125675.fb2 Pianeta di caccia - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 13

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Quando arrivò con gli altri a Klive, Marjorie varcò subito il Cancello della Muta, uno dei due ingressi alla villa che le erano noti, oltre che il più vicino alla prima superficie, e attraversò il terrazzo che dominava il prato, diretta verso l’atrio.

Rapidamente Sylvan le andò incontro: — Marjorie! — disse con sgomento, sottovoce. — Che fate qui?

— Intendo raccogliere tutte le possibili informazioni su Stella — rispose Marjorie, irata e implorante al tempo stesso, incrociando le braccia sul petto.

Sylvan la prese per un braccio, conducendola lontano dalle porte finestre: — Voi Yrarier siete proprio amanti del rischio! In nome di tutto quello che avete di più caro, Marjorie! Non dovete farvi vedere! Scendiamo in giardino.

Mentre Marjorie seguiva il giovane con una certa riluttanza, una voce stentorea fece trasalire entrambi: — Che fate qui? — Torreggiante, arrossito di furore, Stavenger comparve in cima alla scalinata. — Sto parlando a voi, fragras! - Aveva i pugni serrati, come se fosse pronto a colpire.

D’un tratto, Marjorie giunse al culmine della frustrazione e della collera: — Voi! — strillò, ergendosi in tutta la propria statura e levando un braccio ad indicare minacciosamente l’obermun. — Voi siete un essere empio! Siete un mostro!

Scosso da un tremito, Stavenger tacque, sbalordito e disorientato, poiché non era abituato ad essere sfidato e biasimato.

— Siete un corruttore di giovani! Siete un barbaro! — continuò Marjorie. — Dove avete visto mia figlia per l’ultima volta? — E avanzò, agitando l’indice come se fosse una sciabola.

— Non l’ho mai vista — ringhiò Stavenger. — Non guardavo!

— Come può un maestro di caccia non osservare i cacciatori? — tuonò Marjorie. — Siete dunque schiavizzati a tal punto dalle vostre cavalcature, che diventate insensibili?

Sempre più rosso in viso, coi muscoli del collo contratti e gli occhi stralunati, Stavenger avanzò come un demonio, lanciando grida inarticolate.

Allora Sylvan afferrò Marjorie e la trascinò via, sibilandole un ammonimento in tono spaventato: — Muovetevi! Non esiterebbe ad uccidervi! — Scese la scalinata, percorse il Viottolo dei Veltri, varcò il Cancello della Muta, e si chiuse alle spalle il solido battente, mentre le grida insensate dell’obermun echeggiavano sulla prima superficie. Pallidissimo, si addossò al cancello: — Posso fornirvi l’informazione che cercate. Ho chiesto a Shevlok e ad alcuni altri, anche se, a dir la verità, so che durante la Caccia non fanno gran caso a quel che succede loro intorno. Comunque, Stella è stata veduta per l’ultima volta al Boschetto Darenfeld, proprio come accadde a Dimity e Janetta.

— Accompagnatemi! — ordinò Marjorie, balzando in sella a Don Chisciotte. — Subito!

— Marjorie.

— Subito! Potete montare Ragazza Irlandese: è molto più piccola dei mostri a cui siete abituato. — Si accorse che Sylvan guardava la giumenta con occhi vacui e spiegò: — Quella è la staffa: infilateci il piede sinistro, poi aggrappatevi alla sella e issatevi. La giumenta non vi offrirà la zampa come gradino. Adesso prendete le redini, come ho fatto io, ma non usatele: ci penserà la cavalla a seguire noi. E ora, conducetemi a quel bosco!

I cavalieri erano partiti da poco nella direzione indicata da Sylvan, quando il cancello fu rumorosamente spalancato, e Stavenger comparve, sempre urlando. Tutti si volsero ad osservarlo per un attimo, poi riguardarono risolutamente avanti, addentrandosi nelle erbe alte, che presto nascosero l’obermun alla vista.

Nel cavalcare in assoluto silenzio, Sylvan puntò i piedi di tanto in tanto, come se cercasse i butteri che gli Hippae avevano fra le costole.

— State fermo — gli disse finalmente Marjorie. — Ragazza Irlandese non ha corna per trafiggervi. Piuttosto, curvatevi ad accarezzarla: le piace.

Lentamente, quasi con timore, Sylvan seguì il suggerimento, e poco a poco si rilassò.

— Questi sono animali molto diversi, vero? — commentò frate Mainoa. — Soffro parecchio perché non sono abituato a questa posizione, però non ho paura.

— Certo — convenne distrattamente Sylvan. — Ma, a dire il vero, non si ha paura neppure durante la Caccia. — Poi guardò attorno, come se cercasse un punto di riferimento. — Là — disse, indicando innanzi, un po’ a destra. — Quello è il Giardino dell’Oceano. Di solito, durante la Caccia, si segue un’altra via, ma adesso conviene andare di qua. — Mostrò la direzione a Marjorie, si lasciò precedere, e continuò a darle indicazioni.

— Perché vostro padre era così furioso? — chiese Tony.

— A causa di vostro padre. Ieri sera, al ritorno dalla Caccia, Roderigo ha chiesto aiuto per cercare vostra sorella, e questo non è ammesso. Quando qualcuno scompare, tutti fingono di non accorgersene: non cercano, né chiedono aiuto. Mio padre non ha tollerato il comportamento di vostro padre, perciò è ancora furioso. Vedervi arrivare, e sentirsi accusato da vostra madre, lo ha fatto esplodere. — Sylvan s’interruppe, sgranando gli occhi, e si massaggiò la gola: — Ma, come posso…

— Non ci sono Hippae nelle vicinanze — mormorò frate Mainoa. — Almeno per il momento. Credo che, be’, che le nostre guide li abbiano spaventati e allontanati. O forse sono andati a chiedere rinforzi.

— Quali guide?

— Non parliamone, adesso. A suo tempo forse lo faremo, ma questo non è certo il momento più adatto. Non bisogna neppure pensare al cibo, quando si è circondati da creature affamate.

Guardando attorno, incredulo, Sylvan continuò a massaggiarsi la gola. Soltanto dopo aver percorso alcune miglia nella prateria si tranquillizzò. Di quando in quando si rizzò in piedi sulla sella, poi si accorse che ciò sconcertava Marjorie, e spiegò: — Devo farlo per orientarmi. — E indicò in lontananza: — Laggiù ci sono le alture che conducono al bosco.

Deviando nella direzione indicata, i cavalieri giunsero a una bassa dorsale, salirono fino al crinale, e videro una valle cosparsa di boschetti.

Sylvan indicò il bosco più vasto: — Quello è il Boschetto Darenfeld.

— Perché Darenfeld? — chiese Rillibee. — Non ci sono bon con questo nome.

— C’erano — rispose Sylvan. — In origine, le famiglie aristocratiche erano undici. Alcune generazioni fa, l’intera famiglia Darenfeld perì nell’incendio che distrusse l’estancia. In precedenza, altre famiglie avevano subito la medesima sorte.

— Un incendio? — chiese Marjorie. — Non ne abbiamo veduti, da quando siamo qui.

— Perché non eravate qua in estate. — Sylvan volse lo sguardo all’orizzonte. — Durante l’estate non piove quasi mai, però i lampi sono frequenti, e gli incendi, come onde immani, divorano la prateria, innalzando nuvole di fumo sino al cielo. Talvolta gli incendi scoppiano anche in primavera, tuttavia sono più circoscritti, perché l’erba è ancora fresca e umida.

— Dunque un incendio estivo bruciò l’estancia Darenfeld?

— Accadde prima che si creassero i giardini d’erba — intervenne frate Mainoa. — Noi del Monastero abbiamo concepito i giardini proprio per bloccare gli incendi, mediante prati e sentieri di erba corta: quando incontrano zone di erba corta, che non divampa, le fiamme le aggirano, anziché divorarle. Così abbiamo protetto il Monastero, Collina d’Opale e tutte le altre estancia. I grandi giardini di Klive non sono stati creati semplicemente per amore della bellezza.

— È vero — annuì Sylvan. — Nessun bon si sarebbe mai preso tanto disturbo per una mera soddisfazione estetica.

