125675.fb2 Pianeta di caccia - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 15

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Al Monastero, in attesa che l’aeromobile fosse pronto, il priore Fuasoi, inquieto e solo nel proprio ufficio, meditava sui vari modi in cui il piano degli Ammuffiti avrebbe potuto essere mandato a monte: forse la Santità aveva scoperto la sua appartenenza alla setta e aveva inviato agenti ad arrestarlo, o forse il Ministero della Sanità di Semling aveva scoperto il piano stesso, o forse Mainoa aveva detto tutto all’ambasciatore.

Per la decima volta aprì il cassetto per cercare il diario scomparso. Chi poteva averlo preso? Quell’idiota integrale di Jhamlees? Se era così, aveva avvertito la Santità e aveva ricevuto in risposta l’ordine di aprire l’arsenale segreto e conquistare il pianeta, o qualcosa del genere. Non era detto che il Monastero avesse davvero un arsenale segreto, anche se lo dicevano tutti. Ma a cosa sarebbe servito se i Frati Verdi avessero conquistato Grass, dopo aver spazzato via i bon, le cavalcature e i veltri? Non era difficile indovinarlo: col tempo, avrebbero trovato una cura per la peste. A giudicare da quello che aveva scritto nel diario, Mainoa sembrava credere che si potesse scoprire tale cura su Grass.

Fino a quel momento, Fuasoi aveva pensato di aver tempo in abbondanza per diffondere il virus, ma ormai era chiaro che non era affatto così: i frati Flumzee, Niayop, Sushlee, Thissayim e Lillamool dovevano trovare al più presto il dannato Mainoa e ammazzarlo insieme a Lourai e a tutti coloro che erano con lui. Inoltre occorreva provvedere subito a spargere il virus nel Comune, dove era radunata la maggior parte della popolazione del pianeta. Inconsciamente, Fuasoi aveva rinviato l’operazione fino a quel momento perché sapeva che zio Shales non sarebbe stato affatto fiero di lui; ma al punto in cui era non poteva più attendere.

Mise la scatola con il virus nella propria sacca, la coprì con una tonaca di ricambio per Shoethai, lasciò l’ufficio e, percorrendo i corridoi profumati di fieno, si recò nello spiazzo ghiaiato, dove Shoethai medesimo stava finendo proprio in quel momento di controllare il motore: — È tutto pronto? — domandò, nell’osservare con scarsa soddisfazione l’aviofurgone, che comprendeva una cabina di pilotaggio e una spaziosa cabina per passeggeri, ognuna dotata di un portello. Era un vero peccato non avere a disposizione un modello più piccolo e più rapido.

Con una smorfia, Shoethai ridacchiò e assentì.

Notando in lui una gioia del tutto insolita, Fuasoi pensò che fosse contento dell’imminente assassinio di Mainoa, e non se ne stupì. La morte di chiunque era una gran soddisfazione per gli Ammuffiti: più ne morivano, meno ne restavano da uccidere, secondo un detto della setta. — Dov’è Flumzee? — chiese ancora.

Con un gesto, Shoethai indicò un corridoio da cui stava appunto sbucando Granbravone, seguito dai suoi quattro seguaci.

Alla vista del priore, gli arrampicatori si fermarono, perplessi, e tardarono ad inchinarsi.

— Vengo con voi — annunciò Fuasoi.

Con un brevissimo ululato, subito soffocato, Shoethai attirò lo sguardo di tutti. Curvò le spalle deformi in un inchino servile e parlò con la testa fra le ginocchia, talché la sua voce parve un ribollire di melma calda: — Non dovreste mettere a repentaglio la vostra incolumità, priore. Avete compiti troppo importanti.

— Che sto appunto per portare a termine — dichiarò Fuasoi, risoluto. — Quando Flumzee e gli altri avranno scovato la loro preda, tu ed io ci occuperemo di un affare molto urgente.

— lo? — strillò Shoethai. — Io?

— Tu, certo. Non hai bisogno di niente: ho già pensato io a prenderti una tonaca di ricambio. Monta. — Ciò detto, Fuasoi si volse a frate Flumzee: — Sai pilotare questo accidente, spero.

Granbravone riuscì a celare la propria gioia malefica dietro una espressione di estrema gravità: — Certo, priore. Sono un pilota eccellente.

— Sai dove devi andare?

— Shoethai mi ha parlato di un certo Boschetto Darenfeld, a nord-est di Klive. Lo troverò sulla mappa, poi cercheremo le tracce del gruppo di Mainoa.

Fuasoi brontolò in segno di assenso: — Shoethai ed io occuperemo la cabina passeggeri. — Poi afferrò il monaco deforme, che pareva squassato da uno dei suoi soliti spasmi, e lo spinse all’interno dell’aviofurgone. Lo seguì e sbatté il portello alle proprie spalle.

Scambiandosi una breve occhiata bramosa, gli arrampicatori presero posto nella cabina di pilotaggio, dove Granbravone sedette ai comandi con una familiarità che gli derivava più dal ricordo che dall’esperienza, perché su Grass aveva pilotato molto meno spesso che in gioventù. In pochi istanti, decollò e virò a meridione.

— Possono sentirci dall’altra cabina? — chiese sottovoce frate Niayop, vale a dire Mandiguglia.

Granbravone rise: — Il rumore dei motori copre le nostre voci, fratello!

— Non c’è un microfono?

In silenzio, Granbravone indicò una manopola della consolle, che era sulla posizione «off». Poi, a differenza dei suoi seguaci, celò il proprio entusiasmo, perché credeva che tale fosse il comportamento più degno di un capo, almeno per il momento. Avrebbe potuto abbandonarsi alle solite manifestazioni di gioia dopo aver compiuto gli omicidi che gli erano stati commissionati. In passato, sia lui che i suoi seguaci si erano sempre limitati a spingere o calciare ragazzi giù dalle torri, come per gioco: non avevano mai ucciso vecchi né donne. Per quasi tutta la notte aveva parlato di donne con gli amici, dopo aver saputo da Shoethai, il quale lo aveva saputo dal priore Fuasoi, che il gruppo di Mainoa includeva una donna. Non sapeva come l’avrebbero uccisa, ma una cosa era sicura: non l’avrebbero ammazzata subito.

Pensando alle donne, Granbravone rimase immobile per non turbare la calda eccitazione pulsante che gli si stava diffondendo dall’inguine alle cosce al ventre. Aveva avuto una donna soltanto prima di essere inviato alla Santità, all’età di quindici anni, eppure rammentava alla perfezione il suo nome, Lisian Fentrees, e il suo corpo pallido, la chioma riccia che le incorniciava il volto come un cuscino di foglie dorate, i seni morbidi, i capezzoli che si ergevano quando lui li succhiava.

Avevano trascorso insieme tutto il tempo che avevano potuto sottrarre alla scuola, alla famiglia, alla religione, e Lisian gli aveva detto di amarlo. Granbravone non ricordava la propria risposta, ma forse le aveva detto a sua volta di amarla. Altrimenti, perché mai lei lo avrebbe ripetuto tante volte?

