125675.fb2 Pianeta di caccia - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 18

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Nella Città Arborica degli Arbai, due religiosi sedevano nella dolce brezza serale a mangiar frutta colta sugli alberi circostanti dalle volpi, una delle quali era rimasta per condividere la loro cena.

— Sembrano prugne — osservò padre James, che era arrivato verso metà mattina, a dorso di volpe, solo, giacché padre Sandoval aveva rifiutato di lasciare la città.

Benché si trovasse nella Città Arborica già da qualche tempo, frate Mainoa non si era ancora ripreso dalla spossatezza del viaggio e posava la testa sul petto della volpe, come un bimbo all’ombra.

Per l’ennesima volta, padre James tentò di convincersi che le volpi erano reali: non sogni, non visioni amorfe, non astrazioni o illusioni; ma ancora una volta stentò a riuscirvi, poiché in realtà non riusciva a vederle. Talvolta intravedeva una zampa, o meglio una mano; oppure un occhio; o, come un’ombra, parte di una gamba o della schiena; però quando cercava di osservare la figura nella sua interezza, gli lacrimavano gli occhi e gli veniva l’emicrania. Si volse ad osservare gli alberi, pensando che non valesse la pena preoccuparsi: presto tutto si sarebbe risolto, in un modo o nell’altro.

— Sono camaleonti psichici — sussurrò frate Mainoa. — Anche gli Hippae sono in grado di mimetizzarsi così, seppure non altrettanto bene.

Con le labbra tremanti, agognando qualcosa di famigliare, padre James insistette: — Non vi sembra che queste frutta assomiglino alle prugne? La buccia, però, è più simile a quella delle pere, anche se le dimensioni non corrispondono.

— Non ci si deve stupire che siano così piccole, giacché sono maturate tanto presto — spiegò frate Mainoa, quasi in un bisbiglio. — Le frutta estive ed autunnali sono più grandi, incluse quelle prodotte dai medesimi alberi. — Sembrava contento, anche se debolissimo.

— Dunque gli alberi fruttificano più di una volta durante la stessa stagione?

— Oh, certo — mormorò Mainoa. — Fruttificano in continuazione fino al tardo autunno.

Intanto, Janetta bon Maukerden canticchiava fra sé e sé, danzando su un ponte che partiva dalla veranda, e Dimity bon Damfels, dal parapetto, ammirava la foresta con un pollice nella bocca aperta e una remota curiosità negli occhi. La voce di Rillibee, il quale si trovava con Stella in una casetta prospiciente la veranda, giungeva al prete e al monaco: — Raccogli il frutto con la mano, Stella. Così. Adesso, mordilo. Brava ragazza. Pulisciti il mento. Così. Brava ragazza! Ecco, un altro morso, ora.

— È molto paziente — sussurrò padre James.

— È necessario che lo sia — mormorò frate Mainoa. — Con tre ragazze in quelle condizioni!

— Povere disgraziate. Il meno che possiamo fare è aiutare Rillibee a rieducarle. — Padre James rifletté brevemente, prima di aggiungere: — Se rimarremo qui abbastanza a lungo.

Alcuni ologrammi arbai impegnati in una conversazione sibilante passarono su di loro, tingendoli di colori lievi e spettrali. Con un guizzar di scarlatto e blu, un uccello che ricordava un pappagallo terrestre volò da un albero all’altro. Dove Janetta danzava, un ologramma si afferrò al cavo portante e si accosciò, sporgendo il sedere dal ponte: gli Arbai avevano sempre espletato con disinvoltura i bisogni fisiologici.

— Spetta a voi scegliere se rimanere o partire, padre — disse frate Mainoa in un debole sussurro.

— Non siamo neppure sicuri di poter sopravvivere, qui! — protestò il prete. — Consideriamo il cibo, ad esempio: non sappiamo affatto se queste frutta basteranno a sostentarci.

— Le frutta e i semi saranno più che sufficienti — garantì frate Mainoa. — Per molti anni il priore Laeroa ha studiato il potere nutritivo di varie combinazioni di semi. Dopotutto, padre, molti abitanti della terra vivono con poco più che grano, o riso, o mais: anche questi sono semi.

— Per raccogliere semi commestibili dovremmo andare nella prateria — obiettò padre James. — E gli Hippae non ce lo permetteranno.

— Potrete farlo tranquillamente: sarete protetto. — Frate Mainoa chiuse gli occhi e parve appisolarsi, come gli accadeva spesso.

D’un tratto, padre James rammentò le fattorie che aveva visitato da bambino: — Però, adesso che ci penso, qua nella palude si potrebbero allevare oche e anatre. — Cercò di ridacchiare, ma riuscì soltanto ad emettere un tremulo sospiro, rammentando che la scarsa popolazione di Grass era forse tutto quel che restava dell’umanità nell’universo: a cosa sarebbe servito allevare anatre e oche?

— Ecco. Pulisciti ancora il mento. — disse Rillibee. — Oh, Stella! Sei proprio una brava ragazza intelligente!

Sempre canticchiando, Janetta piroettò, poi si fermò un momento per dire, con assoluta chiarezza: — Pipì! — Si sollevò la gonna, si afferrò al cavo portante, e si accosciò, assumendo la stessa posizione dell’ologramma arbai — di poco prima, col sedere sporgente.

— Parla — commentò padre James, arrossendo, e distogliendo lo sguardo dalle nude natiche di Janetta.

— È in grado di apprendere — convenne frate Mainoa, risvegliandosi improvvisamente.

Sempre col viso risolutamente distolto, padre James sospirò: — Speriamo che possa imparare ad essere un po’ più modesta.

Frate Mainoa sorrise: — O che noi possiamo imparare ad essere, com’erano evidentemente gli Arbai, un po’meno assillati dalla carne.