Intanto, gli zoccoli dei cavalli cominciarono ad affondare nel terreno acquitrinoso. Il bosco di piante enormi, dalle radici contorte e dai rami grossi come alberi terrestri, divenne tanto più tenebroso e misterioso quanto più i cavalieri vi si avvicinavano, ma Rillibee si allungò innanzi a scrutarlo come se fosse un’amante a lungo desiderata.

— E adesso? — domandò Tony.

— Dobbiamo cercare le tracce lasciate dagli Hippae montati dai cacciatori: dovrebbero esservi il sentiero largo lasciato dal gruppo, e quello stretto lasciato da un solo Hippae.

— Quantunque sia chiamata «boschetto» — avvertì frate Mainoa — questa è in realtà una piccola foresta. Secondo voi quanto è ampia, Sylvan? Mezzo miglio o più?

Sylvan scosse la testa: — Purtroppo i cacciatori non si curano molto delle distanze, giacché durante la battuta non hanno importanza. Non usiamo nessuna misura di lunghezza: calcoliamo semplicemente la durata della Caccia.

— Dal crinale mi è sembrato circa mezzo miglio — dichiarò padre James. — La foresta è abbastanza ampia da nascondere moltissimi Hippae.

— Se non troveremo una traccia che ne esce disse Marjorie, con veemenza — frugheremo l’intera foresta. — Scrutando i compagni uno ad uno, per averne il consenso, notò che frate Mainoa era immobile in sella, all’erta, come se udisse qualcosa che gli altri non potevano percepire. — Frate Mainoa. Frate Mainoa!

Inarcando le sopracciglia, il vecchio monaco le sorrise: — Sì, certamente, sono d’accordo. Ma prima cerchiamo le tracce.

Non fu difficile trovare l’ampio sentiero, percorso di recente da vari gruppi di cacciatori, come testimoniavano le erbe schiacciate, in parte secche, in parte ancora verdi. A un certo punto, frate Mainoa fermò Stella Azzurra, indicando a sinistra, dove un sentiero più stretto si addentrava sinuosamente nella prateria. Padre James raccolse uno stelo spezzato, ancora fresco, e lo porse a Marjorie, la quale commentò: — Ci siamo.

— Se Stella è stata rapita da un Hippae — chiese Tony, sforzandosi di restare impassibile — come possiamo liberarla?

— Nascondendoci — rispose Marjorie. — Aspettando che la lasci sola, e portandola via.

— Vorrei che fossimo armati — disse padre James.

— Lo vorrei anch’io — ammise Marjorie. — Però non abbiamo armi.

Il prete scosse lievemente la testa: — Speriamo di dover affrontare soltanto un mostro.

Per tutta la mattina Rigo attese con crescente impazienza che l’aeromobile fosse riparato, ma il lavoro richiese più tempo del previsto, perché Sebastian dovette recarsi nella propria officina, al villaggio, per eseguire alcune modifiche necessarie ai pezzi di ricambio.

Verso metà pomeriggio, il primo aeromobile fu in grado di partire. Sebastian e Persun condussero Rigo a Klive in poco più di un’ora, sorvolando l’estremità meridionale della foresta palustre che circondava il Comune, e atterrando sullo spiazzo ghiaiato presso la prima superficie.

Mentre i tre uomini attraversavano il prato, Amy chiamò dalla base della scalinata, nascosta dietro la balaustra: — Vostra Eccellenza! Vostra Eccellenza!

Sorpreso, Rigo si volse e vide che la ragazza, con un cenno, lo esortava ad avvicinarsi. Benché impaziente di entrare nella villa per cercare Marjorie, si accostò alla figlia dell’obermun.

— Vostra moglie e vostro figlio sono partiti coi Frati Verdi — disse Amy.

— Per dove?

Scuotendo la testa, Amy cominciò improvvisamente a piangere: — Non dovete salire! Papà è così furioso che vi ucciderebbe. Ha già quasi ammazzato Emmy! Vostra moglie è venuta a chiedere dove fosse scomparsa vostra figlia, e lo ha saputo da Sylvan, che aveva chiesto a Shevlok. Sono partiti tutti, compreso Sylvan. Da allora, papà non ha fatto altro che dare in escandescenze, e quando Emmy ha cercato di calmarlo, l’ha picchiata!

In quel momento, un ruggito provenne dal terrazzo.

Mentre Amy fuggiva di corsa costeggiando la casa, Rigo fece per salire i gradini, ma Sebastian e Persun lo trattennero saldamente per le braccia, decisi a portarlo via da Klive, anche con la forza: — Non salite, signore. L’obermun non intenderà ragione. Sentitelo: muggisce come un toro infuriato!

— Seguite il consiglio di Persun, signore. Stavenger vi negherebbe qualsiasi aiuto, in questo momento. Dovete attendere che si calmi. Anzi, dovete aspettare di poter parlare con qualcun altro.

— Domani, alla Caccia dai bon Lapmon — suggerì Persun.

Così, Rigo fu trascinato a bordo dell’aeromobile. Fece resistenza, ma non protestò, — come se la sua mente si rendesse conto che il consiglio era giusto, e il suo corpo invece si opponesse.

Nel percorrere in fila indiana il sentiero tortuoso, in silenzio, col sole alle spalle, i cavalieri rimasero dapprima all’erta, poi, mentre le miglia si susseguivano, divennero sempre più distratti. I due monaci, per nulla abituati a cavalcare, erano tormentati dal dolore alle gambe e alla schiena; Sylvan pensava a Marjorie, la quale pensava a Rigo; padre James pregava di non aver commesso un grave errore nell’unirsi alla spedizione; e Tony pensava a una ragazza che non vedeva più da molto tempo. Sostarono soltanto un paio di volte a bere ed orinare, ma brevemente, perché la prateria era così misteriosa e minacciosa che li spronava a continuare il viaggio. Le sferzate inflitte dalle erbe divennero ipnotiche. Persino Marjorie, che di solito era attentissima alle minime sfumature del comportamento equino, non si accorse che i cavalli agivano in modo molto simile a come aveva fatto Don Chisciotte durante la sua solitaria spedizione all’antro degli Hippae: procedevano con le orecchie orientate innanzi, come se stessero tornando a casa e qualcuno parlasse loro. Nel silenzio si udiva soltanto il loro zoccolio.

Quando sui loro volti cadevano ormai i raggi obliqui del sole al tramonto, i cavalieri udirono alle loro spalle il primo ululato, proveniente da lontano, sulla destra.

Marjorie, che aveva già udito quel richiamo, provò un istantaneo terrore.

— Gli Hippae — annunciò Sylvan, in tono disperato. — Si sono accorti della nostra presenza.

— Non ancora — obiettò frate Mainoa.

— Come lo sapete? — chiese Marjorie.

— Voi mi avete chiesto aiuto, lady Westriding, e io vi sto aiutando. Per il momento non possiamo ancora discutere del come e del perché. Posso garantirvi che gli Hippae non si sono accorti di noi, ma che presto ci scopriranno. Suggerirei di procedere più rapidamente.

Allora Tony ripartì al piccolo galoppo, seguito dagli altri. Accortasi che i due monaci, brontolando per lo sforzo, si aggrappavano alle selle, Marjorie gridò: — Puntate i piedi! Tenete dritta la schiena! Non è più difficile che stare su una sedia a dondolo!

Frate Mainoa obbedì, e dopo un poco si abituò all’andatura di Stella Azzurra, mentre Rillibee, che era entusiasmato dalla corsa, e sorrideva, sferzato in viso dalle erbe, fu ancora più rapido nell’adattarsi.

Intanto, gli ululati si moltiplicavano alle loro spalle, sia sulla destra che sulla sinistra.

Marjorie girò la testa a chiedere: — Sapete dove stiamo andando?

— Avanti — brontolò Mainoa. — Nella foresta palustre.

Subito dopo, i cavalieri sbucarono dalle erbe sulla cima di un colle e videro che il sentiero, attraverso una prateria alta fin quasi alle spalle dei cavalli, correva dritto come una freccia verso un’altura rocciosa che svettava dalla foresta palustre, la quale si scorgeva in lontananza, lungo tutto l’orizzonte.

— I cavalli possono correre più veloci? — domandò Mainoa, con voce lamentosa. — Se sì, non dovremmo esitare!

In quello stesso momento, come se avessero preso la medesima decisione o fossero stati avvertiti, El Dia Octavo e Don Chisciotte si lanciarono spontaneamente alla carriera giù per il declivio, con le code sventolanti e le orecchie appiattite, seguiti dalle giumente, ultima delle quali era Ragazza Irlandese.