Poi, una mattina, si era svegliato sentendosi scrollare una spalla, aveva visto ad occhi socchiusi una sagoma in controluce, e per un momento aveva creduto che fosse Lisian: lo stesso pallore, la stessa chioma dorata, lo stesso contorno del viso. Il profumo però era diverso, e infatti si era trattato di sua madre, che gli aveva detto, con voce neutra, senza piangere, come se non le importasse affatto: — Alzati, ragazzo. Oggi devi partire per un viaggio.

Così lo avevano vincolato alla Santità per dieci anni della sua vita, senza neppure informarlo prima: — Non volevamo preoccuparci. Non volevamo pensarci. Non volevamo turbare papà — avevano detto. E non gli avevano permesso neppure di dire addio a Lisian, la morbida, la calda.

Il ricordo fu così reale che Granbravone fu squassato dal tremito di un orgasmo spontaneo e l’aviofurgone precipitò e sussultò per qualche momento, mentre gli arrampicatori gridavano: — Whooee! Guardate! Granbravone si sta masturbando! Dacci, dacci, Granbravone! Fallo ancora: vogliamo guardare!

Ringhiando, Granbravone spinse Pontecorto giù dal sedile, sforzandosi di trattenere le lacrime: — Zitti! Non mi stavo masturbando. Stavo soltanto pensando a quello che ha detto il vecchio Fuasoi sulla donna.

Il silenzio si diffuse nella cabina di pilotaggio.

Quantunque rifiutasse di parlarne, Granbravone una volta aveva ammesso di aver avuto una ragazza, e Mandiguglia sosteneva di essere stato con alcune donne. Tuttavia erano gli unici: Pontecorto e Pontelungo erano entrati alla Santità quando avevano soltanto dieci o undici anni, mentre Nodosafune aveva sempre preferito i fanciulli. D’altronde, a tutti loro piacevano i ragazzini: bisognava accontentarsi di quello che si aveva.

— Parlaci delle donne! — esortò Pontelungo. — Forza, Bravone! Raccontaci della tua ragazza!

— Lascia che te ne parli Guglia — ringhiò Granbravone, tergendosi furtivamente il viso. — Io sono occupato, adesso. — Stava sorvolando il Boschetto Darenfeld e aveva trovato la traccia, però faticava a seguirla, perché lunghe ombre la nascondevano persino dall’alto. Soltanto a tratti la vedeva serpeggiare fra colli e boschi, verso occidente, ossia verso la fascia cupa che correva all’orizzonte da nord a sud: la foresta palustre. Intanto, cercò di non sentire il modo perverso in cui Mandiguglia descriveva gli organi genitali femminili, e come si lubrificavano, e la sensazione che procuravano: non era interessato a questo genere di cose, bensì a qualcosa che aveva perduto e desiderava rammentare.

Assorto a cercare della memoria, fra nomi e immagini, per far riemergere qualcosa che continuava a sfuggirgli, Granbravone quasi non si accorse che la foresta palustre era ormai vicina.

D’un tratto, il motore cominciò a perdere colpi.

Aggrondato, Granbravone fu colto dal panico ed esaminò il quadro comandi: Eppure il velivolo è stato revisionato prima della partenza! pensò. Ci hanno pensato quel mostro di Shoethai e Fuasoi!

Il motore continuò a perdere colpi, quindi uggiolò.

— Reggetevi! — gridò Granbravone. — Abbiamo un problema! — Sapeva che la velocità era troppa, ma tentò un atterraggio di fortuna, perché non voleva precipitare troppo lontano dalla traccia.

Col motore sibilante e sputacchiante, l’aviofurgone cadde in picchiata.

Pontelungo ululò di dolore: — Mi sono morso la lingua!

— Ti morderai ben altro, se non ti reggi!

Dopo una breve virata, Granbravone riuscì finalmente a compiere un lungo atterraggio nell’erba alta, al termine del quale tutti gli arrampicatori furono scagliati contro il portello, sfondandolo, e rotolarono fuori, sugli steli schiacciati.

— Oh, Dio — gemette Mandiguglia. — Oh, Dio.

— Zitto! — ordinò Granbravone. — Non dobbiamo far sapere agli Hippae che siamo qui, se già non lo hanno scoperto. — Si alzò e si palpò, per accertarsi di non avere ossa rotte, né emorragie, scoprendo di aver soltanto una guancia graffiata. — Sei tutto intero, Fune? E tu, Lungo? E tu, Corto?

— Sto bene, credo.

— Quel fottuto accidente mi ha colpito proprio sul naso!

— Credo di avere qualcosa di rotto.

Granbravone schiaffeggiò Pontecorto, ringhiando: — Non hai proprio niente di rotto! Sdraiati, e vedrai che il naso smetterà di sanguinare. — Accertatosi che tutti i suoi seguaci stessero bene, tentò di aprire il portello della cabina passeggeri e lo trovò bloccato, o chiuso dall’interno. Cominciò a percuoterlo nell’intento di richiamare alla conosceza coloro che vi si trovavano, ma cercando di non attirare l’attenzione degi abitatori della prateria. — Priore! Rispondete!

Silenzio assoluto.

Mentre Granbravone prendeva le sacche di tutti dalla cabina di pilotaggio, Pontecorto osservò con spavento il sole, che era basso all’orizzonte occidentale: — Ehi, sentite. Conviene restar qua, in attesa che faccia buio. Se gli Hippae ci troveranno, potremo ripararci nell’aviofurgone.

— Andiamo nella foresta — decise Granbravone.

— Nella foresta?! Sei pazzo?

— Andiamo nella foresta, ho detto! Chi vuol rimanere qua e magari cercar di riparare il velivolo, faccia pure. Io vado nella foresta, dove gli Hippae non entrano.

— Non ci entra mai neanche la gente — bisbigliò Mandiguglia. — Altrimenti ne esce soltanto morta.

Senza rispondere, Granbravone si recò al sentiero che aveva individuato e seguito dal cielo, svoltò a destra e cominciò a seguirlo senza difficoltà. In breve, senza guardare indietro, sentì arrivare i compagni e si augurò che ognuno avesse raccolto la propria sacca.

Intanto, nella cabina per passeggeri dell’aviofurgone, Shoethai riprese poco a poco conoscenza, accorgendosi di essere stato catapultato contro il portello assieme a Fuasoi. Dall’oblò vide il cielo che incupiva e chiamò: — Priore!

Fuasoi si alzò, aiutandosi con le mani: — Cos’è successo?

— L’aviofurgone è precipitato!

— Ma se lo avevi revisionato prima della partenza!

— Non sapevo che saremmo stati a bordo!

— Lo hai dunque sabotato?

Accoccolato in una massa informe, Shoethai tacque.

Cogliendo l’ironia della situazione, Fuasoi emise una risata breve, aspra: — Li odiavi, vero? — domandò, senza attendere risposta. — Pensavi di prendere due piccioni con una fava, o magari tre?

