuosi.
Fra i veltri accucciati si scorgevano mucchi di sfere perlacee grandi come le loro teste. Parecchi migerer erano intenti a spargere le sfere al sole, rotolarle, prenderle fra le zampe anteriori unghiute, e auscultarle: erano forse uova?
Davanti alla caverna vi erano alcune dozzine di rane informi: soltanto l’incresparsi della loro pelle rivelava che erano vive.
Marjorie era così oppressa dal profumo, che aveva l’impressione di essere uno straccio steso nell’erba: uno straccio con gli occhi.
Sebbene avessero le zampe più corte, i veltri erano grandi come cavalli da tiro. Le rane avevano dimensioni doppie rispetto al solito. Nella caverna, innumerevoli creature nere e zannute, simili a pipistrelli, danzavano nell’aria.
Un pipistrello si posò sul collo di un veltro, vi rimase aggrappato per un poco, quindi riprese il suo volo rapido e disordinato. Un veltro ansimò, emise un lungo ululato che si ridusse a un uggiolio, e riprese ad ansimare. Sul prato soleggiato, le rane si trasformavano in sfere perfettamente lisce.
Era così familiare. Da qualche parte, di recente, Marjorie aveva già visto qualcosa di simile.
Poco a poco ogni suono si spense. Tutte le creature rimasero immobili, come paralizzate. Anche gli spasmi della pelle dei veltri cessarono. Seguì un lungo silenzio.
Dalla caverna uscì lentamente un Hippae, sollevando molto le zampe ad ogni passo, con le narici dilatate, lanciando latrati di avvertimento. Dopo un poco, l’altro Hippae uscì a sua volta e si pose di fronte al primo, col collo piegato e gli occhi stralunati, latrando a sua volta.
Entrambi arretrarono, volgendo la testa, curvando il collo, talché le corna si aprirono sempre più, come un ventaglio di spade; poi si scagliarono l’uno contro l’altro, trafiggendosi i fianchi e martellando il suolo con gli zoccoli taglienti e scintillanti, mentre il sangue scorreva dalle lunghe ferite sui loro corpi.
Intanto che le cariche si susseguivano, Marjorie si raccolse mentalmente in se stessa, diventando piccina piccina.
Finalmente un Hippae cadde in ginocchio e tardò a rimettersi in piedi. L’altro arretrò fin davanti alla caverna, vi rovistò, e mostrò la groppa all’avversario sconfitto, cominciando a scagliare con le zampe nere creature che, atterrando, scoppiavano in nubi di polvere nera.
Come aveva detto Sylvan, gli Hippae si scagliavano pipistrelli morti.
Silenzio. Un gioco. Il gioco, in silenzio.
Il vittorioso Hippae scosse la testa. Con le zanne, raccolse pipistrelli dagli ingressi della caverna, li gettò all’aperto, e si volse di nuovo a scagliarli con le zampe. Quando un pipistrello gli colpì la testa, coprendola di polvere nera, l’Hippae sconfitto muggì piano, si alzò a fatica, e se ne andò su per il versante, scomparendo oltre il crinale.
Quello che sembrava essere stato un duello rituale era concluso.
All’improvviso, mentre Marjorie si trovava sopravvento, si udì un rumore: una rana gonfia si squarciò e comparve la testa di un veltro, triangolare, zannuta, seguita dalle zampe anteriori, e poco a poco dal resto del corpo. Piccolo, vacillante, ridicolmente fragile, il cucciolo si alzò ed entrò nella caverna, badando ad evitare le uova.
Marjorie sentì lappare all’interno della grotta.
Dopo un lungo intervallo, il cucciolo usci, con le fauci gocciolanti, già più sicuro sulle zampe, con la pelle lustra e umida. Quando l’Hippae fischiò dal crinale, il giovane veltro sali il versante, pascolando la corta erba azzurra, e intanto parve crescere a vista d’occhio; infine se ne andò, lentamente, ma risolutamente.
Il vento rinforzava.
Un altro rumore, come di uno strappo, indusse Marjorie a riguardare il prato: una fila di corna spuntò dalla pelle squarciata di un veltro e la testa di un Hippae con gli occhi chiusi spuntò, come poco prima il veltro era uscito da una rana lacerata.
Nel silenzio assoluto, il processo di metamorfosi fu interrotto.
Il vento sempre più forte disperdeva il profumo.
Cosa faccio qua sdraiata? pensò Marjorie. Soltanto i miei occhi sono tridimensionali: soltanto gli occhi. E fanno male. Sbatté le palpebre, sentì gli occhi asciutti, e capì di essere rimasta senza batter ciglio per molto tempo. La nuca le prudeva, come se qualcuno la stesse osservando. Si girò a guardare fra le erbe e fu certa della presenza di una creatura, anche se non la vide, né la udì. Strisciò giù per il versante, trovò Don Chisciotte dove lo aveva lasciato, coricato su un fianco, però con la testa alta, le orecchie ritte, le narici dilatate e tremanti.
Il sole stava calando verso l’orizzonte e le erbe alte gettavano lunghe ombre sinistre negli avvallamenti.
Marjorie fece alzare Don Chisciotte, lo montò e lasciò che fosse lui a scegliere la direzione: confidava nella sua abilità per tornare a Collina d’Opale, ammesso che ciò fosse possibile.
Seguendo un tragitto più breve e diretto di quello dell’andata, lo stallone procedette ancora come se qualcuno lo chiamasse per nome e lo guidasse. Era tanto consapevole quanto Marjorie che l’oscurità si addensava rapidamente, e molto di più lo era della minaccia in agguato fra le erbe, perché, a differenza di lei, fiutava molti Hippae, vicini ma sopravvento. Poco a poco, vagando come alla ricerca di qualcosa, i mostri giganteschi si avvicinarono. Don Chisciotte aumentò l’andatura e, tracciando una lunga curva, si allontanò sempre più dagli Hippae.