In preda al panico, come in un incubo, Mainoa si convinse di essere sul punto di cadere da un momento all’altro, mentre Stella Azzurra sembrava risoluta a tenerlo in sella. Quando lo zoccolio tuonante dei cavalli fu sovrastato dagli ululati provenienti dalla cima del colle, il vecchio monaco non osò girarsi a guardare a quale distanza fossero gli Hippae. Fu Sylvan a volgersi, aggrappato a una delle bisacce enormi di Ragazza Irlandese.

Dodici mostri enormi e scalpitanti indugiarono un momento sul crinale, circondati da un branco di veltri abbaianti, quindi ripartirono all’inseguimento giù per il versante, e non in silenzio, come quando cacciavano le volpi, bensì emettendo strilli assordanti.

Rigirandosi, Sylvan vide che gli altri cavalli, più veloci, avevano staccato Ragazza Irlandese. Allora le si allungò sul collo per sussurrarle all’orecchio: — Fai del tuo meglio, mia lady, perché altrimenti credo che ci faranno a pezzi tutti e due. — E si rivolse ad osservare gli inseguitori.

Il gigantesco Hippae dalle chiazze viola che guidava il gruppo, con le fauci spalancate e le narici dilatate, inciampò ripetutamente e cadde, stralunando gli occhi, mentre un’onda increspava le erbe, allontanandosi da lui con gran celerità, e gli altri mostri rallentavano, perplessi.

— Vai! — esortò Sylvan. — Vai, lady! Corri più forte che puoi! — E subito Ragazza Irlandese gli rispose, moltiplicando i propri sforzi, ma continuando a perdere terreno rispetto agli altri cavalli.

Ululando, gli Hippae continuarono l’inseguimento, ma ancora una volta il primo del gruppo crollò, e un’altra onda si allontanò increspando le erbe.

Frattanto, El Dia Octavo raggiunse la foresta, seguito da Don Chisciotte, Millefiori, Stella Azzurra e Sua Maestà. I cavalieri smontarono per attendere Sylvan.

Un veltro si affiancò a Ragazza Irlandese, cercando di azzannarle le zampe, ma all’improvviso, fra l’erba che s’increspava, fu rapito da una creatura dalle zanne lucenti, e strillò. Subito dopo anche il resto del branco strillò, e gli ululati divennero sempre più fiochi, lontani.

— Brava, Ragazza! — sussurrò Sylvan, mentre la giumenta ansimava e sbavava, col manto viscido di sudore. — Brava, Ragazza! — Raggiunti finalmente i compagni, si girò ad osservare la prateria, che s’increspava ripetutamente come un mare agitato, percorsa da misteriose creature di cui gli Hippae e i veltri erano ben consapevoli, giacché restavano a distanza, seppure scalpitando e strillando in segno di sfida.

Marjorie si avvicinò a Ragazza Irlandese, che stava immobile a testa china: — Ah, Ragazza, Ragazza. Povera giumenta. Non sei nata per correre, Ragazza, ma sei così coraggiosa! Che meravigliosa giumenta! — Sempre parlandole, la condusse a passeggiare lentamente in cerchio, finché, poco a poco, essa rialzò la testa.

— E adesso dove andiamo? — chiese Tony. — Non possiamo certo avventurarci nella foresta! — E indicò gli alberi frondosi, all’ombra dei quali scintillava l’acquitrino.

— È proprio là che andremo — rispose frate Mainoa. — Seguitemi.

— Ci siete già stato?

— No.

— Ma allora…

— Non ero mai stato neanche a cavallo nella prateria, prima d’oggi. Eppure siamo qui. Per il momento la minaccia è passata, perché siamo stati guidati e protetti.

— Da chi?

— Non ve lo dirò fino a quando non saremo al sicuro. Quelle creature — aggiunse, accennando agli Hippae — possono leggere i vostri pensieri. Dobbiamo addentrarci nella foresta, perché la barriera che ci separa da loro è più finta che reale. Forse gli Hippae se ne renderanno conto, se resteremo qua troppo a lungo.

Tony scambiò un’occhiata con la madre, come per avere il suo permesso, mentre padre James rimontava in sella. Con un sospiro, frate Mainoa fece altrettanto, aiutato da frate Lourai. Sylvan non era neppure smontato da Ragazza Irlandese.

— Andiamo — disse Marjorie.

Stella Azzurra si avviò nell’acquitrino, fra tronchi torreggiami e folti canneti, seguita dagli altri, tracciando un percorso sinuoso, con cambi di direzione bruschi e frequenti: — Procedete esattamente sulle sue tracce — avvertì frate Mainoa, con voce rauca. — Sta evitando i luoghi pericolosi. — E così, diguazzando, i cavalieri avanzarono lentamente nella foresta dietro a Stella Azzurra, che era a sua volta misteriosamente guidata.

Quando le praterie non furono più visibili, Stella Azzurra proseguì dritto, senza più deviare, per miglia e miglia, fra due impenetrabili pareti d’alberi, per un canale poco profondo che sembrava interminabile; poi, finalmente, presso una breccia nella foresta, salì la bassa riva e giunse su terreno solido.

— È un’isola? — chiese Marjorie.

— Siamo al sicuro — sospirò Mainoa, prima di lasciarsi cadere di sella e giacere al suolo.

— Com’è possibile?

— Né gli Hippae né i veltri arriveranno fin qua — rispose Mainoa, supino. Cercò di fissare i raggi del sole che filtravano tra le fronde, scintillando come gemme, ma i suoi occhi non volevano restare aperti.

— Eppure un Hippae è entrato nella foresta — obiettò Marjorie. — Abbiamo visto la traccia.

— È arrivato soltanto fino alla palude. Credo che poi l’abbia costeggiata. — Mainoa spalancò la bocca e cominciò a russare piano.

— È vecchio — disse Rillibee in tono di sfida, come se gli altri avessero accusato frate Mainoa di essersi comportato male. — Capita spesso che si addormenti così.

Sylvan smontò: — Cosa posso fare per lei? — chiese a Marjorie, accarezzando la giumenta.

— Strigliatela con una manciata di foglie o di erba. Poi le toglierete la sella, se rimarremo qui a lungo.

— Non possiamo proseguire prima che frate Mainoa si svegli — osservò Tony, indicando il monaco supino.

— E neanche prima che i cavalli si siano riposati un po’ — sospirò Marjorie. — Hanno viaggiato per un giorno intero, senza contare quest’ultima corsa sfrenata. — E si volse a Sylvan: — Non lasciatela bere molto. Inoltre, prima di abbeverarla, fatela passeggiare fino a quando si sarà raffreddata.

— Altrimenti morirebbe? — chiese Sylvan.

— Potrebbe star male — rispose Tony. Alzò lo sguardo, vide scintillare i raggi solari molto in alto, e intravide qualcosa che intercettava la luce. — Cosa c’è lassù? — domandò, alzando un braccio per indicare.

Sylvan si volse a guardare: — Dove?

— Dalla cima di questo albero a quell’altro.

— Questa isola è piuttosto vasta — interruppe padre James, di ritorno da una breve esplorazione. — C’è anche una radura erbosa dove i cavalli possono pascolare.

Rillibee depose contro una radice sporgente le bardature che aveva tolto nel frattempo a Stella Azzurra e Sua Maestà: — Il sole è già basso. Fra poco sarà troppo buio per cavalcare.

— Quanto dormirà frate Mainoa?

— Finché ne avrà bisogno — scrollò le spalle Rillibee. — È sveglio da molto tempo e ha quasi sempre cavalcato. Come ho già detto, è vecchio.

Marjorie annuì: — Bene, allora. Se riposa lui, tanto vale che riposiamo tutti. Tony?

Il ragazzo indicò di nuovo la cima dell’albero: — Stavamo cercando di capire.

— Cerca piuttosto di trovare legna, finché c’è luce. Per favore, Sylvan, aiutatelo. Abbiamo bisogno di legna sufficiente a riscaldarci per tutta la notte. E voi, padre James, se volete riempire questo secchio con l’acqua più pulita che trovate.

— E io? — chiese frate Lourai.

— Mi aiuterete a cucinare — rispose Marjorie, frugando nelle capaci bisacce di Ragazza Irlandese. — Dopo cena discuteremo il da farsi.