Il monaco mostruoso si limitò a frignare.

— Be’, andiamocene, adesso. Sai una cosa, Shoethai? Forse hai perso la tua ultima occasione per far parte della Nuova Creazione: non sono tanto sicuro che il Creatore sarà benevolo con te.

Con uno strillo d’ira, Shoethai aggredì il priore, sbattendolo contro il portello, che si sbloccò e si spalancò.

Fuori, nell’erba, Fuasoi si sbarazzò facilmente dell’aggressore e si rialzò. Raccolse la sacca che era rotolata fuori, la aprì, ignorando i singhiozzi e i lamenti di Shoethai, ed estrasse la scatola: visto che non poteva più diffondere il virus nel Comune, tanto valeva spargerlo al vento. Prese il coltello, aprì la scatola, e rimase immobile.

Un grosso veltro sogghignante sbucò minacciosamente dalle erbe.

D’istinto, Fuasoi scagliò la scatola con tutta la forza che aveva e cercò di rimontare nel velivolo. Una nube di polvere nera esplose sul veltro. Shoethai ebbe appena il tempo di strillare una sola volta.

Proprio nell’istante in cui avvistavano la foresta dal crinale di una lunga altura, gli arrampicatori udirono un ululato di gioia e subito fuggirono. Mentre l’ululato si avvicinava sempre più, Granbravone corse come non aveva mai creduto di poter correre, sentendo alle proprie spalle l’ansimare di Mandiguglia e Pontelungo.

Gli altri due monaci, che avevano le gambe più corte, rimasero indietro: Pontecorto era ancora un ragazzo.

— Aspettate! — urlò Nodosafune. — Aspettateci!

— All’inferno! — ansimò Mandiguglia, riuscendo ad accelerare un poco.

L’ululato si avvicinò sempre più, interrotto prima da uno strillo, poi da un altro: l’inseguimento cessò per alcuni minuti, ma i tre arrampicatori superstiti non si fermarono a guardare quale creatura li stesse braccando.

In breve, gli ululati ripresero, avvicinandosi molto rapidamente, ma i fuggiaschi riuscirono ad attraversare il pantano al margine della foresta.

Quando si fermarono nell’acquitrino profondo che scintillava agli ultimi bagliori del tramonto, Pontelungo domandò: — E adesso? Vuoi proseguire a guado?

Con lo sguardo fisso alle liane che pendevano dagli alberi giganteschi, Granbravone rispose: — Neanche per sogno. — Afferrò la liana più vicina e chiese: — Salirà? — Si arrampicò agilmente fino al primo ramo sovrastante, poi ripeté: — Salirà?

Rapidamente salirono tutti e tre fino a metà dell’albero, dove sostarono ad osservare la prateria che ondeggiava sinistramente: nessun segno di Pontecorto e Nodosafune.

Attesero per un poco, prima che Mandiguglia commentasse: — È come per i novellini che si arrampicano sulle torri del Monastero, Bravone. Non è affatto diverso: sono già morti.

Dopo essersi scambiati un’occhiata, i tre arrampicatori ripresero a salire agilmente, senza sforzo, sempre più in alto.

Nel suo appartamento privato, al Monastero, il direttore Jhamlees Zoe recuperò dall’archivio dove lo aveva nascosto il plico speditogli dall’amico Cory Strange, perché, dopo aver letto il diario di frate Mainoa, aveva bisogno di consultare la lettera. Per aprirlo dovette concentrarsi: se non avesse rammentato la combinazione, il plico gli sarebbe esploso in faccia. Involucri esplosivi a combinazione! pensò. Che assurdità! D’altronde, cosa potrebbe mai fare, sulla Terra, il Ministero della Sicurezza e della Dottrina Accettabile, se non occuparsi di simili assurdità?

In breve, ebbe la conferma che gli era stato chiesto di riferire qualsiasi scoperta. Tuttavia constatò che sarebbe stato inutile trasmettere notizie sul diario di Mainoa perché, come risultava dall’intinerario accluso alla lettera, il Prelato stava ormai per arrivare su Grass.

Frustrato perché gli veniva a mancare l’occasione di rinsaldare la vecchia amicizia con il Prelato, intascò soltanto le due pagine scritte a mano da Cory Strange, ripromettendosi di distruggerle, e abbandonò il resto della lettera, il cui contenuto era ufficiale, niente affatto riservato.

Senza dubbio, all’arrivo, il Prelato avrebbe chiesto al suo vecchio amico Nods di riferirgli tutto quello che vi era da sapere. Dal diario risultava che sia l’ambasciata di Collina d’Opale sia frate Mainoa sapevano qualcosa. La domanda era: esisteva una cura? E questo era proprio quello che il Prelato avrebbe voluto sapere! Giacché era scomparso, frate Mainoa non poteva essere interrogato. L’unica persona in grado di fornire informazioni era quindi Roderigo Yrarier, che non era neppure un santificato, bensì un antico cattolico, un eretico, non migliore di un pagano!

Senza più esitare, il priore Jhamlees convocò Yavi Foosh: — Trovami l’ambasciatore Roderigo Yrarier e procurami un appuntamento.

Abbassando lo sguardo al pavimento, Yavi strascicò i piedi, senza rispondere.

— Ebbene?

— Be’, priore, può anche darsi che l’ambasciatore sia morto.

— Morto?

— C’è stato un autentico massacro dai bon Laupmon: parecchi bon e alcuni Hippae sono morti. L’ambasciatore è rimasto coinvolto ed è stato trasportato dai suoi servi all’ospedale dell’astroporto: può anche darsi che sia morto.

— Morto. — Aggrondato, Jhamlees sedette alla scrivania, mentre il panico cominciava ad insinuarsi in lui come una nausea: Cory non apprezzerà affatto questa notizia, pensò. Quindi soggiunse: — Be’, se non è morto, devo assolutamente parlargli. Scopri come stanno le cose.

Senza dire altro, Yavi se ne andò.

Con espressione lugubre, Jhamlees si chiese come avrebbe reagito il Prelato a un messaggio di questo genere: «Caro Fratello nella Santità, le uniche due persone che forse sapevano qualcosa di utile su tutta questa faccenda sono probabilmente morte.» Tale era la sua preoccupazione, che dimenticò del tutto di bruciare la lettera del Prelato.

Quando riprese conoscenza, Rigo udì uno strano ronzio e non tardò a scoprire di essere immobilizzato, con le braccia infilate nelle apparecchiature collocate ai lati del letto stretto e poco imbottito sul quale giaceva: Panacee! pensò, tentando di reprimere il panico che lo invadeva. Si accorse di avere le gambe inserite in un’altra panacea e cercò di parlare, ma invano, perché una maschera gli chiudeva il naso e la bocca.

Tuttavia, una persona si curvò ad osservargli gli occhi, con una espressione di soddisfazione, e dopo un momento gli tolse la maschera: — Vi rendete conto di dove vi trovate?