In quel momento, padre James fu pervaso da una tristezza così struggente come un dolore fisico: d’un tratto, attraverso gli occhi di una creatura diversa, vide frate Mainoa come un amico molto debole, che non sarebbe più stato assillato dalla carne ancora per molto. Capì di essere osservato e sollevò lo sguardo. Allora si accorse che un paio di occhi inumani e splendenti fissavano i suoi ed erano colmi di lacrime enormi, molto umane.

Gli Yrarier erano stati imprigionati da poco, quando il serafino si recò in città con una pattuglia di «santi», in equipaggiamento da battaglia più per impressionare la popolazione che per esigenze militari.

I soldati della Santità cercavano un certo frate Mainoa. Tutti lo avevano visto, alcuni sapevano dove aveva dormito o dove aveva mangiato poche ore prima, ma nessuno sapeva dove si trovasse in quel momento: — Era molto depresso — spiegò un certo Persun Pollut, con cristallina onestà — a causa della morte orrenda dei Frati Verdi nell’incendio del Monastero. — Celando con espressione lugubre e con un sospiro triste il proprio desiderio di visitare la Città Arborica, soggiunse: — Non mi stupirebbe se si fosse recato nella foresta palustre e si fosse smarrito. È capitato a varie persone, di recente.

Dopo una breve ricerca ai margini della foresta, il serafino inviò una pattuglia nella palude. Al ritorno, fradici sino alle cosce, i soldati non rammentarono di aver veduto nulla. Anche gli occhi-spia inviati nel buio labirinto di liane non avevano scoperto nulla, o meglio, coloro che ne avevano ricevuto le immagini sugli schermi degli elmetti erano sicuri di non aver visto niente. La conclusione fu che, se si era addentrato nella palude, il vecchio frate era sicuramente annegato da un pezzo.

Mentre i loro commilitoni perlustravano la foresta, i soldati rimasti in città furono accolti con allegra e cordiale ospitalità: mangiarono dolci e oca arrosto, bevvero boccali di birra, e continuarono la loro ricerca con crescente trascuratezza fino a sera, senza concludere nulla. Il serafino stesso, che era molto esperto nell’ostentare la propria appartenenza alla Santità e non perdeva occasione per far sfoggio di dotte citazioni e parabole religiose, trovò fra i cittadini una così lusinghiera attenzione che cominciò davvero a divertirsi, anche se, come confessò a tutti, si sarebbe sentito molto più tranquillo se avesse potuto disporre di alcune centinaia di santi, anziché di poche decine. Secondo la brava gente del Comune, infatti, sul pianeta esistevano alieni ostili che avevano già scavato un passaggio sotterraneo sotto la foresta.

— Non avete sismografi? — chiese il serafino — Potreste usarli per scoprire in tempo gli scavi degli alieni.

— Non esistono terremoti su Grass — spiegò Roald Few. — Le vibrazioni del suolo più intense che si verificano sono quelle prodotte dalle danze degli Hippae.

Il serafino, che si sentiva particolarmente gioviale, scosse la testa: — Vi manderò io qualche sismografo di tipo standard, di quelli che usiamo per localizzare gli artieri che scavano gallerie di mina. Andranno benissimo per le vostre necessità.

— Dovremo collocarli qua in città? — chiese Alverd.

Con l’indice, il serafino tracciò una mappa sulla tovaglia: — Direi qua, a nord, a due terzi della distanza che separa la città dalla foresta. Direi circa una dozzina, disposti a semicerchio. Il ricevitore potrete tenerlo in città, dove vorrete: la Capitaneria, per esempio, andrebbe benissimo. Così almeno vi accorgerete quando gli alieni cominceranno a scavare! — E fece un sorriso beato, fiero di se stesso per essere stato d’aiuto.

Allora Alverd scambiò un’occhiata con Roald, come per dire: Benissimo, lo sapremo. Ma a cosa diavolo ci servirà saperlo?

Intanto, a bordo della Israfel, il vecchio Prelato era inquieto. Secondo gli analizzatori, era possibile che durante il primo interrogatorio gli Yrarier avessero mentito, perciò egli si era convinto di essere stato almeno parzialmente ingannato. Ma durante il secondo interrogatorio Rigo e Marjorie, sempre secondo gli analizzatori, avevano detto la verità e avevano fatto del loro meglio per aiutarlo, mentre Granbravone e Admit bon Maukerden avevano dimostrato di essere bugiardi inveterati fin dalla nascita. Eppure gli Yrarier non appartenevano alla Santità, né sembravano particolarmente intelligenti. Quanto alla faccenda degli Ammuffiti, non poteva certo essere vera: la Santità aveva preso troppe precauzioni per nascondere l’esistenza della peste. Senza dubbio gli Yrarier avevano frainteso le dichiarazioni di frate Mainoa.

Il predecessore di Cory Strange aveva scelto gli Yrarier perché erano suoi parenti, oltre che atleti, ma aveva sbagliato, perché gli atleti in genere non erano certo famosi per la loro intelligenza. Avrebbe dovuto mandare qualcuno più perspicace, più astuto, e senza attendere proprio l’ultimo momento.

Continuare a tener prigionieri gli Yrarier sarebbe del tutto inutile, pensò il Prelato, in conclusione. Non mi resta che recarmi di persona su Grass. Nella navetta che ho fatto appositamente isolare non correrò alcun rischio. Sono certo che dopo si scoprirà qualcosa, o succederà qualcosa!

Tuttavia, proprio quando stava per partire, il Prelato ricevette un messaggio con cui il serafino lo avvertiva che sarebbe stato pericoloso recarsi su Grass non soltanto a causa della peste, bensì anche per la presenza di mostri enormi e feroci che sembrava stessero progettando di invadere l’astroporto.