Quando Tony usò il coltello laser per tagliare una bracciata di legna, Sylvan esclamò: — Cos’è quello? Consegnandoglielo, Tony gli spiegò di che cosa si trattava.

— È un attrezzo nuovo? — chiese Sylvan.

— No di certo.

— Non lo avevo mai visto — confessò Sylvan, meravigliato. — Perché?

— Ve lo avranno tenuto nascosto. Sarebbe un’ottima arma.

— Non ne dubito. — Sylvan esaminò per un poco il coltello laser, poi, con un sospiro, lo riconsegnò a Tony e cominciò a trasportar legna al bivacco: Che meraviglia! pensò. Perché non ho mai saputo dell’esistenza di simili attrezzi?

La cena era ormai pronta, quando frate Mainoa si svegliò e fu ben lieto di unirsi ai compagni per rifocillarsi. Dopo aver mangiato e rigovernato, sedettero tutti intorno al fuoco ad aspettare.

Marjorie esordì: — Ebbene, frate Mainoa, eccoci qua.

Il vecchio monaco annuì.

— Abbiamo fatto progressi nella ricerca di Stella?

— La traccia costeggiava la foresta palustre, ma purtroppo all’esterno, dove non avremmo potuto rimanere.

— La seguiremo domani?

— Forse, se gli Hippae se ne saranno andati. Di notte, naturalmente, sarebbe impossibile.

Marjorie si limitò a sospirare.

— Non preoccuparti, mamma — intervenne Tony. — I cavalli non avrebbero potuto proseguire ancora per molto.

— Voi sapete molte cose — dichiarò Marjorie, continuando a scrutare il vecchio monaco. — È ovvio che ne sapete molto di più di quanto ci avete detto.

Mainoa scrollò le spalle: — Non posso ancora rivelarvi quello che so, o credo di sapere. Domani, forse.

— Deciderete voi? — insistette Marjorie, con sguardo penetrante.

— No — ammise il frate. — La decisione non sarà mia.

— Cosa vogliono? Esaminarci?

Mainoa annuì.

— Ma di chi state parlando, voi due? — chiese Tony.

— Già, Marjorie — aggiunse Sylvan. — Cosa.

— Sylvan, Tony, vi prego. — Padre James scambiò un’occhiata con Marjorie. — Lasciate perdere, per il momento. Forse frate Mainoa ha già approfittato della sua amicizia con, be’, quelle potenze che ci hanno assistito.

— Vi siete espresso bene, padre — sorrise Mainoa. — Ora, lady Westriding, vi suggerirei di riposare, se ci riuscite, o meglio ancora di dormire. Qui siamo del tutto al sicuro.

Se si fosse trovata in pericolo, Marjorie avrebbe avuto almeno l’illusione di fare qualcosa. Invece, sapere di essere al sicuro le dava l’impressione di perder tempo, mentre Stella stava rischiando forse più della vita stessa. Comunque sapeva che frate Mainoa aveva perfettamente ragione. Dato che non poteva ricevere conforto dai compagni, andò dai cavalli che pascolavano nella radura, si appoggiò a Don Chisciotte, e finalmente si rese conto della propria spossatezza. Poco dopo, quando ritornò al bivacco, vide che gli altri si erano già coricati intorno al fuoco. Allora Tony le indicò il giaciglio che le aveva preparato dietro alcuni cespugli, in disparte. Grata al figlio per la sollecitudine, Marjorie andò finalmente a dormire.

Nel silenzio si udivano soltanto il lieve russare di frate Mainoa, il gracidare delle rane nella prateria lontana, e i richiami delle ignote creature della palude.

Nonostante fosse convinta di non poter dormire, Marjorie fu sommersa da un placido sonno senza sogni come da una nera onda inarrestabile. Perse ogni consapevolezza del trascorrere del tempo, fin quando non si sentì scuotere lievemente.

— Lady — chiamò Rillibee. — Sento qualcosa.

Marjorie si alzò a sedere: — Che ore sono?

— Circa mezzanotte. Ascoltate, lady. Ecco il suono che mi ha svegliato. Possibile che siano persone?

Marjorie trattenne il fiato, e dopo qualche momento udì alcune voci portate dalla brezza notturna che si era levata durante il suo sonno: era inequivocabilmente una conversazione, anche se incomprensibile. — Da dove viene? — bisbigliò.

Posandole una mano sulla guancia, Rillibee le fece volgere la testa nella direzione da cui giungeva la conversazione.

— Occorre far luce — sussurrò Marjorie, udendo più chiaramente.

Allora Rillibee accese due torce di cui si era già provvisto e ne consegnò una a Marjorie. Insieme attraversarono la radura dove i cavalli stavano ancora pascolando, poi rientrarono nella foresta. Il giovane indicò le cime degli alberi: la conversazione proveniva da lassù.

Marjorie pensò: Non possono essere persone. Le voci sono troppo sibilanti. Eppure. Poi disse: — Sembrano le voci che si sentono alle rovine arbai.

Scrutando in alto, Rillibee annuì: — Vado a vedere.

Marjorie lo prese per un braccio: — È troppo buio!

Il ragazzo scosse la testa: — Se necessario, mi arrampicherò a tastoni. Ma voi non rimanete qua ad aspettarmi: tornate dagli altri.

— Cadrete!

— Io? — Rillibee rise. — Oh, lady! Al Monastero mi chiamano Willy Climb: ho mani e piedi da lucertola, ginocchia adesive, e l’equilibrio di uno stambecco! Non rischierò di cadere più di quanto rischierebbe una scimmia fra le liane. Tornate dagli altri, lady. — Ciò detto, salì come un quadrumane, con la torcia appesa al collo e la luce che dondolava sull’albero immenso, rimpicciolendo man mano che si allontanava.

Quando l’occhio di luce si fu come spento, Marjorie tornò al bivacco, sicurissima di non poter riprendere sonno. Eppure, quando si fu coricata, ebbe soltanto il tempo di chiedersi che cosa avrebbe scoperto frate Lourai tra le fronde, prima che il sonno in agguato la risucchiasse nelle sue profondità.

Al Monastero, il priore Fuasoi rimase in ufficio sino a tarda ora, sfogliando rabbiosamente un quaderno, mentre Yavi Foosh sedeva sconsolato su una sedia vicina, a sbadigliare, nell’arduo tentativo di resistere al sonno.

Forse per la decima volta, Fuasoi domandò: — Nessuna notizia di Mainoa o di Lourai?

— No, priore.

— E non hanno proprio detto a nessuno dove andavano?

— Non c’era nessuno a cui potessero dirlo, priore: erano del tutto soli alle rovine. Il turno alla biblioteca è cambiato tre giorni fa. Soltanto questa sera Shoethai e io abbiamo accompagnato i rimpiazzi. E quando siamo andati a cercare Mainoa, non abbiamo trovato né lui né Lourai. Eppure abbiamo cercato per tutte le rovine, priore. — Yavi sospirò, esasperato: aveva già ripetuto il rapporto altre quattro volte.

— E dove avete trovato questo quaderno?

— Lo ha trovato Shoethai sulla scrivania di frate Mainoa, mentre cercava un eventuale messaggio. Non ha trovato nessun altro scritto, ma vi ha portato subito questo.

Furioso, il priore fissò ancora una volta il diario: in poche pagine scritte nella calligrafia di frate Mainoa si parlava della peste e dei motivi per cui essa non si era diffusa su Grass; e degli Ammuffiti, che forse avevano emissari su Grass, nonché dei loro possibili piani; e di coloro che soggiornavano a Collina d’Opale, i quali, incaricati dalla Santità di trovare una cura per la peste e di scoprire perché essa non esisteva su Grass, stavano contrastando i piani degli Ammuffiti.

Con una rabbiosa imprecazione, Fuasoi chiuse il diario, sbattendolo sulla scrivania: Finora è stato soltanto un caso, se la peste non si è diffusa su Grass! pensò. Soltanto un puro caso! Il virus non è arrivato perché era lontano. Non è arrivato, e basta! Non può esistere niente che lo distrugga, qua su Grass. Ma se pure esistesse, nessuno dovrebbe saperlo, altrimenti la peste potrebbe essere debellata anche altrove. È dunque necessario fermare Mainoa e la gente di Collina d’Opale.

— Ehm, priore? — mormorò Yavi.