— Non ne sono sicuro — rispose Rigo, con voce gorgogliante. — All’ospedale dell’astroporto, suppongo. Credo di essere stato calpestato.

— Bene, bene.

Quando la persona si allontanò per osservare i pannelli delle apparecchiature, Rigo capì che si trattava di una donna: non era bella, ma era senza dubbio una donna.

— Bene! — ripeté la sconosciuta.

— Chi mi ha portato qui? — chiese Rigo.

— Il vostro servo. Non so se vi fosse qualcun altro con lui.

— È qui, adesso?

— Oh, santo cielo! Certo che no! Ha dovuto tornare indietro per evacuare Collina d’Opale. Ha parlato di una rappresaglia degli Hippae.

— Marjorie! — gridò Rigo, cercando di alzarsi a sedere.

— Calma, calma. — La donna rimise Rigo a giacere. — Non dovete preoccuparvi. Tutti saranno condotti in salvo.

Non possono salvare Marjorie! pensò Rigo. Lei non è più a Collina d’Opale. E neanche Tony, né padre James, né i due Frati Verdi delle rovine arbai, stando al messaggio di Tony. Sono partiti tutti insieme. E con loro c’era anche Sylvan, se è vero quello che mi ha detto bon Haunser, quando mi ha sfidato per conto degli Hippae. Con un gemito, cercò di rammentare quello che era accaduto, ma l’ultimo suo ricordo limpido era il dannato bon Haunser che diceva qualcosa su Marjorie e Sylvan che se n’erano andati insieme. Però non sono soli, pensò. E sono sicuro che Marjorie non mi è mai stata infedele. L’ho accusata di tante cose, ma lei non ha mai avuto nessuna colpa: non mi ha mai rifiutato, mi ha sempre accolto nella sua camera, nel suo letto, tutte le volte che ho voluto. E adesso Marjorie dov’è? Dov’è adesso? Chiese: — Ci sono notizie di mia moglie? — Ma proprio in quel momento fu quasi tramortito da una sofferenza improvvisa, intensissima.

— Tacete, ora — disse la donna. — Potrete parlare più tardi. — Scrutandolo, ruotò una manopola.

Allora Rigo si sentì sprofondare irresistibilmente nel sonno, e sognò Marjorie sola con Sylvan.

Marjorie era sola con Sylvan.

Frate Mainoa e Rillibee Chime dormivano.

Dopo essere salito in cima a un albero molto alto, Rillibee aveva dichiarato che al suolo non era possibile attraversare la foresta palustre fino al Comune: — Se necessario potrei andarci spostandomi da un albero all’altro, anche se piuttosto lentamente — aveva detto. Poi si era sdraiato accanto a frate Mainoa, che già dormiva, e si era addormentato a sua volta. Di quando in quando lo si udiva parlare in sogno, con esclamazioni incomprensibili di meraviglia o di dolore, o forse di entrambi.

Dunque, i due monaci dormivano.

Le volpi, invece, se n’erano andate.

Prima che Rillibee partisse in esplorazione solitaria, Marjorie e i suoi compagni si erano radunati in una casa, con le braccia intorno alla testa per proteggersi dalle ardenti onde telepatiche delle volpi che discutevano in disparte. Dopo un poco, era stato come se una dicesse alle altre: — Ehi! Stiamo facendo soffrire queste creaturine umane. Conviene che ci allontaniamo. — Così se n’erano andate tutte. Più stanco che mai, come se fosse stato oppresso da un enorme fardello, frate Mainoa aveva detto in tono lamentoso: — Non vogliono dirmelo! Sanno tutto, ma non vogliono dirmi niente! — Marjorie aveva avuto la certezza che si riferisse alla peste, però, vedendolo così spossato e angosciato, non aveva osato suggerire di interrogare ancora le volpi.

Dunque, le volpi se n’erano andate.

Quanto a Tony e padre James, si erano allontanati per esplorare la Città Arborica.

Soltanto quando era stato troppo tardi per unirsi al figlio e al prete, Marjorie aveva scoperto che Sylvan era rimasto.

Poiché Marjorie era lontana dalla famiglia, e soprattutto dal marito che tanto la condizionava, Sylvan ne approfittò per parlarle di nuovo d’amore. Immaginando che lei stesse per ingiungergli di andarsene, si preparò a risponderle, con tutto il proprio fascino, che non aveva nessun posto dove andare.

Invece Marjorie, guardandolo con un distacco quasi gelido, non gli intimò affatto di andarsene, bensì lo sorprese con queste parole: — Vi trovo molto attraente, Sylvan, proprio come trovavo attraente Rigo prima che ci sposassimo. Soltanto in seguito scoprii che non andavamo affatto d’accordo. Ebbene, mi chiedo se sarebbe lo stesso con voi.

— Non so — rispose Sylvan, perplesso. — Non so davvero.

— Rigo non mi ha mai permesso una sola volta di penetrare la sua scorza mascolina — spiegò Marjorie, con un sorriso riluttante. — Non si accorge di quello che sono, ma soltanto di quello che non sono, vale a dire quello che lui desidera di volta in volta. Eugenie se la cava molto meglio di me, anche perché lui si aspetta molto meno da lei. Inoltre, lei gli si adatta, si lascia modellare a sua immagine e somiglianza, come un calco. — Pensierosamente aggrondata, continuò: — Sulle prime ci ho provato anch’io, ma non ha funzionato affatto. Io non posso proprio essere così. Avrei potuto essere un’amica per lui, ma poiché ciò non corrisponde per nulla al suo concetto di moglie, non siamo neanche buoni amici. — E si volse a scrutare risolutamente Sylvan: — Non amerò mai più nessuno che prima non mi sia amico. E mi chiedo se voi potreste essermi amico, Sylvan.

— Certo!

— In tal caso, cominciamo subito! — Marjorie sorrise senza allegria. — Per prima cosa, devo trovare mia figlia. Non ho altra scelta che liberarla, o morire nel tentativo. E voi potete aiutarmi. Se riusciremo in questo, avremo poi un altro compito da portare a termine: trovare il modo per debellare la peste. Se mi amate, parliamo dunque delle imprese che ci attendono, anziché di noi stessi. Inoltre, dev’essere ben chiara una cosa: non dobbiamo assolutamente avere nessun contatto fisico. Poco a poco, se sopravviveremo, impareremo a conoscerci e a comprenderci, e forse potremo diventare amici.

— Ma, ma…

Marjorie scosse la testa in segno di ammonimento: — Se non siete disposto ad accettare queste condizioni, allora non vi resta che dimostrare il vostro amore lasciandomi. Vi chiedo scusa per avervi coinvolto in questa impresa, tuttavia avevo bisogno di voi per andare al Boschetto Darenfeld. Non posso fare altro che scusarmi. Fino a quando avremo trovato Stella, non avrò tempo per null’altro: neppure per discutere.