Questa ulteriore frustrazione bastò a scatenare uno dei rari ma violentissimi accessi di collera cui andava soggetto il Prelato. Atterriti, alcuni novizi che in precedenza erano a malapena sopravvissuti a questi furori, agirono senza perdere tempo: il medico personale somministrò un farmaco di emergenza al Prelato, che subito si addormentò. Allora tutti sospirarono di sollievo. Così, il sonno di Cory Strange si protrasse per alcuni giorni, e nessun ordine fu impartito per la liberazione degli Yrarier.

Seguendo le istruzioni del serafino, Persun, Sebastian e Roald installarono i sismografi nei prati a settentrione della città. Il procedimento era semplice: conficcare un tubo sottile nel terreno mediante una trivella meccanica; inserire nel tubo un congegno fornito di una lunga antenna; avvitare il trasmettitore in cima.

— Non si può sbagliare — aveva garantito il serafino. — È necessario che sia così, visto che all’occorrenza l’operazione deve essere svolta da soldati inesperti, è semplice: uno, conficcare; due, inserire; tre, avvitare.

Senza dubbio erano congegni semplici, ma anche pesanti. Fu necessario un aeromobile per trasportarne una dozzina di sismografi e una ingombrante trivella. L’installazione cominciò all’estremità occidentale del semicerchio da coprire, poi proseguì verso settentrione, parallelamente al margine della foresta.

Era trascorso quasi tutto il giorno, sette sismografi erano stati installati, e il gruppetto stava deviando ad oriente, quando Persun si ombreggiò gli occhi con una mano: — C’è qualcuno nei guai, lassù.

Interrompendo il lavoro, udirono tutti lo sputacchiare di un motore che perdeva colpi. I silenzi erano così lunghi fra un rumore e l’altro, che sembravano le pause nel respiro di un agonizzante: proprio quando pareva che si fosse guastato irrimediabilmente, il motore ripartiva.

Finalmente un aeromobile comparve appena sopra gli alberi e si avvicinò lentamente, sbandando e sussultando. Appena oltre il margine della foresta, perse quota, riprese quota, infine precipitò, atterrando violentemente a meno di cento yarde dalla palude.

Senza esitare, Persun e Sebastian partirono di corsa, seguiti più lentamente da Roald. Sulle prime non provenne alcun segno di vita dall’aeromobile, infine il portello si aprì con uno stridio di metallo torturato e un Frate Verde uscì, intontito, tenendosi la testa fra le mani. Altri dieci o dodici monaci lo seguirono e si lasciarono cadere al suolo, spossati.

Il primo a raggiungerli fu Persun: — Il mio nome è Pollut — si presentò. — Possiamo mandare alcuni velivoli a prendervi, giacché il vostro sembra ormai inservibile.

Il frate più vecchio si alzò a fatica e offrì la mano: — Sono il priore Laeroa. Siamo rimasti nei pressi del Monastero con l’intento di raccogliere eventuali superstiti, ma evidentemente abbiamo indugiato troppo. Il carburante ci è bastato a malapena.

— Siamo sorpresi di vedervi — confessò Sebastian. — Il Monastero era completamente distrutto dal fuoco.

Laeroa si passò le dita tremanti sul viso: — Quando è giunta la notizia dell’assalto a Collina d’Opale e alle altre estancia, abbiamo suggerito al priore Jhamlees Zoe di evacuare il Monastero, ma lui ha sostenuto che gli Hippae non avevano nulla contro i Frati Verdi. Ho cercato invano di spiegargli che gli Hippae non avevano bisogno di alcun pretesto per uccidere. — Barcollò, fu subito sostenuto da un giovane monaco, e dopo un momento proseguì con voce limpida, come se parlasse dal pulpito: — Zoe non ha mai tollerato le discussioni e non ha mai voluto intendere ragione, perciò questi fratelli ed io abbiamo sempre dormito, da allora, nell’aeromobile.

— Eravate a bordo, quando gli Hippae hanno attaccato?

— Sì, quando è cominciato l’incendio — rispose uno dei monaci più giovani. — Siamo partiti e ci siamo allontanati sulla prateria, con l’intenzione di tornare in seguito a soccorrere i superstiti. Non so per quanti giorni siamo rimasti là nei pressi, però abbiamo salvato soltanto una persona.

— Da parte nostra, siamo andati ogni giorno a cercare, raccogliendo in tutto poco più di una ventina di vostri confratelli, quasi tutti giovani — disse Sebastian. — Vagavano nella prateria, molto lontano dal Monastero. Può anche darsi che ve ne siano altri, visto che gli Hippae non sono più da quelle parti: si sono radunati tutti quanti intorno alla foresta palustre.

— Non possono attraversarla, vero? — chiese colui che era evidentemente l’unico superstite raccolto dal gruppo del priore Laeroa. Era pallidissimo e aveva un braccio bendato.

— A quanto ne sappiamo, non possono arrivare fin qua — dichiarò Sebastian, nel tentativo di confortare i monaci. — Ma se anche se ci riuscissero, i nostri sotterranei sono ben difesi e la nostra gente sta già costruendo armi.

— Armi! — ansimò un monaco. — Avevo sperato…

— Speravi forse che si potesse trattare con loro? — interruppe il priore Laeroa, con voce amara. — So che eri nel dipartimento della Dottrina Accettabile, fratello, ma questo è assolutamente da escludere. Sono certo che Jhamlees Zoe ha conservato la sua speranza di convertire gli Hippae fino al momento in cui lo hanno massacrato. Lo sperava fin da quando giunse su Grass, benché io abbia tentato innumerevoli volte di spiegargli che sarebbe stato come convertire le tigri al vegetarianismo.

Sebastian annuì in segno di assenso: — È una fortuna che gli Hippae non abbiano artigli come le tigri terrestri, altrimenti sarebbero in grado di arrampicarsi e noi non avremmo nessuna possibilità di salvarci. Be’, adesso avviatevi pure su per la china. Intanto chiamiamo al dimmi qualcuno che venga a prendervi.