Una creatura nascosta nella prateria approvò la sua tattica e gli disse che era un bravo cavallo.
Al crepuscolo, Marjorie e Don Chisciotte arrivarono alle stalle di Collina d’Opale, dove lo stalliere attendeva, scrutando l’orizzonte: — Vostro figlio vi ha cercata, lady — annunciò ansiosamente. — È arrivato un messaggio per voi da Klive.
Tremante, Marjorie rimase immobile accanto al cavallo, incapace di rispondere.
— Lady, vi sentite male?
— No, sono soltanto stanca — mormorò Marjorie, frastornata, quasi in preda alle vertigini. La recente esperienza le sembrava un sogno. Davvero si era recata da sola nella prateria? Nello sguardo dello stallone lesse una consapevolezza tutt’altro che animale, e, per qualche inesplicabile ragione, non ne fu affatto sorpresa. — Bravo Don Chisciotte — disse, accarezzandogli il collo con entrambe le mani. — Bravo cavallo. — Lo lasciò con un’ultima percossa affettuosa e s’incamminò celermente per il sentiero, quasi vacillando.
Tony la attendeva nel terrazzo: — Dove sei stata? Non mi dirai che te ne sei andata da sola nella prateria per un giorno intero!? Davvero, mamma! Hai un aspetto terribile!
Marjorie decise di non rispondere. Quale che fosse il suo aspetto, si sentiva meglio. Per la prima volta da quando era arrivata su Grass, si sentiva davvero risoluta. — Lo stalliere mi ha riferito — disse — che è arrivato un messaggio per me.
— Lo ha inviato Sylvan, credo. Chi altri potrebbe chiamarti «Stimatissima Lady Marjorie Westriding»? Comunque non ho potuto leggere il messaggio: è strettamente personale.
— Di cosa mai al mondo può trattarsi?
— Di cosa mai su Grass può trattarsi, direi piuttosto. Comunque, andiamo a vedere.
— Dov’è tuo padre?
— Sempre su quel dannato simulatore — rispose Tony, con voce soffocata, come a reprimere ira o sofferenza.
— Non puoi farci niente, Tony.
— Eppure ho sempre l’impressione che dovrei.
— Spetta a lui rinunciare a questa assurdità. Se vi prendessi parte anche tu, peggioreresti soltanto la situazione.
— Be’, in ogni modo non è possibile interromperlo: deve allenarsi ancora per un’ora o due.
Quando Marjorie fu seduta, il pennello luminoso del dimmi le passò sugli occhi, identificandola; poi una scritta comparve sullo schermo: PRIVATO. ESCLUSIVAMENTE RISERVATO AL DESTINATARIO.
— Voltati, Tony.
— Mamma!
— Voltati! Se si tratta di un messaggio personale e imbarazzante, non voglio che tu lo legga — spiegò Marjorie, chiedendosi che cosa l’avesse indotta a pensare che Sylvan potesse averle trasmesso un messaggio tanto intimo. Qui premette il pulsante di lettura e vide apparire il messaggio.
AIUTATEMI, VI PREGO. DEVO RECARMI CON MIA MADRE E ALTRE DUE DONNE ALLA CITTÀ PLEBEA. POTETE MANDARMI SEGRETAMENTE UN AEROMOBILE AL VILLAGGIO BON DAMFELS?
— Voltati pure, Tony, è tutto a posto.
Il ragazzo lesse il messaggio, rimase per alcuni istanti a fissare lo schermo, perplesso, quindi rilesse il testo: — Ma che sta succedendo?
— Evidentemente, Sylvan deve portar via Rowena da Klive, ma non ne ha i mezzi. Inoltre, deve agire in segreto. Suppongo che Stavenger non debba saperne nulla.
— Credi che Stavenger bon Damfels abbia scoperto che Rowena è stata qui ad investigare sulla ricomparsa di Janetta?
— È possibile. Può anche darsi che Rowena abbia litigato con Stavenger per qualche altra ragione e sia spaventata. Si potrebbero fare diverse ipotesi ugualmente valide.
— Ormai guido perfettamente l’aeromobile.
— Anche Persun Pollut. Ho bisogno che tu rimanga qui per spiegare tutto a tuo padre, nel caso, assai improbabile, che si preoccupi per la mia assenza.
Tony percepì la sfumatura di amarezza nella voce della madre, e arrossì, giacché voleva aiutarla, ma non sapeva come: — Perché non lasci che vada io, o non mandi soltanto Persun?
— Devo parlare con Sylvan. Oggi ho assistito a qualcosa di incredibile. — Sussurrando, Marjorie raccontò rapidamente i fenomeni a cui aveva assistito, mentre il figlio ascoltava, sbalordito, senza porre domande. — Si tratta di metamorfosi, Tony! Come le farfalle che escono dalle crisalidi! Senza dubbio gli Hippae depongono le uova, che durante l’incubazione si trasformano in rane. Di ciò non sono stata testimone, ma è l’unica spiegazione che abbia senso! Le rane si trasformano a loro volta in veltri, e questi ultimi in Hippae, è dunque una metamorfosi in tre stadi. E credo che i Grassiani non lo sappiano neppure. Nessuno mi ha parlato di questa metamorfosi: neppure Persun.
— Come possono esserne all’oscuro, dopo aver vissuto qua per tante generazioni?
Marjorie avrebbe voluto spiegare che i Grassiani non lo sapevano perché gli Hippae uccidevano tutti coloro che li spiavano. Era sicura che questa fosse la verità, e non dubitava di essersi salvata per puro caso. Eppure rammentava che Don Chisciotte aveva agito come se fosse misteriosamente guidato da qualcosa, o qualcuno. — Non hanno potuto scoprirlo, Tony, — rispose — perché usare automezzi nelle praterie per loro è tabù, e non hanno animali amici, come i cavalli. Se volessero esplorare le praterie, sarebbero costretti a camminare, ma può darsi che anche questo sia tabù. Sono convinti che si tratti di una semplice usanza, invece è di qualcosa di molto più profondo. Forse non sono affatto così liberi di agire come s’illudono di essere.