Appoggiata al parapetto, con la chioma che cadeva a nasconderle il viso come un velo dorato, Marjorie rammentò Stella con uno spasmo di dolore. A tratti la dimenticava, ma quando la ricordava era sempre così, come le doglie di un parto a rovescio, come se stesse cercando di riassorbire in sé la figlia per tenerla al sicuro. Benché doloroso, ciò era tanto osceno quanto impossibile. Sarebbe stato così inutile piangere, gridare, agitarsi, come durante un parto. Ugualmente inutile sarebbe stato adagiarsi nel dolore o cercare di distrarsi con Sylvan. Aveva preso fuggevolmente in considerazione questa eventualità perché si chiedeva se sarebbe stato come con Rigo anche con Sylvan, o con qualsiasi altro uomo. Sarebbe stato terribile vivere tutta la vita senza saperlo! Comunque aveva deciso di andare fino in fondo senza cedere, così almeno non avrebbe dovuto rimproverare se stessa in seguito.

Sentendo Marjorie mormorare: — Stella. — Sylvan provò rabbia nei confronti di se stesso: Come ho potuto credere che Marjorie potesse interessarsi all’amore, senza Stella? pensò. Non potrà mai, se Stella morirà.

Ognuno perduto nel proprio mondo interiore, Marjorie e Sylvan non ebbero la possibilità di riconciliarsi: Tony tornò con padre James, e Marjorie percepì telepaticamente che erano accompagnati da Primo, o Lui: — Arriva l’amico di frate Mainoa — annunciò a Sylvan.

— Capisco — rispose il giovane aristocratico, irritato. Quasi non riesco ad accorgermi della presenza di queste creature, pensò. Non posso comunicare con esse, non riesco a star solo un’ora con Marjorie. Sembra proprio che non riesca a far nulla di quello che desidero!

— Credo che stia cercando di dirmi che ha trovato Stella! — gridò Tony. — Però non ne sono sicuro. Dov’è frate Mainoa?

— Eccomi. — Il vecchio monaco comparve sulla soglia di una casa vicina. — Sono qua, Tony. — Tacque, con una mano protesa come un’antenna verso la volpe: — Sì, Marjorie: hanno trovato vostra figlia.

— Oh, Dio! — Il grido di Marjorie fu come una preghiera. — È…?

— È viva — confermò Mainoa. — Però dorme, oppure è priva di conoscenza. Non le hanno fatto nulla.

— Andremo a cavallo?

— Se non avete nulla in contrario, vi porteranno loro.

Anche in quella emergenza, Marjorie non dimenticò i cavalli: — Torneremo qui?

Dopo breve silenzio, frate Mainoa gesticolò: — Sì. — Con una mano si compresse un fianco, a causa di un dolore passeggero, e scosse la testa: — Anzi, io rimarrò qua, se non vi spiace. Non vi servo, per quello che dovete fare.

Osservando il vecchio frate con preoccupazione, padre James decise a sua volta di restare. Gli altri montarono con una certa apprensione sulla schiena delle volpi e lasciarono la Città Arborica, viaggiando sui rami, da un albero all’altro, nelle tenebre, fra gli acquitrini e le stelle.

Le schiene delle volpi non erano come le groppe dei cavalli: avevano una muscolatura affatto diversa, ed erano tanto più larghe che non sembrava di cavalcare, bensì di essere comodamente seduti su un tappeto volante che ondeggiava appena, per di più con una sensazione di assoluta sicurezza. Dopo il timore iniziale, dunque, Marjorie e i suoi compagni si rilassarono.

Finalmente giunsero al margine della foresta. Altre volpi andarono loro incontro e li scortarono lungo la palude. La meta non era lontana, ma il tragitto fu tortuoso per la necessità di aggirare paludi e tratti di foresta impraticabili. Sulla sponda di un laghetto alimentato da un ruscello, il primo corso d’acqua che Marjorie e gli altri avessero mai visto su Grass, Stella giaceva in un nido d’erba, scalza e seminuda, raccolta in se stessa, con un pollice in bocca.

Quando la madre le si inginocchiò accanto e la toccò, Stella si destò con uno strillo e la respinse con violenza, ripetendo più e più volte il proprio nome: — Sono Stella! Sono Stella! Stella! Stella! Stella! — Allora Rillibee la abbracciò e la tenne stretta a sé, mormorando dolcemente fino a quando si calmò e smise di urlare. Anche Tony cercò di confortarla, ma ella si ritrasse e aprì la bocca per strillare di nuovo. Tacque, nel vedere il fratello che arretrava, ma continuò a tremare. Non tollerò di essere toccata neanche da Sylvan, e scoppiò in attacchi isterici di urla e di pianto ogni volta che la madre le si accostò.

Col viso stravolto dal dolore, dalla colpa, dalla vergogna, Marjorie si allontanò, mentre l’esultanza di aver ritrovato la figlia si scontrava in lei con la sofferenza di essere stata respinta. Era evidente che Stella non tollerava la vicinanza di coloro che conosceva, ma almeno reagiva, rammentava il proprio nome, riconosceva i familiari e gli amici. Almeno, non era come Janetta.

Sylvan le posò una mano sulla spalla: — Marjorie.

Ergendosi in tutta la propria statura, Marjorie trovò la forza di annuire, di riflettere, di parlare, consapevole di non avere il tempo di abbandonarsi al dolore: — Vi chiedo di attraversare la foresta e di recarvi al Comune, Sylvan. Mia figlia ha urgente bisogno di cure mediche. Se le volpi sono disposte a trasportarvi, arriverete abbastanza presto. Andrete anche voi, Rillibee, giacché sembra che suscitiate la fiducia di Stella. Tony, tu li accompagnerai per sistemare tutto. Io torno da frate Mainoa e padre James.

— Vi accompagno — disse Sylvan, pieno di speranza.

— No — insistette Marjorie, severa, scrutandolo negli occhi. — Voglio che partiate con loro, Sylvan. Come vi ho già detto, sono venuta su Grass per una ragione importante. Più cose apprendo, più tale ragione diviene importante, eppure continuo ad essere intralciata da voi, da Rigo, da Stella, nonché da sparizioni e pericoli vari che confondono ogni cosa. Voi tutti non fate altro che distrarmi e preoccuparmi.

— Ma mamma! — intervenne Tony. — Non possiamo lasciarti qui.

— Vai, Tony. Sono contenta che Stella sia viva, però non dobbiamo dimenticare che la peste sta sterminando l’umanità. Bisogna che qualcuno scopra cosa sanno le volpi a questo proposito. Purtroppo frate Mainoa è vecchio e stanco, e forse padre James avrà bisogno del mio aiuto. Quindi resterò per fare del mio meglio.

— Quando Stella sarà al sicuro — promise Tony — tornerò.

— D’accordo. Tornerai tu, o Rillibee. E se puoi, informa tuo padre di quello che è accaduto. — Ciò detto, Marjorie si volse alle volpi e visualizzò nella mente il Comune, oltre la foresta, e Tony, Stella, Sylvan e Rillibee che vi si recavano. Questa scena divenne limpida e chiara nella sua mente, causandole una improvvisa emicrania.