— Che c’è? — ringhiò Fuasoi.

— Potrei andare, ora? Sono qui da molte ore, ormai.

— Vai — brontolò Fuasoi. — Vattene, per l’amor d’Iddio, e mandami Shoethai!

— Shoethai? — chiese Yavi, rammentando che l’altro assistente del vice-direttore della Dottrina Accettabile era stato congedato circa un’ora prima.

— Sei sordo? Ho detto proprio Shoethai! — Fuasoi non credeva certo che il frate deforme potesse essergli d’aiuto, però almeno sarebbe rimasto ad ascoltarlo.

Invece Shoethai, fornendo un suggerimento, suscitò la sorpresa del priore: — Dovreste mandare Granbravone ad inseguirli, con Nodosafune, Mandiguglia, Pontelungo e Pontecorto.

— Di chi diavolo stai parlando?

Shoethai arrossì: — Degli arrampicatori. Ognuno di loro ha un nome speciale. Granbravone è frate Flumzee.

— Perché dovrei servirmi proprio di loro?

— Perché odiano frate Lourai. E lo odiano sia perché arrampica meglio di tutti, sia perché alcuni dei fratelli più giovani lo chiamano Willy Climb.

— Willy Climb?

— È il nome speciale che gli hanno dato, più bello persino di «Granbravone». Quando lo hanno obbligato a salire la torre, frate Lourai è stato più bravo di tutti: è salito, poi è sceso senza farsi catturare. Granbravone lo odia anche perché aveva scommesso che invece sarebbe morto, e ha perso.

— Credi dunque che mi convenga servirmi di loro? Dipende, credo…

— Da cosa, priore?

— Da dove si trova Mainoa.

Shoethai scrollò le spalle, mentre un sogghigno orrendo alterava il suo volto mostruoso: — Non importa affatto: basta che sia con frate Lourai. Granbravone lo ammazzerà dovunque: al Comune, in una estancia, nella prateria. — Poiché Granbravone era sempre stato uno dei suoi più spietati e accaniti persecutori, provava una voluttà ineffabile nell’immaginario nella prateria, alla mercé dei veltri e degli Hippae.

Il priore Fuasoi ripose il diario nel cassetto della scrivania: — Se Mainoa è nella prateria, non dobbiamo più preoccuparci di lui — mormorò fra sé. — No, per prima cosa dobbiamo scoprire dov’è andato. Innanzitutto bisogna provare a Collina d’Opale, che è la meta più probabile. — Detto fatto, si mise in comunicazione con Persun Pollut, il quale, prudente di natura, gli rispose: — Forse frate Mainoa e frate Lourai hanno accompagnato lady Westriding, ma purtroppo non so dirvi dove.

— Ieri, durante la Caccia — disse Shoethai, in tono meditativo — la figlia dell’ambasciatore è scomparsa, non lontano dalla estancia dei bon Damfels. Ne parlano tutti. Forse sono andati là.

Dopo aver scoccato un’occhiata di insolito interesse al suo orribile assistente, poiché non avrebbe mai pensato che si interessasse ai pettegolezzi, Fuasoi usò di nuovo il dimmi: — Alcune persone provenienti da Collina d’Opale sono arrivate a Klive e sono ripartire quasi subito — rispose un membro della famiglia bon Damfels. — Sono andate nella prateria. — E precisò, con una sfumatura di scherno vagamente isterico: — Sono andate nella prateria, al Boschetto Darenfeld.

— Se sono andati nella prateria, avranno lasciato una traccia — rifletté Shoethai. Quindi consigliò, con un sospiro di sollievo: — Mandate Granbravone e gli altri ad inseguirli.

— A piedi?

— Certo che no — rispose Shoethai, meditabondo. — Con un aeromobile, così non avranno difficoltà a trovare la traccia. — E pensò che sarebbe stato facile sabotare un aeromobile in modo che precipitasse nella prateria dopo aver compiuto un lungo tragitto. — Ne preparo subito uno.

— Chi sono questi arrampicatori?

— Frate Flumzee, ossia Granbravone. Frate Niayop, alias Mandiguglia. Frate Sushlee, detto Nodosafune. Frate Thissayim, soprannominato Pontelungo. E frate Lillamool, ovvero Pontecorto. — Shoethai non avrebbe mai potuto dimenticare Bravone, Fune, Guglia, Lungo e Corto, che lo avevano tormentato tante volte: non era necessario che attendessero la peste, visto che non meritavano affatto la Nuova Creazione.

— Ti hanno dato noie? — chiese Fuasoi, accorgendosi della fiamma che ardeva nell’unico occhio del monaco deforme.

Aggrondato, Shoethai si grattò una crosta dalla guancia e si leccò il sangue dalla punta del dito con evidentissima soddisfazione: — Oh, no, priore! è solo che si vantano tanto di esser sempre pronti ad ammazzare qualcuno. — Non accennò al sabotaggio dell’aeromobile, giudicando conveniente che il priore non ne sapesse nulla. Così, Bravone e gli altri non sarebbero più tornati, ma nessuno avrebbe saputo perché.

Subito dopo essere uscito dall’ufficio del priore Fuasoi, Yavi Foosh si recò a quello del priore Jhamlees Zoe, dove attese mezz’ora prima di essere ricevuto.

— Cosa sta tramando Fuasoi? — chiese Jhamlees.

— Shoethai ha trovato un diario scritto da frate Mainoa e lo ha consegnato a Fuasoi, il quale, da quando lo ha letto, è molto turbato.

— Di cosa parla il diario?

— Lo ignoro, priore. Shoethai non mi ha permesso di esaminarlo.

— Avrebbe dovuto portarlo a me!

— Certamente, priore. Tuttavia non lo ha fatto. Ho persino insistito affinché ve lo consegnasse, ma il priore Fuasoi è suo grande amico.

— Credo che scenderò a dare un’occhiata. — Così dicendo, Jhamlees si alzò e uscì nel corridoio.

Yavi lo seguì a notevole distanza, perché se avesse lasciato capire di essere al servizio di Jhamlees, come Shoethai dimostrava di essere al servizio di Fuasoi, nessuno lo avrebbe più lasciato in pace.

La porta era aperta e l’ufficio era vuoto. Per un momento, Jhamlees guardò attorno, poi andò ad aprire il cassetto della scrivania: — È questo? — domandò agitando il quaderno e accennando a Foosh di avvicinarsi.

Yavi annuì: — Sembra proprio di sì.

— Non parlerai a nessuno di tutta questa faccenda, vero?

Yavi scosse la testa: certo che non ne avrebbe parlato. Non avrebbe detto una sola parola, neppure se Zoe avesse rubato tutti i quaderni del mondo.

Di ramo in ramo e di liana in liana, Rillibee si arrampicò sull’albero gigantesco, passando la torcia da una mano all’altra, e un paio di volte anche tenendola in bocca, quando ebbe bisogno di usare entrambe le mani. Arrivato a grande altezza, vide tutt’intorno, nell’ombra densa, foglie o rami illuminati dalla fluorescenza di creature che parevano nebulose verdi, ammassi gialli, galassie indaco punteggiate di blu.

D’un tratto uno stormo di creature alate che pareva una nube di fiori rosa veleggiò sulle ali della brezza, poi, al cader di questa, si posò su un ammasso di fronde che parve prender fuoco. Creature alate più grandi, che avevano il colore e il profumo dei meloni, si spostavano lentamente da un albero all’altro, e quando si posavano, assumevano la forma di coppe in cui pulsava una luce dorata che attraeva altri guizzanti volatili di colore blu, oppure di un azzurro così chiaro che sembrava quasi bianco.

— Avresti amato questa foresta, Joshua — sussurrò Rillibee. — Anche tu l’avresti amata, Miriam.

Defunti e saliti al cielo, disse il pappagallo, dalla cima di un albero.

Mentre alcune foglie dal dolce profumo resinoso gli sfioravano il viso, Rillibee colse un frutto che gli aveva urtato un braccio, lo fiutò, e lo morse, assaporandone il succo aspro, quasi effervescente.

Le voci che aveva udito dal suolo gli erano tutt’intorno: alcune risa allegre, un narratore che interrompeva per un momento una lunga storia, lasciando in trepidante attesa il pubblico attento e partecipe. Chiudendo gli occhi, Rillibee immaginò il narratore appoggiato alla tavola di una taverna, intento a raccontare vivacemente. Poi continuò a salire, con lentezza, e sentì le voci diventare sempre più fioche. Tornò indietro, accarezzando amorevolmente i rami, convinto che alla fine avrebbe trovato coloro che parlavano, là, sugli alberi, fra le creature luminose.