— Vuoi dire che credono di aver deciso di non deturpare le praterie, mentre in realtà…
— È proprio quello che voglio dire: in realtà, non hanno avuto scelta. Credo che gli Hippae li stiano plagiando da. Dio soltanto sa quanto tempo! Ho il sospetto che quei mostri uccidano tutti coloro che si addentrano a piedi nelle praterie: la lunga lista di persone scomparse fornita da Asmir lo conferma. Senza contare che oggi, mentre ero là, ho avuto certe sensazioni. — Anche Don Chisciotte ha percepito qualcosa: era terribilmente spaventato e si muoveva con una cautela estrema.
— E tu sei partita da sola! — Tony scosse la testa. — Dannazione, mamma. Ma cosa ti eri messa in testa? — Poi, scrutando il viso vergognoso di Marjorie, aggiunse: — Per l’amor d’Iddio, mamma!
— Ho commesso un errore, Tony. Comunque, tu non dire a tuo padre che sei al corrente dell’esistenza della peste. Non riferirgli neanche della mia spedizione: si trova in un tale stato d’animo, ultimamente, che darebbe in escandescenze. E io non ne posso proprio più delle sue sfuriate. Inoltre, Stella verrebbe senz’altro a sapere tutto.
— Me ne rendo conto.
— Se vuol sapere dove sono, digli che ho accompagnato Rowena al Comune, ma non menzionare Sylvan se non è strettamente necessario. Non riesco a capire perché, ma quando si tratta di lui, Rigo si comporta in modo stranissimo.
Scrutandola, Tony si rese conto che ella non riusciva davvero a spiegarsi il turbamento del marito. La sua opinione, invece, era molto precisa: al ricevimento, sul terrazzo, si era avvicinato al padre mentre questi osservava Marjorie danzare con Sylvan, e aveva visto l’espressione sul suo viso.
Era buio, quando Persun Pollut, silenzioso come una foglia d’autunno, atterrò con l’aeromobile di Collina d’Opale a breve distanza dal villaggio bon Damfels, dove attendevano Sylvan, due villiche e Rowena, la quale aveva il viso bendato e un braccio al collo. Appena le due donne ebbero aiutato la obermum a montare a bordo, Marjorie, senza perder tempo in chiacchiere, ordinò a Persun di ripartire subito e recarsi il più rapidamente possibile al Comune: era evidente che Rowena bon Damfels aveva urgente bisogno di cure mediche.
— Non potrò mai ringraziarvi abbastanza, lady Westriding — dichiarò Sylvan in un tono stranamente formale, che contrastava molto con la sua chioma scarmigliata e gli abiti sporchi, stazzonati. — Non avrei potuto prendere uno dei nostri aeromobili senza creare gravi difficoltà. Vi chiedo scusa per il mio aspetto, ma questa sera ho dovuto sfondare varie porte, e poi non ho avuto il tempo di cambiarmi.
— Vostro padre aveva imprigionato vostra madre?
— Sì, e non si è limitato a questo. Dubito però che rammenti di averlo fatto: è talmente preso dalla Caccia.
— Dove intendete portare vostra madre, Sylvan?
— Papà non sospetterà che la mamma abbia lasciato l’estancia, credo. Se noterà la sua assenza e ricorderà quel che le ha fatto, penserà probabilmente che è scappata nella prateria, e dubito che la cercherà. Intanto, alcuni parenti di queste donne, i quali vivono alla Città Plebea, la nasconderanno: con loro, mia madre sarà al sicuro.
— E le vostre sorelle?
— Per il momento non corrono rischi — spiegò Sylvan, con voce dura, priva di emozione. — Entrambe hanno un amante, perciò le ho esortate a restare incinte il più presto possibile: le donne gravide sono esentate dalla Caccia. Condurrei anche loro alla Città Plebea, se fosse possibile, ma non sarebbero contente di dover restare nascoste, e temo che soltanto nascondendosi potrebbero evitare di essere riportate all’estancia.
— Sarebbero le benvenute a Collina d’Opale.
— Ciò significherebbe la fine di Collina d’Opale, Marjorie. — Sylvan si allungò a toccarle un braccio, commosso dalla sua sollecitudine. — Vi è stato permesso di venire qui soltanto per impedire alla Santità di intromettersi ancor più nelle faccende del pianeta. I nostri padroni non vi vogliono su Grass: non vogliono nessuno straniero su Grass.
— Ma tollerano il Comune, e l’astroporto!
— Non possono nulla contro il Comune e l’astroporto: forse è soltanto per questo che la città è stata risparmiata, finora. Lo ignoro, e non so cosa fare. Tutti noi bon siamo come ipnotizzati. Alcuni giovani, come me, e altri che da qualche tempo hanno smesso di cacciare, possono discutere liberamente, ma persino noi, quando ci avviciniamo troppo a… — per alcuni istanti, Sylvan parve soffocare. Appena si fu ripreso, proseguì: — Alla Città Plebea è diverso. Quando sono là, percepisco tutto con estrema chiarezza: sono completamente libero di pensare a qualsiasi cosa, senza nessun controllo. Posso anche parlare di qualunque argomento.
— Resterete in città?
— Impossibile. Se lo facessi, papà potrebbe insospettirsi e venire a riprendere la mamma, o persino causare ostilità fra le estancia e la città. E una simile eventualità potrebbe soltanto significare uno spargimento di sangue, una tragedia. — Sylvan tacque per un poco, cupamente assorto in meditazione, scrutando il volto bendato della madre. — Qual’è il vero motivo per cui voi e la vostra famiglia siete qui?
— Se non erro, la Santità vi ha parlato della malattia.