Stancamente, i frati si alzarono e si incamminarono in fila, con lentezza, su per il lungo prato in pendenza. Dopo essersi accertati che tutti i monaci fossero in grado di camminare, Sebastian e Persun tornarono all’aeromobile: — Stanno arrivando — annunciò Roald, dopo aver chiamato aiuto.

— Bene — mormorò Sebastian. — Alcuni di quei poveracci sembrano a malapena in grado di camminare.

— Poco più di una trentina di frati superstiti, su un migliaio. — commentò Persun, nell’allontanarsi per installare un altro sismografo.

— Almeno di una cosa dovremmo essere contenti — rispose Sebastian. — Non resta niente da seppellire, degli altri novecento e passa. — Si fermò accanto alla trivella e soggiunse: — Hai notato che tranquillità? Il silenzio è assoluto.

Entrambi si guardarono attorno per alcuni istanti.

— Probabilmente il rumore della trivella ha spaventato gli animali della foresta — suggerì Persun.

— La trivella non è tanto rumorosa. Inoltre avevamo appena cominciato ad usarla, quando ci siamo accorti dell’aeromobile dei frati.

— Allora sarà stato l’aeromobile stesso.

La quiete perdurò. La foresta palustre, dalla quale provenivano di solito i gracidii degli anfibi, i richiami degli uccelli e i versi di tutti gli altri animali che l’abitavano, era assolutamente silenziosa.

— È strano — sussurrò Persun. — C’è qualcosa che non va: lo sento. — E ritornò verso l’aeromobile, infilando una mano in tasca per prendere il coltello laser.

Alle sue spalle, Sebastian gemette.

Dal margine della foresta, una testa dondolante li fissò ciecamente con occhi vacui, parzialmente scarnificata, con le ossa che scintillavano umide e bianche. Poco a poco apparvero il collo, le spalle, le braccia, e poi un odioso Hippae: un cavaliere defunto, in groppa a una cavalcatura! La bocca si aprì e si chiuse con un aspro batter di denti, e il silenzio cessò.

Dal margine della foresta sbucò un lungo schieramento di cavalieri e mostri che lanciavano strida di odio, di sfida, di morte, di scempio: gli Hippae avevano scavato un’altra galleria a settentrione!

Per afferrare l’amico che era rimasto immobile, come ipnotizzato, Persun tornò indietro, ma proprio in quel momento Sebastian fu straziato da un mostro: il suo ultimo pensiero fu che l’installazione dei sismografi era cominciata troppo tardi.

Soffocando un urlo di terrore, Persun arretrò verso l’aeromobile, menando fendenti laser. Quando zanne affilate come rasoi gli squarciarono il braccio, l’arma gli cadde su un sasso. Serrando le mascelle, si preparò all’estremo dolore, fissando gli occhi ciechi del cavaliere defunto che lo sovrastava.

All’ultimo istante, tuttavia, l’aeromobile si parò fra lui e l’Hippae, librandosi a un metro dal suolo, mentre Roald strillava e il mostro avventava invano le fauci zannute. Nel gettarsi all’indietro attraverso il portello aperto, Persun vide che altri aviomobili si libravano intorno alla patetica fila dei monaci dalle tonache verdi, alcuni dei quali giacevano morti e straziati, altri fuggivano barcollando, altri ancora si rifugiavano sui velivoli. Intanto gli Hippae, tutt’intorno, ululavano e s’impennavano, scuotendo e scrollando i cavalieri, che sembravano legati alle loro groppe.

Mentre l’aeromobile prendeva quota, Persun, col sangue che gli gocciolava fra le dita inerti e la testa che sporgeva dal portello aperto, si sforzò di non guardare i miseri resti di Sebastian. Branchi di veltri e Hippae stavano già avanzando verso la città, Roald urlava al dimmi, un mostro stava facendo a pezzi un frate, altri monaci strillavano di terrore, ma Persun riusciva a pensare soltanto che non poteva più muovere la mano che usava per intagliare.

Accanto a lui, Roald gridò per avvertirlo di qualcosa, ma Persun neppure si volse: poiché aveva la mano paralizzata, pensava che forse avrebbe preferito morire.

Intanto che centinaia di Hippae assalivano la città da settentrione, battaglioni di migerer terminarono di aprire una seconda galleria a meridione, più alta e più ampia della precedente, affinché i mostri potessero percorrerla di corsa, a schiere. Così, come era accaduto nel remoto passato alla città degli Arbai, gli Hippae sbucarono a stuoli ululanti dalla foresta e invasero l’astroporto. A meridione della Mug non incontrarono alcuna vera resistenza: i pochi soldati che presidiavano il cosmodromo, inesperti e colti di sorpresa, furono immediatamente sopraffatti.

Soltanto tre o quattro militari, più rapidi degli altri, riuscirono ad armarsi e salire su una torre di servizio dove i mostri non poterono seguirli. Morendo a dozzine fra grida d’incredulità, gli Hippae impararono ad evitare le armi.

A settentrione della Mug, la sirena suonò appena fu ricevuto l’allarme di Roald e tutti gli abitanti del Comune fuggirono nei sotterranei. Le porte, precedentemente rinforzate, furono chiuse, benché si temesse che non avrebbero potuto resistere a lungo agli attacchi degli Hippae. Contemporaneamente, James Jellico chiuse i cancelli della Capitaneria, ed ebbe inoltre la presenza di spirito di inviare messaggeri a convocare i soldati che erano rimasti a gustare la cucina dei cittadini. Pur ignorando da dove giungesse la minaccia, sapeva che i soldati, anche se pochi, erano almeno dotati di armi adeguate. Forse il serafino avrebbe potuto portare altre truppe e altre armi dalla cosmonave.