Dall’erba giunse un brontolamento. Le volpi si avvicinarono a prendere di nuovo sulla schiena le persone, pescandole come relitti dal profondo, e Rillibee trasse con sé Stella, la quale, inerte, gemeva come un animaletto ferito.

Quando le volpi furono scomparse nella foresta, Marjorie si sentì chiamare e rimontò sulla schiena di Primo con una strana mescolanza di sentimenti: sollievo, dolore, collera.

Immagini e sensazioni di mani che accarezzavano.

Sdraiata sulla schiena immensa, Marjorie pianse.

Ancora carezze, per un po’. Percosse cordiali che esortavano a tirarsi su, a farsi forza e coraggio.

Marjorie disse mentalmente: Sì, mamma.

Una risata di divertimento.

Sì, papà, si corresse Marjorie, vagamente divertita suo malgrado.

Gentilmente, Lui scosse le spalle. Maschio, indiscutibilmente maschio. Andatura: maschia. Portamento della testa: maschio. Artigli rinfoderati, dita dal tocco delicato: maschio. Una moltitudine di forme indistinte, quasi tutte maschili. I maschi erano viola, prugna, malva, rubino, e le femmine più piccole, blu o azzurre. Maschio. Io: maschio. Primo? Maschio.

, pensò Marjorie. Era maschio. Sembrava che «Primo» non fosse il suo vero nome, ma soltanto il nome datogli da Mainoa.

Un intenso color porpora pieno di lampi scarlatti velati da una nube grigio-azzurra. Me stesso. Io.

Marjorie comprese che questo era il Suo nome: non una parola, ma un simbolo.

Vigoroso, abbigliato di verde, Mainoa camminava tranquillo fra le volpi. Intorno a lui si addensava un’ombra, pallida luce sul terreno scuro, luce sempre più fioca. Indomabile, Mainoa continuava a camminare.

Anch’io ho molta simpatia e molto rispetto per Mainoa, pensò Marjorie.

Idealizzata, Marjorie danzava su un prato fra una moltitudine di volpi: creature informi e illimitate, eppure individui. All’alba e al tramonto, danzavano con le loro ombre sinuose, sensuali, così lunghe che sembravano allungarsi fin quasi all’orizzonte. Fra ombre lunghe e sinuose, Marjorie danzava con le volpi. Maschi e femmine danzavano a coppie, mentre le loro ombre si toccavano e si allacciavano, e così pure le loro menti. Marjorie danzava con Primo, le maniche gonfie come ali, la chioma come una criniera di seta. Una femmina che danza.

Marjorie non vide Lui visto da Se Stesso, ma se stessa vista da Lui.

Tu, Marjorie: femmina. Portamento. Movimento. Colore. Profumo.

Pericoloso. Rischioso. Pensò Marjorie, sentendo i muscoli delle spalle di Primo toccarla come dita. Era pericoloso e rischioso, misterioso e terribile, possente, ma anche meraviglioso. Sdraiata sulla schiena di Primo con la stessa fiducia con cui si era allungata sul dorso e sul collo di Don Chisciotte, sentiva che la Sua pelle le parlava, le trasmetteva emozioni e propositi, come aveva sempre fatto la pelle dei cavalli. Per un attimo vide con tale chiarezza, che rimase abbacinata, stordita, e si chiuse in se stessa, in un diniego tremante.

Nella danza, Lui si alzò sulle zampe posteriori e mutò, divenendo non uomo, ma simile a un uomo, con la criniera e la coda fluenti che si mescolavano alla chioma di lei, mentre la attirava a sé per danzare più vicino. Le altre volpi danzavano a coppie ed erano parte di quello che accadeva, ma con discrezione. Gioia. Movimento e gioia. Una coppia sfiorava e accarezzava un’altra coppia, gentilissimamente, con colpi di zampe gigantesche, lievi come foglie, anche nella mente. Suoni come di campane e di corni lontani. Nessuna parola: brontolamenti, ruggiti da fauci enormi con zanne d’avorio simili a stalattiti sensorie che penetravano a fondo. Fauci che si chiudevano e stringevano, gentilmente, come carezze.

Marjorie fu attirata nella danza da Lui, nonostante il proprio rifiuto. Lei non voleva vedere Lui, ma Lui vedeva lei. Nessun pensiero: soltanto sensazione. Fluttuare nella sensazione che si gonfiava come una vela. Nessun vincolo: soltanto sensazione. Il momento: soltanto il momento.

Primo rise allegramente. Pericoloso! Rischioso!

Marjorie si sentiva preda di una presenza in agguato. Galleggiava in un liquido caldo e denso come sangue, che diveniva aria da respirare. Sentiva Lui. Gli artigli sensualmente sfoderati. Guizzar di muscoli di una zampa. La spalla enorme, il cuore tonante. Un lampo che guizzava lungo i nervi come filo dorato. Il tocco gentile degli artigli come unghie sulla carne nuda e una scia tremante di sensazione.

Pericoloso. Pensò Marjorie. Pericoloso. Sentì la lingua che le scivolava sulla coscia nuda come un serpente di fiamma verso l’inguine.

Un simbolo fiammeggiante: due parti si muovevano insieme per fondersi con struggente lentezza in un solo essere. Il mio nome. Il tuo nome. Noi.

Marjorie fu sollevata dal serpente e condotta lontano, sino ad una soglia di fiamma, e per paura rifiutò di entrare quando Lui la invitò.

Quando si riprese, col viso umido benché non rammentasse di aver pianto, e la chioma sciolta come un manto di seta, Marjorie giaceva in parte sull’erba corta e in parte sulla morbida pelliccia di Lui, fra le sue zampe anteriori, e sentiva il suo respiro come un vento nelle orecchie.

Quando Lui si alzò e la lasciò, Marjorie si alzò a sua volta, contenta che il proprio viso non fosse visibile nel buio, ma subito arrossì d’imbarazzo nel rendersi conto che Lui non aveva affatto bisogno di vederla in volto. Cercò di vestirsi, e si accorse di esserlo già: era stata denudata soltanto nella mente e nell’anima. Era cambiata.

Poco dopo, Egli tornò, riprese in spalla Marjorie e la trasportò con delicatezza, come un uovo in un cesto, mentre il ricordo della danza sbiadiva nella memoria di lei: qualcosa di meraviglioso, di terribile, di incompleto.

Baccanti che danzano col loro dio, pensò Marjorie. E subito sentì Lui che spiegava, trasmettendo telepaticamente nomi e immagini.

Poche femmine, molto meno numerose dei maschi, e soltanto alcune feconde. Prima dolore, poi soltanto malinconia. Cupa angoscia. Disperazione. Il futuro si apriva come un fiore sterile, vuoto, senza semi.

Com’è possibile che le volpi conoscano i fiori? Non esistono fiori, su Grass.

I fiori nella tua mente. Ho percepito tutto quello che è nella tua mente.

Marjorie si meravigliò: Allora mi conosce davvero! pensò.