— La vostra peste, certo — rispose subito Sylvan, con impazienza. — Ne siamo al corrente.
Osservandolo, Marjorie capì, dalla sua espressione, che non attribuiva grande importanza alla peste, e si chiese che cosa gli fosse stato riferito, o che cosa gli fosse consentito credere: — Non si tratta della «nostra» peste, Sylvan, più di quanto sia la «vostra» peste. È una cosa terribile, che riguarda l’intera umanità. Se continuerà a diffondersi, in pochi decenni l’intera razza umana sarà estinta.
Incredulo, Sylvan la fissò: — State esagerando.
Marjorie scosse la testa: — Niente affatto. Ancora una generazione, Sylvan, e voi, qua su Grass, rimarrete le uniche persone dell’universo. L’umanità sarà sterminata, proprio come lo furono gli Arbai.
— Ma noi, qui, non abbiamo saputo.
— Sembra che su Grass la peste non esista, o che sia debellata da qualche sconosciuto fattore. Voi non avete permesso nessuna missione scientifica, però avete accettato un’ambasciata. Quegli idioti della Santità hanno creduto che ci avreste accettati a causa dei cavalli: ecco perché hanno mandato Rigo e me. Il nostro compito consiste nel raccogliere la maggior quantità possibile di informazioni e nell’indurvi ad intendere ragione, purché voi ce lo permettiate.
— Non ve lo permetteremo. Avrei dovuto capirlo. Ecco perché i maestri di caccia hanno scelto con tanta cura coloro che hanno partecipato al vostro ricevimento. Nessuno fra loro avrebbe potuto essere persuaso: sono tutti vecchi cacciatori. Tranne me, naturalmente. Però loro non sanno di me.
— Siamo ormai sulla foresta palustre — annunciò Persun. — Dove volete che atterri?
Marjorie guardò interrogativamente Sylvan, il quale guardò a sua volta le due villiche, le quali si consultarono sottovoce, poi chiesero di atterrare all’astroporto.
Sylvan approvò la scelta: — L’ospedale è vicino all’Albergo dell’Astroporto. Inoltre è meno probabile che là qualcuno ci noti, a quest’ora di notte.
L’aeromobile atterrò in silenzio, attese che le donne smontassero, e ripartì per Klive.
L’estancia era ormai vicina, quando Marjorie si curvò a posare una mano su un braccio di Sylvan: — Prima che ve ne andiate, Sylvan, devo dirvi qualcosa, è per questo che sono venuta. — Poi raccontò quello che aveva scoperto durante il giorno e, mentre il giovane si passava un dito nel colletto con evidente disagio, si chiese se il condizionamento che subiva gli permettesse o meno di credere a quelle rivelazioni.
Finalmente Sylvan commentò, con voce soffocata: — Da rana a veltro, e da veltro a cavalcatura. Interessante. Così si potrebbe spiegare perché gli Hippae odiano tanto le volpi. Infatti, le volpi mangiano le rane.
— Come lo sapete?
— Da bambino ero un ribelle: avevo scoperto che, vuotando la mente, potevo sottrarmi al dominio degli Hippae. Sembra che nessun altro ne sia capace. Talvolta, di nascosto, mi recavo nella prateria e vi rimanevo per ore. Non mi allontanavo molto, badate bene, però era sempre più di quanto chiunque altro osasse. Quando arrivavo a un boschetto, mi arrampicavo su un albero e mi sdraiavo su un ramo a spiare col binocolo tutto quello che succedeva. Così ho veduto le volpi mangiare le rane, che, coi loro corpi informi e le loro zampe rudimentali, sono molto facili da catturare. Mi piacerebbe assistere alla loro metamorfosi.
— Se riuscirete a recarvi a Collina d’Opale prima della fine dell’intervallo, vi condurrò alla caverna.
— Arrivare a Collina d’Opale sarebbe il meno, Marjorie — rispose Sylvan, di nuovo con voce soffocata. — Sarebbe molto peggio recarsi nella prateria. Non sono più un bambino, quindi non sono più bravo come un tempo a vuotare la mente. Qualunque Hippae individuerebbe la mia presenza nel raggio di parecchie miglia, quindi non sono affatto sicuro che potrei ritornare.
Quando l’aeromobile fu atterrato, Sylvan strinse la mano a Marjorie, ringraziò Persun e scomparve nelle tenebre. Più tardi, nello spiazzo ghiaiato di Collina d’Opale, Marjorie augurò la buonanotte a Persun e si avviò alla porta secondaria che era più vicina alle sue camere. In quel momento provenne ancora una volta dalla prateria quel tuono che pareva tanto più minaccioso quanto più la sua causa era ignota, e rispondervi era impossibile.
— Posso chiederti dove sei stata? — domandò Rigo con voce tagliente, sopraggiungendo alle spalle della moglie.
Spaventata, Marjorie soffocò un gridolino: — Sono stata con Persun Pollut ad accompagnare Rowena bon Damfels al Comune affinché potesse essere curata da un medico. Con lei vi erano anche suo figlio e due serve. Abbiamo riportato il figlio al villaggio bon Damfels e siamo tornati subito qua.
Rigo non lesse alcun tentativo d’inganno nei grandi occhi della moglie: — Rowena? — chiese, cercando di assumere un tono di scherno.
— Stavenger l’ha picchiata.
— Per quale ragione? — domandò Rigo, sbalordito. Secondo la sua filosofia, picchiare una donna era come rinunciare all’onore.
— Per essersi recata qua a investigare sulla ricomparsa di Janetta. Il motivo di questa visita è che Rowena e Sylvan speravano, anzi, sperano, che Dimity sia ancora viva. Dimity è la figlia minore di Rowena, sorella di Sylvan: la ragazza che scomparve durante una battuta.
— Non ho mai visto Rowena qui a Collina d’Opale — osservò Rigo, alludendo al fatto che invece aveva veduto Sylvan.