Scelta la Capitaneria come quartier generale, il serafino cominciò ad organizzare la difesa: — Due uomini ad ogni feritoia — ordinò, sudando alla vista degli Hippae che infuriavano tra le salme immote sparse per l’astroporto. — Novantacinque gradi di copertura per il fuoco automatico. Lampade degli elmetti a tutta intensità. Occhiali infrarossi. Fuoco automatico su qualunque cosa si muova.

— Ma vi sono una dozzina di santi all’astroporto — obiettò un soldato dalla bocca arida. — Potrebbero tentare di raggiungere il cancello.

— Stanno sparando dalla cima di quella torre, cherubino — rispose torvo il serafino, indicando la torre di servizio come se l’altro fosse cieco. — Se coloro che vi si trovano hanno un briciolo d’intelligenza, non si muoveranno: sono più al sicuro là che qui. Se qualcosa si avvicina al cancello, sparate per uccidere. Sospendete tutte le comunicazioni, se non per annunciare che quei mostri sono riusciti a sfondare le difese. Devo chiamare rinforzi. — Sapeva che per questo sarebbero occorse parecchie ore, se non giorni, poiché la Israfel non era equipaggiata con navette d’assalto. Chi avrebbe potuto prevedere una simile necessità? Le uniche navette a disposizione erano in grado di trasportare soltanto dieci uomini alla volta e disponevano di scarsa potenza di fuoco.

— Signore — riprese il cherubino — cosa ne sarà della gente che si trova nell’albergo?

— Quale gente? — domandò James Jellico, sorpreso.

— Gli scienziati inviati dal Prelato — rispose il cherubino — e l’ambasciatore, con la moglie.

Nell’appartamento all’Albergo dell’Astroporto, Marjorie fu destata dai primi ululati degli Hippae. Poiché le sue finestre erano interne, si recò nella stanza dove Rigo dormiva, spossato, e guardò fuori: alcuni fari spazzavano selvaggiamente la rampa, mentre molti Hippae entravano e sbucavano dall’ombra. Senza svegliare il marito, con gli abiti spiegazzati e la chioma sciolta e scarmigliata, andò ad aprire la porta dell’appartamento: — Guardia, venite a guardare dalla finestra — disse alla sentinella notturna che aveva sostituito quella diurna. — Parecchi mostri hanno invaso l’astroporto.

Con un gesto, il soldato ordinò a Marjorie di arretrare, come se la considerasse pericolosa, quantunque fosse disarmata; poi andò a guardar fuori e parve indeciso sul da farsi.

— Se resteremo qui dovremo organizzare la miglior difesa possibile contro quei mostri — dichiarò Marjorie. — Naturalmente dobbiamo presumere che prima o poi arriveranno qui.

— Come? Cosa intendete dire?

— Non possono usare scale a pioli, ma non sono affatto stupidi: capiranno senz’altro a cosa servono i pozzi ascensionali, se già non lo sanno, perciò dobbiamo disattivarli. Ci troviamo al quarto piano: senza pozzi ascensionali non riusciranno ad arrivare quassù.

— Ma la centralina sarà nel sottosuolo!

— Dobbiamo andarci comunque.

In silenzio, il soldato si avviò al pozzo discensionale, poi tornò indietro.

— Forza, ragazzo! — scattò Marjorie. — Sono abbastanza vecchia per essere tua madre, quindi posso anche sgridarti. Prendi una decisione!

Il giovane fece per deporre l’arma.

— Tienila — ordinò Marjorie. — I mostri potrebbero entrare nell’albergo mentre siamo dabbasso.

Insieme alla sentinella, Marjorie si lasciò cadere nel pozzo discensionale, lamentandosi mentalmente della lentezza della discesa: purtroppo, negli edifici sfarzosi come l’Albergo dell’Astroporto, i pozzi lenti erano considerati un lusso. Come granelli di polvere, il soldato e l’ambasciatrice scesero fino a cinque piani nel sottosuolo, mentre dall’indicatore risultava che il pozzo proseguiva per altri cinque piani.

— Ci sono gli alloggi invernali, laggiù — osservò Marjorie. — Avevo dimenticato i sotterranei.

— Qua, in inverno, dev’essere proprio un gran freddo, eh? — chiese la sentinella, guardando cautamente attorno.

— Ho l’impressione che il freddo non sia il peggior disagio — rispose Marjorie. — E adesso dove dobbiamo andare?

Il ragazzo indicò, di fronte al pozzo, la solida porta metallica della centralina.

Nella cabina piena di consolle e di contatori, Marjorie disse: — Dobbiamo spegnere tutto.

— Tutto? Come faremo con la luce e l’acqua? E poi, come risaliremo?

— Risaliremo il pozzo. — Leggendo le etichette delle consolle, Marjorie scoprì che l’impianto idrico sembrava indipendente da quello energetico e spense quest’ultimo: — Dannazione! — ringhiò, nell’istante in cui la cabina rimase al buio. Ma subito dopo fu accecata da un raggio luminoso.

— Avrei dovuto accenderla prima — ammise il soldato, regolando l’intensità della lampada dell’elmetto. — Da dove risaliamo?

— Dalla scala di emergenza del pozzo.

Ritornati al pozzo gelido e buio, cominciarono a salire i freddi gradini metallici, alla luce della lampada: — È molto comodo — commentò Marjorie, che precedeva il ragazzo, ansimando. — Il tuo elemetto, voglio dire. La lampada funziona anche all’infrarosso?

— Certo — rispose il giovane. — L’elemetto è fornito anche di altri sei dispositivi, che consentono fra l’altro di distinguere creature vive da creature morte, individuare movimenti, e attivare il fuoco automatico, mediante il collegamento ai comandi dell’armamento installati nell’armatura.

Marjorie fu lieta che la sua voce esprimesse fierezza e fiducia, perché il ragazzo ne avrebbe avuto bisogno: forse proprio da esse sarebbe dipesa la loro salvezza. — Adesso tanto vale che entri nell’appartamento con noi — disse, quando furono al quarto piano. — Per precauzione, chiuderemo a chiave la porta: non si sa mai. — Nell’appartamento, osservò Rigo, il quale dormiva ancora, angosciato ed esausto: — Avrà fame, quando si sveglierà. Purtroppo, non abbiamo cibo.