Siamo colpevoli. Forse dovremmo morire tutti. Espiare il peccato. Non si tratta del peccato originale, forse, nondimeno è peccato. Malvagità. Colpa collettiva. Padre Sandoval che parlava.

Evidentemente è stato padre Sandoval a suggerire il concetto di colpa collettiva. Pensò Marjorie. Molto tempo fa, le volpi hanno lasciato che il massacro fosse perpetrato.

Le volpi lontano dalla città, mentre gli Hippae massacravano gli Arbai. Urla. Sangue. Altrove, incredulità. Un ricordo chiaro, come se tutto fosse avvenuto il giorno prima. Tutte le volpi erano colpevoli.

Depressione successiva al coito? pensò Marjorie per un istante, con isterica allegria. Ma subito sentì che si trattava di tristezza vera, profonda. Non fu colpa vostra.

Gelide immagini di morte e di dolore. Perché dici questo?

Perché è vero. Sono maledettamente sicura che non fu colpa vostra.

Ma il massacro potrebbe essere stato commesso anche da alcuni di noi, quando erano allo stadio di Hippae. Potrebbero essere stati anche alcuni di noi!

Non fu colpa vostra. Quando eravate Hippae non eravate consapevoli, eravate privi di morale. Gli Hippae non conoscono il concetto di peccato. Sono come bambini che giocano coi fiammiferi e bruciano la casa.

Un passato molto lontano. Gli Hippae non erano malvagi. Ricordi dell’epoca ormai lontana, prima della mutazione, quando le volpi deponevano le uova. Nessuna uccisione, allora. Una volpe ululava di dolore, con la testa china fra le zampe anteriori. Penitenza.

Allora dovete tornare indietro, pensò Marjorie, cominciando ad intrecciarsi i capelli. Dovete fare in modo che le cose tornino ad essere com’erano un tempo. Alcune di voi sono ancora feconde.

Poche. Pochissime.

Non importa se sono poche! Non dovete sprecar tempo nella penitenza e nella colpa! Risolvere il problema è molto meglio! Marjorie sapeva che era vero, e si rammaricava di non esserne stata consapevole in passato, sulla Terra, nella Città dei Procreatori.

Mancanza di comprensione.

Le volpi curve nel dolore, mentre gli Hippae scalpitano e muggiscono. No! Non deve essere così! Una volpe eretta, rampante, con gli artigli sfoderati, che depone uova. Così è meglio, molto meglio.

Un vuoto incommensurabile. Decisione di non occuparsi più di quello che accadeva nel mondo. Responsabilità senza desiderio di rimediare.

Marjorie urlò. Non sapeva se Lui non la udisse, oppure la ignorasse. Sebbene cambiata, ella sapeva di doverlo indurre ad ascoltare, tuttavia i Suoi pensieri erano ormai turbati da altre presenze.

La notte era trascorsa. Nel salire verso i globi luminosi della Città Arborica, Majorie udì i nitriti di contentezza dei cavalli che pascolavano. Era così stanca che riusciva ormai a reggersi a stento, quando Egli si inginocchiò, la depose e se ne andò.

— Marjorie? — chiese padre James, con una espressione di grave preoccupazione. — Stella?

— È viva. — Marjorie si leccò le labbra. Parlare le sembrava così strano come usare un organo per uno scopo inadeguato. — Ricorda il proprio nome, e credo che ci abbia riconosciuti. Ho incaricato gli altri di portarla al Comune.

— L’hanno trasportata le volpi?

Marjorie annuì: — Sì, alcune volpi. Le altre se ne sono andate tutte, tranne Lui.

— Primo?

Marjorie non riusciva a chiamarlo così. Perdonatemi, padre, poiché ho peccato, pensò. Ho commesso adulterio. Bestialità? No, perché Lui non è un uomo, ma neppure una bestia. Cos’è? Amo un… Davvero amo un…?

— Sei stata via per molto tempo. La notte è quasi trascorsa.

Per non parlare di quel che più la preoccupava, Marjorie disse disperatamente: — Pensavo che tutta quella discussione sul peccato fosse una polemica di frate Mainoa, ma non è affatto così! Le volpi ne sono ossessionate. Hanno deciso il suicidio della loro stessa razza, o stanno meditando di commetterlo, per penitenza. — E si chiese: Ma è o non è suicidio restare inerti, astenersi dall’agire?

Annuendo, padre James aiutò Marjorie ad alzarsi e ad entrare nella casa che aveva scelto: — Te ne sei resa conto anche tu, vero? — domandò, mentre ella si lasciava cadere seduta. — Mainoa dice la stessa cosa. Senza dubbio gli Hippae sterminarono gli Arbai, e adesso stanno facendo la stessa cosa con l’umanità. Non so come, perché le volpi non lo rivelano, come se non fossero sicure che siamo degni di saperlo. È come risolvere una sciarada, o un rebus: ci mostrano immagini, ci trasmettono emozioni, e soltanto a tratti usano parole. Nonostante le nostre difficoltà, sembra che comunichino meglio con noi, che con gli Hippae. Le volpi e gli Hippae trasmettono o ricevono su differenti lunghezze d’onda, o qualcosa del genere.

Per Marjorie non era più una sciarada né un rebus, bensì quasi un linguaggio: lo sarebbe diventato se avesse varcato quella soglia, se non si fosse ritratta all’ultimo istante. Come posso spiegarlo a padre James? pensò. Potrei spiegarlo soltanto a Mainoa. Domani, forse. E rispose: — Credo che abbiate ragione, padre. Da quando è avvenuta la mutazione, le volpi non comunicano più con gli Hippae. Però ho l’impressione che in passato, quando deponevano le uova, le volpi fossero in grado di educare e guidare i loro giovani.

— Quanto tempo fa? — chiese padre James.

— Molto tempo fa, prima che arrivassero gli Arbai. Secoli orsono, o forse millenni.

— È trascorso moltissimo tempo, eppure ricordano.

— Come la si potrebbe definire, padre? Memoria empatica? Memoria razziale? Memoria telepatica? — Così dicendo, Marjorie si sciolse le trecce. — Oh, Dio. Sono così stanca.

— Dormi pure. Gli altri torneranno?

— Appena possibile. Domani, forse. Qui abbiamo finalmente la possibilità di trovare risposte. Domani. Domani dobbiamo ricavare un senso da tutto questo.

Padre James annuì, non meno stanco di lei: — E domani lo faremo, Marjorie: ci riusciremo.

Nonostante queste parole, il prete non riusciva neppure ad immaginare da che cosa ella intendesse trarre un senso. Non sa che cosa ho rischiato di fare, oppure ho fatto, pensò Marjorie. Fino a che punto occorre arrivare? Sono ancora casta, oppure mi trovo in una condizione che non so definire? Anche domani, non potrò parlare a nessuno della mia esperienza. Forse non potrò mai.

Di primissimo mattino, quando il sole era appena sorto all’orizzonte, le volpi deposero Tony e i suoi compagni di viaggio al margine della foresta palustre, nei pressi dell’astroporto, quindi scomparvero fra gli alberi, lasciando soltanto un vago ricordo del loro aspetto.