— Durante la nostra conversazione, Rowena si commosse e desiderò restare sola per un poco. Perciò Tony la accompagnò nella mia camera.
— Lasciando sola te con suo figlio. E di cosa avete parlato? — Rigo cominciò ad infuriarsi: Marjorie aveva condiviso con Sylvan qualcosa che aveva rifiutato di condividere anche con lui, quindi voleva assolutamente sapere di cosa si trattava!
Con un sospiro, Marjorie si massaggiò stancamente gli occhi, aumentando la collera del marito: — Ho già cercato di dirtelo, Rigo, ma tu non hai voluto saperne: hai rifiutato di parlare degli Hippae.
Per un lungo momento gelido, Rigo fissò la moglie, sforzandosi di tacere, ma invano: — No! Non voglio affatto sentire le favole di Sylvan sul conto degli Hippae!
Marjorie inghiottì a fatica, cercando di non lasciar trapelare la frustrazione: — Non ti interessa neppure sapere quel che ha da dire in proposito frate Mainoa dei Frati Verdi?
Poiché di rado l’aveva vista piangere, Rigo desiderava più di ogni altra cosa farla soffrire: — Frate Mainoa? — schernì. — Hai forse una relazione anche con lui?
Incredula, Marjorie lo fissò, vedendolo arrossire. Fu sul punto di piangere, se non altro per spossatezza, ma non versò neppure una lacrima, perché si accorse che Rigo aveva lo stesso sguardo ardente di Stella quando era pronta a pronunciare qualsiasi menzogna pur di ferire. Allora fu avvolta dal rogo cocente, rosso e scoppiettante di una collera così insolita e intensa da esser priva di colpa: — Frate Mainoa ha circa l’età di mio padre — dichiarò, senza bisogno di riflettere, udendo a malapena la propria voce tersa e gelida, quasi assordata dal crepitio del furore che fiammeggiava nella sua mente. — È un vecchio piuttosto debole. Vive qui da moltissimi anni, perciò potrebbe fornirci informazioni molto utili per svolgere l’incarico che ci è stata affidato. Ma tu non pensare a lui. Forse, quando avrai partecipato alla Caccia e dato prova della tua virilità, come senti sempre il bisogno di fare, potremo discutere della nostra missione, se tornerai. — Il viso come ghiaccio ardente, Marjorie levò una mano per proibire al marito di interromperla: — Nel frattempo, stai pur certo che non ho mai avuto nessuna «relazione» con nessuno. Fino ad ora, Rigo, ho lasciato a te il privilegio di commettere adulterio.
Non soltanto Rigo non l’aveva mai sentita parlare così: non aveva mai creduto che ne fosse capace. Aveva cercato soltanto di farla infuriare, affinché perdesse quell’autocontrollo che gli sembrava essere la barriera che li separava, e si scusasse come faceva sempre, e chiedesse perdono. Invece, aveva scatenato una furia che non poteva placare né comprendere. Guardandola mentre se ne andava, ebbe l’impressione che fosse per sempre.
Quella notte non fu tumultuosa soltanto a Klive e a Collina d’Opale. Molto lontano da entrambe le ville, nel cortile della cucina di Stane, l’estancia dei bon Maukerden, una porta fu spalancata, una luce tagliò le tenebre, e la obermum Geraldria si stagliò sulla soglia, gettando la propria ombra sulla ghiaia. Alta e robusta, con la chioma sciolta sulle spalle tremanti, piangeva disperatamente, con un fazzoletto premuto sul volto. Dopo un poco alzò gli occhi arrossati a scrutare il buio, accecata dalle lacrime che le scorrevano sulle guance paffute. Camminò lentamente fino all’estremità opposta del cortile, aprì il cancello del sentiero che conduceva al villaggio bon Maukerden, poi si volse alla porta aperta e fece un cenno.
Con lentezza, quasi con riluttanza, uscirono Clima, la giovane cameriera di Geraldria, e Janetta bon Maukerden, la quale, avvolta in un ampio mantello, accennava passi di danza seguendo una musica che soltanto lei stessa poteva udire, il volto assolutamente tranquillo nella luce gialla. Clima e Geraldria piangevano, ma Janetta non mostrava di accorgersi o curarsi del loro dolore.
Mentre Clima si avvicinava, Geraldria tenne aperto il cancello: — Conducila al villaggio, Clima, e accompagnala prima possibile alla Città Plebea. Chiedi alla dottoressa Bergrem se può fare qualcosa per lei. Avrei dovuto affidargliela subito, ma speravo che poco a poco tornasse in sé, stando con noi. — Non poté trattenere il pianto, ma lo soffocò col fazzoletto bagnato di lacrime. Poi prese di tasca una carta di credito: — Con questa potrai procurarti tutto quello che ti serve. Se non basterà, fammelo sapere. E di’ alla dottoressa Bergrem che la mandi pure via da Grass, se può servire.
Clima intascò la carta di credito: — Forse la dottoressa potrebbe venire qui con i suoi assistenti, padrona. — Prese Janetta per un braccio, impedendole di allontanarsi, e la condusse oltre il cancello, sul sentiero.
— La dottoressa ha bisogno delle attrezzature di cui dispone all’ospedale. In ogni caso, l’obermun non vuole: non lo permette. Non la vuole!
Con la voce soffocata dalle lacrime, Clima rispose: — Non è colpa sua.
— Per Dimoth sì, invece! — gridò Geraldria. — Dice che è stata tutta colpa di Janetta! E Vince è d’accordo con lui!
— Non è vero! — protestò Clima, sdegnata. — Non è colpa della mia Janetta!
— Shhh. Portala via. — Geraldria chiuse il cancello, lasciando il sentiero nel buio, e si sporse a guardare le due ragazze: — Portala via, Clima. L’obermun diventa sempre più minaccioso: non posso più resistere. — Ciò detto, tornò di corsa in casa, chiudendosi l’uscio alle spalle.