Doveva trovare anche la ragazza, Stella. Ne aveva unito il nome agli altri, che componevano la sua litania: ella sarebbe appartenuta a lui, Rillibee Chime, benché la sua famiglia fosse ricca, importante, e lei stessa fosse così sdegnosa.

In cielo, sussurrò il pappagallo.

Così Rillibee continuò a salire durante le ore notturne, finché, all’alba, trovò coloro che parlavano, mentre i raggi obliqui del sole illuminavano la loro città cadendo tra le foglie di oro struggente.

Il chioccolio dell’acqua e il canto degli uccelli destarono Marjorie, la quale impiegò alcuni istanti a rammentare dove si trovava, e un po’ di più a ricordare le voci di mezzanotte. Con lo sguardo cercò frate Lourai, e invece trovò gli occhi di frate Mainoa.

— Non è ancora tornato — osservò il vecchio monaco.

— Vi siete accorto?

— Mi sono accorto che vi ha svegliata, che ve ne siete andati, e che soltanto voi siete tornata.

— Si è arrampicato lassù. — Marjorie indicò lo scintillar del sole, in alto, fra le fronde. — Mi ha detto che lo chiamano Willy Climb e che non gli sarebbe successo niente.

Mainoa annuì: — Sì, non gli succederà niente. È come voi: quando si trova di fronte a gravi difficoltà, la sua curiosità vince la paura.

Marjorie arrossì: Come mai mi conosce tanto bene? pensò. È vero: sono molto curiosa, mi aspetto sempre qualcosa, un’occasione.

In quel momento tornò padre James con un secchio pieno d’acqua attinta alla sorgente più vicina: — Erano settimane che non dormivo così bene! Però ho fatto sogni molto strani.

— Sì, credo che sia capitato ad ognuno di noi — confermò frate Mainoa. — Alcune creature sono entrate nei nostri sogni.

Improvvisamente preoccupata, Marjorie si alzò, guardando attorno.

— No, no. — Aggrappandosi a una radice sporgente dell’albero più vicino, Mainoa si alzò con lentezza. — Non si tratta di creature ostili, Marjorie. Anche loro sono curiose.

— Loro?

— Le creature che incontreremo oggi stesso, credo, dopo il ritorno di frate Lourai.

— Non ha un altro nome? — chiese Tony.

— Frate Lourai? Oh, certo! Il suo vero nome è Rillibee: Rillibee Chime. Vi sembra forse insolito, come frate?

— Tony pensa che non assomigli affatto ai santificati che abbiamo conosciuto — spiegò Marjorie. — Ha gli occhi troppo grandi, il viso troppo magro e intelligente, la bocca troppo sensibile. Per me i santificati sono grassi, zelanti, tendono al semplicismo, e hanno un gran bisogno di risposte. Piuttosto sono gli antichi cattolici ad essere snelli, ascetici, con occhi grandi da filosofi. Ammetto che si tratta di stereotipi e me ne vergogno, tuttavia non riesco a sbarazzarmene, neppure quando mi guardo allo specchio. Voi stesso, fratello, non avete certo l’aspetto del santificato. Immagino però che usiate il nome «Mainoa» da troppo tempo per rinunciarvi. — E distolse il viso per evitare lo sguardo divertito e scrutatore di padre James.

— Da fin troppo tempo! — convenne Mainoa, con una risata. — Ma chiamate pure Rillibee col suo vero nome: ve ne sarà grato, perché per lui significa molto.

— Oggi dobbiamo andare a cercare la traccia — disse Marjorie.

— Forse potremo farlo soltanto fra un paio di giorni — obiettò Mainoa.

Marjorie si volse di scatto a fronteggiarlo, sul punto di strillare per l’esasperazione e la frustrazione.

Allora padre James le posò una mano sul braccio: — Pazienza, Marjorie. Non lasciarti ossessionare. Rilassati un poco.

— Avete ragione, padre. Ma continuo a pensare a quello che forse sta succedendo a Stella.

Anche padre James ci pensava. Fin troppo spesso rammentava certe mostruosità che gli erano state rivelate in confessione, e perversioni ed orrori al di là della sua immaginazione, di cui aveva letto. Non sapeva perché questi ricordi si associassero nella sua mente agli Hippae, tuttavia era proprio così. — La troveremo, Marjorie — assicurò, dimenticando per il momento quei pensieri terribili. — Abbi fiducia in frate Mainoa.

Marjorie assentì, sia perché si fidava del vecchio monaco, sia perché non aveva altra scelta.

Consumata una colazione fredda, si lavarono tutti in un placido laghetto. Poi Marjorie e Tony esaminarono le zampe e gli zoccoli dei cavalli, che, nonostante la fuga disperata del giorno precedente, apparivano indenni.

Quantunque avesse fatto del suo meglio per restare calma, Marjorie era ormai sul punto di esplodere per l’impazienza, quando Rillibee chiamò dall’alto e scese come una scimmia dai rampicanti di un albero: — Ho tardato a tornare — spiegò — perché mi ero un po’ disorientato. Di giorno la foresta è molto diversa.

— Avete trovato coloro che parlavano? — chiese subito Marjorie.

— Ho trovato la loro città. Dovete venire a vederla.

— Ma dobbiamo andare di là — indicò Marjorie — a cercare la traccia.

— Credo invece che dovremmo salire — insistette Rillibee.

— Sì, se è possibile — convenne frate Mainoa.

— Ho impiegato parecchio a tornare, anche perché ho cercato una via adatta ai cavalli — riprese Rillibee. — Dobbiamo andare di là — soggiunse, indicando il cuore della palude. — Poi saliremo.

— Perché? — protestò Marjorie. — Stella non è là!

— La traccia è nella prateria, Marjorie — spiegò Mamoa. — Ma mentre voi dormivate ancora, Tony ed io siamo tornati al margine della foresta e abbiamo visto che gli Hippae non se ne sono affatto andati. Non possiamo seguire la traccia nella prateria, per ora.

— Ma perché dovremmo andare lassù? — Marjorie gesticolò, sforzandosi di trattenere le lacrime. — Per l’amor d’Iddio! Non ho nessuna intenzione di ammirare il paesaggio!

— Forse dovremo andare proprio per amore di Dio — intervenne padre James. — Sapete cosa troveremo lassù, frate Mainoa?

— Lo sospetto, fin da quando sono arrivati da Semling i risultati della ricerca.

— Di cosa si tratta?

— Credo che sia l’ultima città degli Arbai: l’ultima in assoluto. — Frate Mainoa rifiutò di dire altro, sostenendo di non saper nulla.

Interrogato a sua volta, Rillibee rispose che avrebbero visto coi loro occhi; poi li guidò, a cavallo, nella palude. Si fermò di quando in quando a guardare gli alberi, mentre i compagni attendevano, e una volta smontò per appoggiarsi a un albero come se fosse un amico.

Durante una di queste pause, Sylvan fece per dire qualcosa, ma frate Mainoa lo indusse a tacere posandogli una mano sulla spalla.

Finalmente giunsero a un’isola molto vasta, con una collina al centro, dove trovarono un monumento che assomigliava molto a quello che avevano veduto nella piazza delle rovine arbai.

Incredula, perché non era stata affatto persuasa dalle parole del vecchio frate, Marjorie fissò il monumento e sussurrò: — Arbai?

Rillibee indicò un sentiero tortuoso che saliva il versante della collina, verso uno strapiombo: — Sono sceso di là. Possiamo lasciare qua i cavalli: saranno al sicuro.

Smontarono in silenzio, per non turbare le voci che giungevano dall’alto: conversazioni, canti, narrazioni, risate fioche.

Allo strapiombo, un solido ponte costruito con erbe e liane intrecciate in ornati a forma di volute, foglie e frutta multicolori, varcava un baratro di sessanta metri e conduceva nell’ombra della foresta.