— Ci aspetterete? — chiese Tony, cercando di trasmettere telepaticamente una immagine di volpi che attendevano in cima a un albero, magari appisolate.

Volpi in piedi, immobili dove si trovavano in quell’istante. Il sole si muoveva lentamente nel cielo a indicare il trascorrere del tempo.

Tony si curvò su se stesso, trafitto da un dolore improvviso, e Rillibee si compresse la testa con una mano, serrando gli occhi, stringendo Stella a sé con l’altro braccio.

— Capisco — ansimò Tony. — Aspetterete qua il nostro ritorno. — E ricevette in risposta un assenso telepatico.

— Cosa succede, Tony? — chiese Sylvan.

— Se poteste sentirli, non lo chiedereste — rispose Rillibee. — Ci credono sordi, perciò gridano.

— Vorrei che potessero gridare abbastanza per farsi sentire da me — replicò Sylvan.

— In tal caso, a noi si friggerebbe il cervello — rispose Tony, con irritazione. Aveva provato per Rillibee una immediata simpatia, ma nutriva ancora diffidenza nei confronti di Sylvan.

Infatti, il figlio di Rowena aveva maniere notevolmente autoritarie, di cui diede subito prova: — Dobbiamo parlare con le autorità. Al cosmodromo troveremo qualcuno che ci trasporti alla Via della Montagna di Grass. — E si avviò all’astroporto.

Seppur convinto che non valesse la pena discutere, Tony era deciso a portar subito Stella da un medico: — Troveremo un dottore soltanto dall’altra parte della città? — chiese.

Arrossendo, Sylvan si fermò: — No. Anzi, l’ospedale è proprio quassù, vicino all’Albergo dell’Astroporto.

— Allora ci andiamo subito — intervenne Rillibee, in un tono che non ammetteva repliche. Poi prese in braccio Stella e si incamminò su per la china, verso l’ospedale.

— Posso aiutarti a portarla? — chiese Tony.

Benché Stella fosse profondamente addormentata, e quindi incapace di riconoscere il fratello, Rillibee scosse la testa: — Ce la faccio — rispose, pur essendo esausto, dopo averla tenuta fra le braccia per ore, sulla schiena di una volpe. Anche se lui la considerava una bambina, Stella non era affatto leggera. — Ormai non manca molto — soggiunse. Non sapeva perché, ma l’amava e non voleva lasciarla.

Dopo una salita che li mise a dura prova, data la loro stanchezza, i tre giovani e la ragazza giunsero infine all’ingresso posteriore dell’ospedale. Un infermiere in giacca bianca li osservò per un momento, quindi rientrò, e in breve tornò con alcuni colleghi che portavano una barella.

Con le ultime forze di cui disponeva, Rillibee depose Stella sulla barella. Poi, per entrare nell’ospedale, dovette farsi sostenere da un infermiere.

— Chi è la ragazza?

— Stella Yrarier — rispose Tony. — Mia sorella.

— Ah! Be’, anche vostro padre è ricoverato qui.

— Mio padre? Cosa gli è accaduto?

— Chiedete alla dottoressa Bergrem. A quest’ora la potete trovare lì, nel suo ufficio.

Pochi minuti più tardi, Tony poté osservare il viso del padre addormentato: — Cos’ha?

— Nulla di troppo grave, per fortuna. Altrimenti ci saremmo trovati nei guai, visto che non abbiamo le attrezzature per la clonazione e la sostituzione sistemica, che sono disponibili altrove.

Clonazione! Sostituzione sistemica! pensò Tony, sapendo che la percentuale di mortalità in seguito a questi interventi era molto alta. Inoltre era proibito agli antichi cattolici usufruire della clonazione sistemica, anche se non mancavano coloro i quali non rispettavano tale divieto.

La dottoressa Bergrem lo scrutò, aggrondata: — Non inquietatevi, ragazzo. Come ho detto, vostro padre non ha nulla di grave. Abbiamo già provveduto a curare parecchie ferite di varia natura e una lieve commozione cerebrale, mentre le lesioni nervose alle gambe stanno già guarendo. Ha soltanto bisogno di restar qua a riposare per un altro paio di giorni. — Magra, col naso corto e schiacciato, la folta chioma nera raccolta in crocchia, e il corpo quasi asessuato nell’ampio camice sventolante, la dottoressa era curva sui pannelli a manovrare manopole.

— Gli avete somministrato sedativi? — chiese Tony.

— Altro che sedativi: macchina del sonno, è un tipo talmente nervoso che, se lo si lascia cosciente troppo a lungo, diventa terribilmente inquieto.

Con una smorfia ironica, Tony pensò: Bell’eufemismo! Sarebbe più esatto dire che si adira, o che s’infuria.

— Il caso di vostra sorella, invece, è del tutto diverso — proseguì la dottoressa Bergrem. — Senza dubbio bisogna procedere alla ricostruzione mentale. Gli Hippae l’hanno condizionata.

— Allora lo sapete!

— L’ho scoperto esaminando i bon che sono venuti qua con le ossa rotte o le membra amputate: non reagiscono mai normalmente. Perciò spiego loro che intendo controllare i riflessi, e invece esamino la mente. Di solito riscontro deformazioni rimarchevoli, ma loro non mi permettono di farci niente: preferiscono tenersele, per quanto strani esse li rendano.

— Non vogliamo che la personalità di Stella sia annullata!

— Non ne ho mai dubitato neanche per un momento. Ma forse non riusciremo a ripristinarla del tutto: abbiamo i nostri limiti.

— Dovremmo inviarla altrove?

— Be’, giovanotto, direi che per il momento vostra sorella è più al sicuro qui che altrove, quantunque la sua personalità sia devastata. Sapete tutto, vero?

— Che cosa intendete dire? — Tony fissò la dottoressa, rifiutando di comprendere.

— Alludo alla peste. Ci stiamo facendo un’idea abbastanza precisa di come vanno le cose nel resto dell’universo.

— Sapete forse che cosa provoca la peste? Sapete se si è già diffusa anche qui?

— Sono quasi sicura che su Grass non esiste. Perché non siete venuti ad interrogare noi medici? Ci giudicavate dunque incapaci? Prendete me, per esempio: sono laureata in biologia molecolare e virologia all’Università di Semling, inoltre ho studiato immunologia su Pentimento. Avrei potuto benissimo occuparmi di questo caso. — La dottoressa Bergrem scoccò un’occhiata di genuina curiosità al giovane: — Si dice che abbiate invece tentato di investigare segretamente.

— Infatti — sussurrò Tony. — Il problema è che bisogna impedire agli Ammuffiti di venire a conoscenza dell’esistenza della peste. Altrimenti…

Meditando, la dottoressa lentamente impallidì: — Volete dire che la diffonderebbero anche qui? Di proposito?

— Sì, se ne fossero informati.

— Mio Dio, ragazzo! — rise amaramente la dottoressa Bergrem. — Ma ormai lo sanno tutti!