Con Janetta per mano, Clima si avviò, alla luce di una torcia, quantunque conoscesse il sentiero come le proprie tasche.
Appena le due ragazze furono nascoste dalle erbe alte, oltre la prima svolta del sentiero, un misterioso individuo sbucò alle spalle di Clima, le infilò un sacco dalla testa ai piedi, poi la atterrò con una spinta e le legò le caviglie.
Troppo sorpresa per gridare, Clima si agitò invano, freneticamente, quindi si alzò e cominciò a slegarsi, mentre un aeromobile decollava poco lontano. Finalmente libera, sciabolò le tenebre col raggio luminoso della torcia. Chiamò più volte, frugando tra le erbe, infine chiese aiuto ad alcuni abitanti del villaggio e proseguì le ricerche. Tuttavia, Janetta era scomparsa.
Improvvisamente, l’intervallo finì e la Caccia ricominciò. Rigo continuò ad allenarsi al simulatore in ogni minuto di veglia, mentre Stella faceva lo stesso durante la notte, all’insaputa di tutti. Entrambi cavallerizzi superbi, padre e figlia terminarono l’addestramento in un periodo straordinariamente breve. Infine, poco tempo prima che la Caccia si trasferisse all’estancia dei bon Laupmon, Rigo annunciò che entro due giorni avrebbe partecipato ad una delle ultime battute a Klive: — Voglio che siate tutti presenti — ingiunse trucemente alla famiglia. — Tu, Marjorie, e tu, Tony, e tu, Stella.
Marjorie tacque e Tony annuì. Soltanto Stella rispose con entusiasmo: — Ma certo, papà! Non mancheremmo per nulla al mondo!
— Ho affittato un aerostato, in modo che possiate assistere alla Caccia.
— È stato molto premuroso da parte tua — replicò Marjorie. — Sono certa che ci divertiremo molto.
Turbata dal suo tono di gelida indifferenza, Stella scoccò un’occhiata di traverso alla madre e comprese, rabbrividendo, che non era certo il momento più adatto per provocarla. Comunque, aveva ben altro a cui pensare: doveva nascondere il completo da caccia nell’aeromobile, per portarlo a Klive senza che nessuno se ne accorgesse. Falsificando la firma di Hector Paine, aveva ordinato al Comune calzoni imbottiti e stivali a punta, quindi aveva intercettato la consegna. Per il resto avrebbe usato il cappello, il fiocco da caccia, la giacca e i guanti che già possedeva.
Poiché l’intervallo era terminato, Marjorie pensò che l’antro degli Hippae non fosse più sorvegliato. La mattina successiva all’annuncio di Rigo, mentre tutti ancora dormivano, prese il registratore di rotta e partì con Don Chisciotte, ripercorrendo il tragitto della precedente esplorazione. Così ritrovò la caverna e il prato fra i colli, dove percepì soltanto i soliti odori della prateria. Il silenzio era assoluto. Forse il tuono che aveva scosso per giorni e giorni il suolo era stato la conseguenza di un rituale di corteggiamento, o di una manifestazione involontaria di fregola, ammesso che gli Hippae si accoppiassero.
Sul prato restavano soltanto fragili frammenti di uova dischiuse. L’antro era vuoto, a parte mucchi polverosi di pipistrelli morti, come quelli che l’Hippae vincitore aveva scagliato contro l’avversario sconfitto. Marjorie entrò, constatando che la grotta era simile a quella di Collina d’Opale, tranne una differenza notevole: gli Hippae avevano inciso nel suolo, con gli zoccoli, un disegno molto complicato, simile a quelli che lei stessa aveva visto da bambina, incisi sui monumenti megalitici della Bretagna. Spinta da un impulso inesplicabile, accese il registratore di rotta e percorse da un capo all’altro il disegno a spire e volute, che così apparve poco a poco nella sua interezza sul piccolo schermo dello strumento. Sarebbe stato inutile chiedere un parere a Rigo sul possibile significato del disegno, ma forse frate Mainoa aveva qualche idea in proposito.
Dopo aver osservato e registrato ogni cosa, Marjorie tornò senza incidenti a Collina d’Opale, sentendosi un microrganismo abbastanza soddisfatto.
Il giorno della Caccia, Marjorie dovette farsi forza per assecondare il marito e assistere a un evento che le ripugnava indicibilmente. Indossò un completo grassiano, simile a quelli portati dalle donne incinte o dalle matrone che non cacciavano più. A differenza del solito, si truccò vistosamente e non raccolse i capelli in crocchia.
Quando la vide giungere nello spiazzo ghiaiato come se fosse diretta all’appuntamento con un amante, o con alcune amiche convinte che il marito non l’amasse, con la morbida chioma dorata sciolta sulla schiena e la giacca di broccato dalle maniche così corte da rivelare gli sboffi dell’abito e lunga fino alle ginocchia, aperta a mostrare le numerose gale della gonna di seta, una più corta dell’altra, Rigo non la riconobbe: si morse le labbra e strascicò i piedi, non sapendosi risolvere fra il desiderio di redarguirla e la determinazione a far finta di niente.
Mentre Persun arrivava con l’aeromobile, Tony uscì di casa, trafelato, rassettandosi i vestiti.
Poi, di corsa, arrivò Stella, che portava un abito simile a quello di Marjorie, ma più semplice: lo aveva scelto per imitare la madre, ma anche per potersi spogliare in pochi istanti. A Klive, infatti, avrebbe avuto pochissimo tempo per indossare il completo da Caccia.
Durante il viaggio, Marjorie sedette accanto a Persun e si esercitò a conversare in Grassano, con uno scambio di frasi convenzionali: — Dov’è il maestro di caccia? — chiese, con voce monotona da studentessa.
— Il maestro di caccia sta cavalcando sul sentiero.
— I cacciatori hanno ucciso la volpe?