— Razioni di emergenza — disse il ragazzo, picchiettandosi una lunga tasca del cosciale. — Bastano per dieci giorni a una sola persona. A noi tre dureranno almeno per un po’. Non sono molto gustose, ma il cherubino ci ha garantito che sono nutrienti. — Quindi accennò all’ambasciatore addormentato: — Era malato?

Marjorie annuì, pensando: Sì, Rigo era malato. Tutti coloro che partecipavano alla Caccia erano malati. Poi chiese: — Qual’è il tuo nome? Sei un santificato?

Il soldato sorrise orgogliosamente: — Favel Cobham, signora. E sono un santificato, signora, come tutti i miei famigliari. Sono stato registrato alla nascita, perciò sono salvo per l’eternità.

— Sei fortunato. — Marjorie si volse a riguardare il marito: Qua all’albergo Rigo ed io non saremo salvi neppure per questa vita, se gli Hippae riusciranno a salire, pensò. Forse Tony si salverà, se sarà trovata una cura. E forse anche Stella. Rammentò il modo in cui Rillibee la guardava: Sì, forse Stella è salva, se non per l’eternità, almeno per la breve esistenza di un microrganismo, che è tutto quello che ci si può aspettare. Ritornò alla finestra, e vide le stalle, che erano solide, ma non inespugnabili : I cavalli! Non posso abbandonarli. Le stalle comunicano con l’albergo mediante i sotterranei che collegano tutti gli edifici della città. Ma riuscirò ad arrivarci? E si frugò nelle tasche della giacca per cercare il registratore di rotta che frate Mainoa le aveva restituito.

— Il serafino è in città con una pattuglia — disse Favel.

— Cosa credi che farà? — domandò Marjorie.

Il ragazzo scosse la testa: — Be’, signora, come ha detto il cherubino varie volte, il serafino è un comandante molto prudente. Aspetterà fino a domani mattina, chiamando intanto rinforzi dalla cosmonave, poi aprirà probabilmente il fuoco automatico dalla Mug, con tutte le truppe a sua disposizione.

— Esiste almeno una galleria da cui gli Hippae possono entrare — osservò Marjorie. — È necessario farla saltare, inondarla, o qualcosa del genere.

— I cittadini ne sono al corrente?

Marjorie annuì.

— In tal caso, hanno senz’altro avvertito il serafino, che provvederà forse questa notte stessa, se riuscirà a far giungere dalla Israfel l’equipaggiamento adatto. Dovunque vada, è sempre accompagnato da un reparto d’assalto, e questi reparti sono sempre forniti con ogni genere di esplosivo.

— Vuoi dire che si è recato in città con un reparto d’assalto? — chiese Marjorie, incredula.

— Ovunque vada, persino in bagno — rispose Favel, pacato — il serafino è sempre accompagnato da un reparto d’assalto, in modo da poter far fronte a qualunque evenienza, come un ammutinamento, o qualcosa del genere.

Sbalordita, Marjorie scosse la testa: il Prelato doveva sentirsi davvero poco sicuro, se riteneva perennemente possibile una rivolta.

— Ammutinamento? — ripeté Rigo in tono rabbioso, dalla soglia, con addosso soltanto i calzoni. — Cosa sta succedendo?

Allora Marjorie si scostò dalla finestra per consentirgli di guardare: — Gli Hippae sono riusciti a superare la foresta. Questo giovanotto ed io abbiamo spento l’impianto energetico dell’albergo, quindi gli Hippae non potranno salire, a meno che esistano scale di cui non sono a conoscenza. D’altra parte, noi siamo intrappolati qui, almeno per il momento. — Non lo disse, ma credeva che difficilmente sarebbero riusciti ad uscire vivi dall’albergo.

— Hippae — disse Rigo, impassibile, guardando dalla finestra. — Quanti sono?

— Abbastanza per infliggere gravi perdite — rispose Marjorie. — Ho smesso di contarli quando erano circa un’ottantina, ma ne stavano già arrivando molti altri.

— Ti dispiace uscire un momento? — disse Rigo al giovane soldato. — Vorrei parlare in privato con mia moglie.

— No, il ragazzo resta qui — obiettò Marjorie. — Non voglio che rimanga nel corridoio, dove gli Hippae potrebbero fiutarlo o sentirlo. Non intendo rischiare in alcun modo di attirarli, dato che potrebbero esistere vie d’accesso che non conosciamo. Se vuoi parlarmi in privato, andiamo nella tua stanza. — Stazzonata, scarmigliata, eppure maestosa, precedette il marito nella camera attigua, si accomodò su una sedia, e attese.

Rigo cominciò a passeggiare su e giù per la stanza: — Durante la tua assenza, ho avuto modo di discutere la nostra situazione con padre Sandoval. Credo che abbiamo bisogno di parlare del nostro futuro.

Come al solito, sceglie di parlare del futuro proprio in un momento in cui sembra che per noi non ne esista alcuno, pensò Marjorie, con tristezza mista a una vaga irritazione. Ha sempre parlato d’amore quando non esisteva amore, e di fiducia quando non vi era fiducia, come se l’uno e l’altra non fossero sentimenti, bensì meri simboli, o strumenti da usare per ottenere lo scopo desiderato, oppure come se i nomi potessero suscitare i sentimenti allo stesso modo in cui le chiavi aprono i lucchetti. Si pronuncia la parola «amore» come se si girasse una chiave nella serratura, e l’amore sboccia. Si dice «fiducia» e la fiducia nasce. Si dice «futuro» e… Impassibile, domandò: — Cosa vorresti dire sul nostro futuro?