Sempre guidati da Rillibee, Marjorie e gli altri attraversarono il ponte, si addentrarono fra gli alberi, e giunsero finalmente a una città arborica. Le case, costruite con erbe e liane intrecciate, pendevano dai rami come frutta o come nidi di rigogoli, collegate le une alle altre da ponti sospesi e scale di funi. La luce che filtrava tra le fronde chiazzava le volte a cupola — e i tetti a capanna. Evanescenti come ombre e vagamente simili ai rettili, gli abitanti avevano gli occhi splendenti di allegria e si muovevano con grazia estrema: si affacciavano alle finestre, chiacchieravano nelle stanze, conversavano passeggiando sui ponti, con le voci che diventavano più limpide al loro avvicinarsi, più indistinte al loro allontanarsi, e si stringevano cordialmente la mano quando si incontravano.

Eppure la città era deserta, abbandonata.

Due amanti si abbracciavano, addossati alla sponda di un ponte, scrutandosi con occhi radiosi: quando Rillibee li attraversò, i loro visi e i loro corpi si deformarono, scivolando su di lui come acqua colorata, ma appena fu passato ripresero la loro forma.

— Fantasmi! — bisbigliò Tony. — Mamma.

— No — rispose Marjorie, commossa alle lacrime dai due amanti. — Non sono spettri, Tony, bensì ologrammi, lasciati qua appositamente. Senza dubbio i proiettori sono nascosti tra le fronde.

— Prima della loro fine — spiegò Mainoa — gli ultimi sopravvissuti, che erano ormai pochissimi, proiettarono questi ologrammi per avere compagnia.

— Come lo sapete?

— Mi è stato detto in questo momento, e corrisponde perfettamente a tutto quello che ho appreso dopo la nostra conversazione a Collina d’Opale.

Sgranando gli occhi, Marjorie si volse a fissare il vecchio monaco: — La lingua.

— Sì, la lingua arbai.

— Ero così ansiosa di partire per cercare Stella, che non ho neanche pensato a chiedere.

— I computer di Semling hanno tradotto almeno per metà i libri degli Arbai, e il resto lo hanno dedotto. La chiave era dove nessuno l’aveva mai cercata: nei fregi delle formelle.

— E le scene scolpite?

— Gli elaboratori hanno interpretato anche quelle.

— Cosa ne risulta?

Frate Mainoa scosse la testa, cercò di ridere, e fu colto da un accesso di tosse: — Gli Arbai vissero e morirono fedeli alla loro filosofia — spiegò poi.

— Quassù?

— Laggiù nella prateria furono massacrati in breve tempo, ma quassù, fra gli alberi, perirono lentamente. La loro etica non consentiva di uccidere nessuna creatura intelligente. Questa era soltanto una città estiva. Quando gli abitanti della città nella prateria furono trucidati dagli Hippae, gli Arbai che già si trovavano quassù decisero di restare, poiché non volevano essere sterminati a loro volta. Così trascorsero in questa città arborica la loro ultima estate, e durante l’inverno morirono poco a poco, consapevoli di essere gli ultimi della loro razza in tutto l’universo.

— Quanto tempo fa avvenne tutto questo?

— Secoli fa: secoli grassiani.

Nell’osservare le case di erbe e di liane intrecciate, Marjorie scosse la testa: — Impossibile! Queste case non possono essere tanto antiche, altrimenti sarebbero marcite, come pure i ponti. Gli alberi stessi che le sorreggono sarebbero cresciuti e invecchiati, infine sarebbero morti e caduti.

— No, perché la città è stata conservata così com’era per tutto questo tempo.

— Da chi?

— La domanda è giusta, Marjorie: da chi? Ce lo chiediamo tutti, nevvero? Ebbene, credo che molto presto lo sapremo.

Poi, Rillibee guidò il gruppo per i ponti, fra le case, sino a una vasta veranda con parapetti dagli ornati a forma di foglie e volute, e colonne tòrtili a sostenere il frascato conico: è la piazza della città, pensò Marjorie, aperta all’aria, al vento, e al canto degli uccelli.

Gli ologrammi che passeggiavano, danzavano, si salutavano, erano così numerosi che, per un momento, le persone credettero che fosse un’ombra anche la creatura possente che veniva loro incontro dalla veranda. Appena si accorsero che non era così, si radunarono, e Tony portò la mano al coltello laser.

— No. — Frate Mainoa posò una mano sul braccio del ragazzo. — No. — Poi avanzò ad osservare colui che da tanto tempo desiderava vedere anche con gli occhi, oltre che con la mente. — Non ci farà alcun male.

La fronte sembrava tremare sugli occhi simili a globi accecanti di gelido lampo blu. Le zanne, se tali si potevano definire, erano di avorio scintillante, quasi azzurro, e la pelliccia splendeva.

Inchinandosi come al cospetto di una delle massime autorità clericali, frate Mainoa mormorò: — Siamo onorati.

La creatura si accovacciò e parve annuire, afferrando le sponde del ponte con mani che sembravano avere quattro dita pelose. Nel curvare le spalle possenti ammantate di pelliccia, rivelò fugacemente l’armatura screziata di placche ossee che proteggeva la schiena. Le proporzioni del suo corpo erano del tutto aliene e gli arti inferiori non assomigliavano affatto alle gambe. Era un essere indescrivibile: si poteva dire soltanto che era diverso da qualsiasi altra creatura terrestre o grassiana.

Con timore reverenziale, ma anche con grande interesse, frate Mainoa osservò quella meraviglia battendo rapidamente le palpebre come per schiarirsi la vista, al pari di tutti i suoi compagni: — Nel vederti per la prima volta, mi chiedo quale necessità evolutiva abbia causato lo sviluppo di un aspetto tanto feroce — mormorò, abbassando lo sguardo.

Allora sembrò che gli occhi enormi si spalancassero, e un dito in parte villoso e in parte scaglioso parve sfoderare un lungo artiglio ricurvo che si protese verso la gola del vecchio frate.

Come in risposta a una battuta, Mainoa sorrise: — Non posso credere che tu dica sul serio. Non ti servono gli artigli contro di me, né ti servirebbero contro qualsiasi persona, a meno di essere minacciato con armi pesanti. E in questo caso, persino la tua armatura servirebbe a poco. Se non altro, gli uomini sono assassini molto esperti.

Gli occhi della creatura parvero socchiudersi.

Allora frate Mainoa si afferrò la testa con entrambe le mani e si curvò innanzi. Gli altri lo imitarono, crollando in ginocchio. Soltanto Sylvan rimase in piedi: reso temerario dalla collera e dal terrore, avanzò di un passo.

— Basta! Basta! — Mainoa si raddrizzò, quasi boccheggiante. — È tremendo. — Ormai sapeva quale necessità evolutiva aveva prodotto quell’armatura: un nemico esistito in un lontano passato, un mostro enorme e inesorabile. In una proiezione mentale dolorosissima, l’aveva visto nell’atto di straziare e divorare veltri e Hippae. — Sono estinti? — chiese, ricevendo un assenso telepatico. — Li avete sterminati?

Perplessità. Certezza. I mostri corazzati non erano stati creature intelligenti, bensì soltanto voracità incarnata. Gli Arbai li avevano sterminati per proteggere gli Hippae, che da allora si erano moltiplicati sempre più.

Improvvisamente stanco, frate Mainoa sedette sul ponte di fibre intrecciate: — Questo essere è mio amico — spiegò ai compagni. — Abbiamo conversato molte volte insieme. — Dopo averlo intravisto, si sentiva angosciato ripensando a tutte le volte che gli aveva parlato senza conoscerne l’aspetto. Se lo avessi veduto, come avrei reagito? si chiese. Non sarei certo riuscito a parlargli. Possiamo comunicare con gli dèi e con gli angeli soltanto finché non si manifestano come tali: dobbiamo credere che ci assomigliano. E noi umani non possiamo certo ritenere che le volpi siano simili a noi.

Ancora inginocchiato, come gli altri, Tony ansimò: — Le volpi.

— Sì, le volpi — confermò Mainoa. — Lui e alcuni suoi compagni hanno tenuto a bada gli Hippae per consentirci di arrivare qui e poterci osservare, come desideravano.

Marjorie implorò: — Ma, sa dov’è Stella? — Ebbe l’impressione che una testa enorme si girasse verso di lei e fu scossa da un tremito: — Capisco. Naturalmente. Sì.

— Marjorie? — chiamò Sylvan.

— Lo sento! Lo sento, Sylvan! Non riuscite a sentirlo anche voi?