— Sì, oggi i cacciatori hanno ucciso la volpe.
— Sembra un gracidar di rospi — osservò Stella. — Perché mai avranno inventato una lingua così brutta?
Come circondata da una nebbia che poteva essere dissolta soltanto dalla forza di volontà, poiché si era deliberatamente isolata dai famigliari, Marjorie non udì neppure il commento sprezzante della figlia: — Cosa ci cucinerà la obermum per pranzo?
— La obermum ci cucinerà oca arrosto — rispose Persun, gettando un’occhiata ai volti truci dei passeggeri. E giacché la frase «cucinare l’oca a qualcuno» poteva significare anche «distruggere le speranze», o «vanificare i progetti», pensò: Oh, sì! Oggi cucineremo proprio l’oca a qualcuno!
A Klive, gli ospiti furono impassibilmente ricevuti da Amy ed Emmy, le quali vestivano in modo molto simile a Marjorie: — La obermum si rammarica e si scusa di non potervi ricevere. Accomodatevi, prego.
Pur senza intenzione, Marjorie rimase con Tony, separandosi da Rigo e Stella. Senza badare all’assenza della figlia, prese una tazza di tè caldo e sorrise educatamente ai bon che passavano per recarsi ad osservare la prima superficie, dove i cacciatori si stavano radunando, con i visi impassibili e vacui.
Quando Sylvan si avvicinò, abbigliato non con il completo da caccia, bensì con indumenti normali, Tony gli chiese, nel tono più innocente: — Oggi non cavalcate al seguito dei veltri, signore? — Intanto fece due più due, e non fu sicuro che la somma gli piacesse.
— Ho un po’ d’indigestione — spiegò Sylvan. — Shevlok e papà dovranno assumersi tutto il peso della Caccia, oggi.
— Anche le vostre sorelle non partecipano — mormorò Marjorie.
— Hanno detto a papà di essere incinte — rispose Sylvan, quasi in un bisbiglio. — Quanto ad Emmy, credo proprio che sia vero. Comunque, non si può pretendere che donne della loro età partecipino cosi spesso alla Caccia come gli uomini: mio padre se ne rende conto.
— Vostro padre ha forse…
— No, no. Sembra che non si accorga neanche dell’assenza della obermum. Tutto lascia credere che non sappia della sua partenza.
— Non avete avuto sue notizie?
— Si sta riprendendo. — Sylvan si volse a guardare la prima superficie e sgranò gli occhi, restando a bocca aperta: — Per tutti i veltri, Marjorie! è proprio Rigo, quello?
— Sì, è proprio lui. È convinto che sia suo dovere partecipare.
— Ma vi avevo avvertiti! — replicò Sylvan, con voce rauca. — Oh, Dio. Lo avevo avvertito!
Sforzandosi di mantenere il proprio gelido distacco, Marjorie annuì: — Tuttavia Rigo non segue né gli avvertimenti né i consigli. Dubito che tenga conto di qualsiasi parere altrui. — Prese un’altra tazza di tè fumante offertale da un cameriere e tentò di cambiare argomento: — Avete visto Stella?
Scuotendo la testa, Syìvan guardò attorno, ma poiché la sala era molto affollata, fu costretto ad allontanarsi.
— Stai cercando la ragazza? — bisbigliò Emmy, fermandolo. — Be’, è tornata all’aeromobile.
Subito Sylvan avvertì Marjorie, la quale pensò che Stella fosse andata a prendere qualcosa che aveva dimenticato.
In quel momento suonò il corno, le cameriere rientrarono, il cancello fu spalancato, e i veltri entrarono a coppie, scrutando con occhi rossi i cacciatori.
Con un profondo sospiro, Marjorie osservò Rigo, il quale, all’estrema sinistra del gruppo, fu l’ultimo dei cacciatori a seguire i veltri fuori dal Cancello di Caccia.
Fu allora che, dall’angolo della villa, arrivò di corsa sulla prima superficie un cacciatore, che per rimediare al proprio ritardo varcò il Cancello di Caccia in tutta fretta, senza che nessuno lo vedesse in viso.
Era una ragazza, pensò Marjorie. E Stella, chissà perché, non è ancora tornata. Una ragazza?! C’era qualcosa di familiare nel suo portamento, e nel taglio della giacca. Oh, no! Non può essere!
— Non era vostra figlia? — domandò Emmy, scrutando Marjorie con uno sguardo strano, quasi stralunato. — Quella ragazza non era vostra figlia?
In quel momento giunse da oltre il muro il tuonante zoccolio della partenza e Sylvan, quando arrivò al cancello a corsa sfrenata, non vide nessuno: tutti i cacciatori erano scomparsi.
Le cavalcature comparivano sempre in numero esattamente uguale a quello dei cacciatori radunati, anche se qualcuno decideva all’ultimo minuto di non partecipare alla battuta: Stella lo sapeva sia perché gli era stato riferito, sia perché aveva assistito varie volte alla Caccia; tuttavia temeva di non trovare nessuna cavalcatura ad attenderla.
Secondo il piano che aveva studiato, arrivò alla prima superficie dopo l’uscita dei veltri, per non essere bloccata da nessuno; varcò il cancello mentre Rigo montava; e d’improvviso si vide davanti una cavalcatura che stendeva una zampa gigantesca. Giacché aveva ripetuto tante volte i movimenti al simulatore, montò macchinalmente.
Tutto era accaduto così in fretta da non lasciarle tempo per riflettere, per cambiare idea; però ad un tratto si trovò a fissare, come ipnotizzata, le corna scintillanti, aguzze come spade, affilate come rasoi, a pochi centimetri dal proprio seno; e per la prima volta ebbe paura.
Allora la cavalcatura girò la testa e fece una sorta di sorriso, molto simile a un sorriso umano di malizioso divertimento, di disprezzo, e al tempo stesso d’incoraggiamento, quantunque ciò sembrasse strano; quindi partì all’improvviso.