— Padre Sandoval concorda con me sul fatto che si finirà per trovare una cura — dichiarò Rigo con certezza assoluta, come se la sua sola affermazione potesse decidere della realtà.

Be’, pensò Marjorie, quasi tutte le volte che ha usato questo tono, Rigo è riuscito ad ottenere quello che voleva. Ha parlato così alla madre e alle sorelle, a Eugenie e ai ragazzi, e naturalmente anche a me. E quando il suo tono non era sufficiente, padre Sandoval interveniva a invocare il potere della Chiesa e ad imporre penitenze.

Intanto, Rigo proseguì: — Qualcuno troverà senza alcun dubbio una cura. Non ci vorrà molto, perché ormai sappiamo che la risposta si trova su Grass. Noi rimarremo qui sino a quando la cura sarà diffusa in tutto l’universo, ma poi dovremo tornare, tutti e quattro, alle nostre vere vite.

— Davvero? — chiese Marjorie, pensando ai mostri che avevano invaso l’astroporto. Come può semplicemente ignorarli? Ad ogni modo, non dovrei stupirmi affatto, visto che in precedenza ha potuto ignorare che si trattava di mostri. E soggiunse: — Cosa dovremmo fare, secondo te?

— Dovremo tornare sulla Terra tutti e quattro, inclusa Stella — ripeté Rigo, con sguardo furente. A quanto pareva, si era pentito di aver permesso a Rillibee di condurre Stella nella foresta. — Avrà bisogno di molte cure, ma per te non sarà necessario trascurare le attività filantropiche o l’equitazione: assumeremo persone che badino a lei.

— Che badino a lei. Capisco.

Rigo fece una smorfia torva: — So che Stella avrà bisogno di continue attenzioni, Marjorie. Quel che voglio dire, è che ciò non dovrà esserti necessariamente di peso. So quanto significa per te la filantropia, e quanto credi che sia importante: padre Sandoval mi ha fatto capire che non avrei dovuto contrastarti a questo proposito. Ebbene, ho sbagliato. Adesso mi rendo conto che hai diritto ad avere i tuoi interessi.

Lentamente, Marjorie scosse la testa, incredula. Cosa sta dicendo? pensò. Crede forse che tutto possa tornare come prima, fra noi, come se nulla fosse accaduto? Vuol forse trovare una nuova amante per sostituire Eugenie, e continuare come in passato? E io dovrei riprendere le mie attività alla Città dei Procreatori, come un tempo? Poi domandò: — Dimmi, Rigo. Tu e padre Sandoval avete discusso anche di come presenterai Stella ai tuoi amici? Cosa dirai? «Ecco Stella, mia figlia, l’idiota. Ho permesso che fosse violentata mentalmente e sessualmente, su Grass, per poter dimostrare la mia virilità a gente di cui non m’importava assolutamente nulla». Fornirai forse qualche spiegazione di questo genere?

Furioso, Rigo si rabbuiò: — Non hai il diritto.

Marjorie levò una mano, imponendogli di tacere: — Ho tutti i diritti, Rigo. Sono sua madre. Stella non è soltanto tua, né puoi disporne a tuo piacimento. Appartiene in ugual misura a me, nonché a se stessa. Se vuoi riportarla sulla Terra, suppongo che tu possa tentare, tuttavia non credo affatto che ti sarà facile. Inoltre, ti sarà molto difficile portar via me. Se vuoi provare a ripristinare il nostro precedente rapporto, non tenterò neppure d’impedirtelo. Ma non illuderti che Stella ed io ti seguiremo come cagnolini!

— Non avrai intenzione di rimanere qui!? Cosa potresti mai fare, se restassi? Tutte le tue attività sono sulla Terra! Le nostre vite sono sulla Terra!

— Fino a non molto tempo fa sarei stata d’accordo con te. Ora, tuttavia, non è più così.

— E tutte le chiacchiere che mi sono dovuto sorbire su quanto fosse importante la tua opera alla Città dei Procreatori? Erano forse tutte menzogne?

— Allora credevo davvero che fosse così — rispose Marjorie, ma pensando: O forse mi illudevo di crederlo.

— E adesso non lo credi più?

— Cosa importa? Non sono neppure sicura di quello che credo! E nonostante il tuo ottimismo, non è affatto improbabile che la peste ci uccida, o che gli Hippae ci sbranino! Non è certo questo il momento per discutere in via del tutto ipotetica quello che faremo! Ora non abbiamo altra scelta se non quella di fare del nostro meglio per sopravvivere. — Marjorie si alzò, e nell’uscire posò una mano sulla spalla di Rigo, per confortare lui, o se stessa. Si rammaricava della discussione, perché se le loro vite stavano per avere termine, preferiva che ciò avvenisse senza rancore. Cosa potevano mai importare, in un momento simile, le parole di suo marito?

Poco dopo, Rigo raggiunse Marjorie e Favel alla finestra. Nell’osservare incendi e distruzioni, si chiese perché mai si potesse desiderare di rimanere su Grass.

Gli Hippae avevano trascinato sul pendio erboso gli scienziati che avevano sorpreso nell’ospedale e stavano infierendo sui cadaveri, con cupi muggiti.

Col viso rigato di lacrime, Marjorie imprecò sottovoce. Non aveva avuto modo di conoscere nessuno di quei poveretti, però, quando era scesa con Favel a spegnere l’impianto energetico, avrebbe potuto condurli in salvo. Poi, continuando ad osservare i mostri che straziavano e calpestavano le salme, rammentò i cavalli: non poteva lasciarli soli ad affrontare un tale orrore.

Mentre Rigo e Favel restavano a guardare dalla finestra come paralizzati, Marjorie uscì in silenzio, senza che se ne accorgessero, pensando alla lunga discesa che l’attendeva per giungere ai sotterranei che, come aveva spiegato Persun Pollut, traforavano il sottosuolo del Comune come una spugna.