Scoccando un’occhiata sospettosa al luogo in cui credeva che si trovasse la volpe, Sylvan scosse la testa: — No, non sento niente.

— Siete stato cacciatore per troppo tempo — spiegò Mainoa. — Gli Hippae vi hanno mentalmente assordato.

— Sta parlando? — domandò Sylvan.

Rillibee annuì: — Sì. Comunica per immagini, ma usa anche qualche parola. — E si rialzò, ormai incapace di strabiliarsi oltre. La sua meraviglia era suscitata soprattutto dagli alberi: non aveva bisogno d’altro. E non voleva parlare con le volpi, bensì, al pari di Marjorie, voleva ritrovare Stella.

— Cos’ha detto di vostra figlia? — riprese Sylvan.

— Alcuni individui della sua razza la stanno cercando — rispose Marjorie. — Appena l’avranno trovata, ci avvertiranno.

— Vogliono dirci e chiederci molte cose — annunciò stancamente frate Mainoa, che desiderava e temeva al tempo stesso tale colloquio. — Molte cose.

— Scendo a sbardare i cavalli — disse Rillibee. Poiché la ricerca di Stella era rinviata, preferiva restare solo, accanto a un albero, per impregnarsi del suo profumo e della sua essenza. Nelle tenebre, le piante enormi gli erano sembrate spiriti vegetali, ma alla luce del giorno aveva visto che erano veri alberi. Joshua avrebbe dato l’anima per piante come quelle, che non avevano uguali sulla Terra. Essere in una foresta era una vera benedizione.

Mentre Rillibee si allontanava, Sylvan lo seguì: — Vengo ad aiutarvi, dato che qua sono inutile.

Senza cordialità, Rillibee annuì.

Gli altri non si accorsero neppure della loro assenza.

Nel proprio appartamento, a Klive, Shevlok bon Damfels sedeva sul davanzale di una finestra aperta a sorseggiar vino da un bicchiere mezzo vuoto. Il fumo dei camini del villaggio si stagliava nel cielo all’orizzonte. Persino le rane tacevano nella calma assoluta e mortale dell’alba.

Accanto a Shevlok era aperta una cassa di bottiglie quasi vuota. Sul letto disfatto giaceva da giorni Janetta, che talvolta aveva dormito e talaltra era rimasta immobile mentre lui la accarezzava, le parlava sottovoce, faceva l’amore con lei: i suoi capezzoli si erano inturgiditi, la sua vulva si era bagnata, ma per il resto aveva manifestato di non sentir nulla, con lo sguardo fisso a qualcosa che soltanto lei poteva vedere.

Una volta soltanto, nel far l’amore, Shevlok aveva avuto l’impressione di scorgere una minima scintilla nel suo sguardo, come un barlume d’intelligenza fugace, inafferrabile.

Da quando l’aveva portata lì, Shevlok aveva bevuto molto, ma non intendeva smettere. E intanto guardava dormire la ragazza che avrebbe dovuto diventare la sua obermum, e governare la famiglia con lui, dopo la morte di Stavenger. Non soltanto Janetta era adatta a questo ruolo: Shevlok l’amava alla follia, e non desiderava altro che lei, dalla vita.

Ma la cosa sul letto non era più Janetta.

Mentre Shevlok cercava di decidere se tenerla ancora oppure no, Amy bussò alla porta ed entrò: — Sei stato tu! — disse, scrutando la ragazza sul letto, nella stanza in penombra. — Ma cosa credevi di fare, Shevlok?

— Pensavo che mi avrebbe riconosciuto — mormorò Shevlok, con la voce arrochita dall’ebbrezza. — E invece non è stato così.

— Da quanto tempo?

Shevlok scosse la testa: — Da un po’.

— Cosa intendi fare di lei?

— Non so.

— Dicono tutti che è stata rapita alla cameriera di sua madre. Sei stato proprio tu?

Shevlok gesticolò, come per dire che probabilmente era stato proprio lui.

— Allora conviene che tu la riconduca al villaggio bon Maukerden.

Con limpidezza sorprendente, Shevlok dichiarò: — Sarebbe meglio se fosse morta.

— No! — gridò Amy. — No, Shevlok! Pensa, se fosse Dimity.

— Sarebbe meglio se anche Dimity fosse morta.

— Come puoi dir questo?

Di scatto, Shevlok si alzò, prese rudemente la sorella per le braccia e la trascinò accanto al letto: — Guardala, Amy! Guardala! — Scoprì con uno strattone la ragazza nuda e supina, poi, col pollice, le sollevò una palpebra: — Gli occhi di Janetta scintillavano al sole come acqua limpida sul letto sassoso di un ruscello! Ma questi occhi sono morti e freddi come pozzanghere di neve sciolta a primavera!

Amy si liberò dalla presa del fratello: — Non ti capisco!

— Quando la guardo negli occhi, vedo soltanto pozzi tenebrosi e profondissimi, dove qualcosa di orrido e straziato si contorce nella melma del fondo. Le hanno distrutto lo spirito: è priva di sensibilità e non riconosce più nessuno.

— Riportala a casa, Shevlok. So che non c’è più niente, in lei.

— Oh, no! C’è ancora qualcosa di spaventoso e perverso: qualcosa di cui potrebbero servirsi. — Una sofferenza improvvisa mozzò il fiato a Shevlok. — Che siano maledetti!

Amy rise amaramente, massaggiandosi il braccio livido: — Che siano maledetti, Shevlok? Loro? Ma tu sei uno di loro: li hai sempre assecondati. Tu, e papà, e zio Figor, sapete cosa fanno gli Hippae alle ragazze, eppure ci avete sempre obbligate a cavalcare: me, Emmy e Dimity.

Come un toro confuso, Shevlok scosse la testa: — Non sapevo affatto cosa fanno gli Hippae.

— Mio Dio, Shevlok! Ma cosa credevi che succedesse alle ragazze scomparse? Cosa pensavi?

— Non ho mai pensato che facessero questo.

— Non hai mai pensato! — strillò Amy. — Esatto! Non hai mai pensato! Non ti riguardava, quindi non ci hai mai pensato. Che tu sia dannato, Shevlok! Non biasimare gli Hippae per quello che è successo a Janetta, perché la colpa è tua, e di papà, e di Figor, e di tutti voi dannati cacciatori!

— Non è colpa mia.

— Se questo non fosse successo, tu avresti sposato Janetta, avresti avuto figli, e li avresti obbligati a cacciare — accusò Amy. — Le tue figlie sarebbero scomparse, i tuoi figli sarebbero stati uccisi o mutilati, e tu non avresti fatto nulla per impedirlo!

— Non so. Forse l’avrei impedito. Non so.

— Andrai a cacciare dai bon Laupmon, oggi?

Shevlok scrollò le spalle: — Probabilmente.

— Vedi? Sai cosa succede, eppure vai lo stesso alla Caccia! Qualche ragazza dei bon Laupmon o dei bon Haunser scomparirà, ma a te non importerà niente, perché di loro non sei innamorato. — Amy si terse le lacrime dal viso, poi indicò la ragazza addormentata: — Che ne sarà di lei?

— Ho incaricato una contadina di venire a nutrirla, lavarla e giocare con lei, come se fosse una gattina.

— Se andrai a cacciare con papà?

Allora Shevlok si riscosse e per la prima volta cercò di sorridere ad Amy. Voleva bene a lei, a Emmy, a Sylvan, alla madre, e si sforzava di rammentarlo: — Ho saputo di Emmy — disse. — Vuoi un aeromobile per portarla al Comune, vero? è dunque tanto grave?

— Non morirà, se è questo che intendi, ma soltanto perché siamo riusciti a fermare papà appena in tempo. Comunque devo portarla via da qui, se voglio salvarla. Anch’io devo andarmene.

— Allora portala via.

— Papà ha comandato ai servi di non obbedirmi, però questo divieto non riguarda te.

— Ordinerò al vecchio Murfon di venirti a prendere al villaggio, dopo la partenza di papà per l’estancia dei bon Laupmon. Ma mi raccomando: non fatevi vedere da nessuno.

— Posso portare anche lei? — domandò Amy, indicando la ragazza nuda sul letto disfatto.

Barcollando, Shevlok si alzò per andare a guardare Janetta, che dormiva, ed emise un singhiozzo, più d’ira che di dolore: — Tanto vale che la porti con te, perché se la lasci qui, la ucciderò.