Senza fiato, Stella si concentrò al massimo per non restare trafitta dalle corna. Soltanto dopo un poco rammentò Sylvan. Nonostante quello che le era stato riferito sulla Caccia e quello a cui aveva personalmente assistito, pensava di riuscire ad affiancarsi a Sylvan, convinta che facesse parte del gruppo. Lo cercò con lo sguardo, ma non riuscì a individuarlo, perché di schiena i cacciatori sembravano tutti uguali. Comunque riconobbe Rigo, che la precedeva, perché la sua giacca era di taglio diverso da tutte le altre.
Chissà dov’è Sylvan? pensò. I cacciatori sembrano tutti uguali, tranne papà: la sua giacca è diversa dalle altre. Chissà dov’è Sylvan? Papà è proprio davanti a me. Papà è proprio davanti.
Era un bel giorno per la Caccia.
Quantunque l’estate fosse finita, i pascoli erano ancora verdi a causa delle piogge recenti. I contadini avevano abbattuto i recinti più pericolosi e tutti gli ostacoli rimasti erano ben visibili. In lontananza, la muta correva a perdifiato attraverso un argenteo campo di avena, scomparendo oltre un’altura sulla sinistra. La canizza giungeva da lontano nella brezza, assieme alle note del corno del capocaccia. Alcuni spettatori, che con le mani si proteggevano gli occhi dal sole, si stagliavano sulla cima di una collina: uno di costoro agitava il cappello, indicando la direzione presa dalla volpe.
Allora Stella deviò a sinistra, costeggiò un boschetto e salì fino al crinale per la via più breve. Correndo col muso basso e la folta coda tesa, la volpe attraversò il pascolo sottostante, guizzò sotto un recinto, scavalcò un lungo tronco, e scomparve a Fuller’s Copse. Con un balzo perfetto, Stella saltò il recinto e raggiunse alcuni cacciatori che già si trovavano al boschetto, sentendo alle proprie spalle lo zoccolio del resto della comitiva che sopraggiungeva. A gesti, il maestro di caccia ordinò di circondare il boschetto.
Appostata presso un fosso dove la volpe avrebbe potuto fuggire, Stella sentì abbaiare i segugi fra gli alberi, e la voce del capocaccia che li incitava, chiamandoli per nome: — Fuori da lì, Bounder! Forza, Dapple! — Quindi si udì un grido e l’inseguimento riprese, accompagnato dalle note del corno e dalla canizza.
Sylvan!
Qualcuno avrebbe dovuto unirsi alla comitiva, quel giorno. Un ospite? Qualcuno che non era membro della caccia.
Sylvan. Eccolo! Accorgendosi che lui le era accanto e si girava a guardarla con adorazione, Stella arrossì e si erse fieramente in sella.
Ormai era quasi mezzogiorno, il sole era alto e ardente in cielo, e alcuni cacciatori si erano ritirati, dopo aver galoppato per tutta la mattina. La volpe si era rifugiata a Brent’s Wood, dove il capocaccia e i bracchieri la stavano cercando. Stranamente, anche il maestro di caccia era con loro, in piedi sulla sella come un acrobata da circo, e scagliava una specie di giavellotto.
Poi, all’improvviso, una scarica di pura delizia che saliva dall’inguine, un orgasmo squassante che pareva interminabile.
Tutti, anche Sylvan, tremavano e scuotevano la testa, a bocca aperta.
Finalmente il capocaccia arrivò col trofeo e la comitiva tornò verso casa. Col sole ormai alle spalle, Stella pensò al lungo tragitto per tornare a casa. Anche prendendo la scorciatoia di Magna Spinney e la strada ghiaiata di Old Farm, il percorso sarebbe stato lungo per tornare a casa.
Spossata, Stella si accorse che Rigo la prendeva per un braccio con eccessiva rudezza e la conduceva oltre il cancello, con gli altri: — Stella! Piccola pazza! — le sussurrò il padre, quasi all’orecchio. — Cos’hai fatto, in nome del cielo? — E lei, perplessa, lo fissò a bocca aperta: — Ma, papà, io ho cavalcato. — Quindi si accorse che Rigo guardava su, verso il terrazzo, dove si trovava Marjorie, molto pallida, molto bella, con un bicchiere in mano, e intorno alla vita un braccio di Sylvan, che indicava giù, verso di loro.
Com’era possibile che egli fosse già lassù e non indossasse neppure il completo da caccia, se aveva cavalcato fino a pochi momenti prima?
Arrossendo, Stella capì che Sylvan, in realtà, non aveva partecipato alla Caccia.
Intanto, Sylvan schioccava le dita al servo più vicino e sosteneva Marjorie, la quale si afferrava alla balaustrata con entrambe le mani, con tale violenza da sbiancare le nocche.
In pochi istanti, Rigo lasciò la figlia, salì la scala e scostò Sylvan: — Marjorie!
— Stella. — Marjorie guardò il marito come se non lo riconoscesse, e indicò la figlia. — Il suo viso.
Allora Rigo si volse a riguardare la ragazza immobile ai piedi della scala, ma un istante troppo tardi per cogliere quello che Marjorie aveva visto: uno sguardo così freddo e vacuo come quello di Janetta al ricevimento.
Furiosa e sconvolta, Stella vacillava, tremava, rendendosi conto di non essere stata ammirata da Sylvan durante la Caccia e di non rammentare quasi nulla della giornata appena trascorsa. Ricordava cavalli, segugi, e una volpe, ma erano memorie di alcuni anni prima. Arrossì, rammentando anche l’orgasmo che l’aveva squassata, ma non capì che cosa avesse potuto causarlo. Nel fissare Sylvan, preoccupato, e il padre, furioso, e la madre, angosciata, si rese conto fuggevolmente di non essersi accorta che stavano succedendo cose orrende, importanti.