Per la maggior parte, i cittadini riuscirono a rinchiudersi nei sotterranei prima dell’arrivo dei veltri e degli Hippae, ma non tutti. Coloro che rimasero in superficie si rifugiarono ai piani superiori delle case più alte, dove poterono difendersi almeno per qualche tempo. I coltelli laser troncavano zampe e fauci agli Hippae, ma intanto i veltri, che erano in grado di salire le scale come felini enormi, aggredivano furtivamente alle spalle i difensori e staccavano loro le braccia, disarmandoli. Così, membra e corpi straziati si ammucchiarono nelle strade del Comune, mentre il serafino, alla Capitaneria, sudava e imprecava, rammaricandosi di non poter comunicare con i cittadini.

— Prendete un aeromobile e usatene gli altoparlanti, volando sulla città — suggerì James Jellico.

— Fatelo voi — scattò il serafino. — Dite loro di abbandonare le strade e salire sui tetti, per consentirci di raccoglierli. Dite loro di smetterla di morire inutilmente fino a quando saranno arrivate le mie truppe!

Così partirono Gelatina, Asmir, Alverd, e persino il vecchio Roald. Sorvolando a bassa quota la città, diramarono le istruzioni del serafino: — Salite sui tetti! Vi raccoglieremo!

Coloro che udirono tentarono di obbedire, imprecando e gridando, mentre gli Hippae, che in precedenza avevano sempre scelto di mostrarsi, li aggredivano da ogni porta, da ogni angolo, da ogni strada in apparenza deserta, sbucando dal nulla, rivelandosi soltanto al momento di affondare le zanne: come camaleonti, mutavano il colore della pelle per mimetizzarsi coi muri delle case, talché soltanto il baluginare degli occhi e delle zanne li tradiva, troppo spesso quando era ormai troppo tardi. Tuttavia, i mostri che avevano avuto l’arroganza di farsi cavalcare dai bon non potevano mimetizzare i loro cavalieri orrendi, così che la vista dei corpi dondolanti lungo i muri bastava a rivelarne la presenza.

Nel guardare dal suo aeromobile, Roald si domandò per quale ragione arcana gli Hippae avessero inscenato quell’orrida parodia di Caccia. Vivi, moribondi o defunti che fossero, i cavalieri cadevano quando gli Hippae crollavano uccisi: alcuni che sembravano in grado di sopravvivere furono raccolti, però neppure costoro sapevano per quale ragione si trovassero lì. Perché gli Hippae li avevano portati?

— Vedo morire parecchi Hippae — bisbigliò Roald ad Alverd, nel volare da un tetto all’altro.

— Anch’io — rispose il sindaco, meravigliato. — Ma chi li uccide? I soldati no di certo, visto che sono tutti bloccati alla Capitaneria.

— Noi, credo.

Alverd sbuffò: — Non mi sembra affatto probabile. Guarda, ecco laggiù un altro mostro morto, presso quell’angolo: è completamente straziato.

— Se non siamo noi, chi li uccide, allora?

— Lo ignoro. Ma credo che si tratti di creature invisibili e zannute.

Dal piano inferiore degli appartamenti invernali dell’Albergo dell’Astroporto, Marjorie si addentrò nei sotterranei labirintici alla volta delle stalle, che si trovavano quasi a ridosso della Mug. I suoi passi echeggiavano sulla pietra. Agli incroci fra le gallerie, ognuno dei quali era illuminato da fioche luci, il registratore di rotta le consentiva di non smarrirsi.

Poiché le stalle non erano lontane dalla zona dove gli Hippae uccidevano e dilaniavano, le sarebbe stato difficile uscire coi cavalli senza essere scoperta; però avrebbe potuto tentare di rifugiarsi con essi nella foresta palustre. Era sicura che gli Hippae, se l’avessero scoperta e raggiunta, l’avrebbero massacrata, perché percepiva la loro collera e il loro odio nei suoi confronti: lei li aveva spiati, si era introdotta nel loro antro, li aveva affrontati. Non si sarebbero certo lasciati sfuggire l’occasione di vendicarsi.

Comunque, se fosse riuscita a condurre i cavalli fino al versante del colle e indirizzarli alla foresta, alcuni di essi si sarebbero sicuramente salvati. Una volta raggiunta la foresta, sarebbero stati protetti da Primo. I cavalli erano buoni e coraggiosi: meritavano praterie, puledri, libertà, e lunghi giorni di pascolo al sole, non una morte orrenda tra le fauci degli Hippae.

Quando ebbe stabilito, mediante il registratore di rotta, di aver percorso un tragitto sufficientemente lungo nella direzione giusta, Marjorie cominciò a cercare una scala che conducesse alla superficie, sperando che le stalle non avessero ancora attirato l’attenzione dei mostri, e che i cavalli non fossero feriti, o morti.

No, garantì una voce telepatica. I cavalli sono salvi.

Come raggelata, Marjorie s’immobilizzò. Appena si fu ripresa dallo sbalordimento causato da quella voce che apparteneva alla foresta, e non a quei sotterranei tenebrosi, si volse verso di essa, tremando, come l’ago di una bussola verso il settentrione.

Qui. Qui.

Come un pesce all’amo, Marjorie seguì la voce per gallerie in salita e tortuose rampe di scale, giungendo così nelle stalle, dove, dinanzi al portone, vide occhi e zanne brillare di quando in quando nell’aria increspata come un miraggio: Lui era là, coi cavalli che mangiavano tranquillamente. Quando Don Chisciotte la salutò con un dolce nitrito, Marjorie si addossò alla parete, scossa da un tremito, e si chiese se Lui fosse solo, o in compagnia di altre volpi: Perché sei qui? chiese.

Sapevo che saresti venuta nelle stalle, rispose Lui, trasmettendo limpide parole umane.

Ciò che l’uso di questo linguaggio implicava scosse Marjorie: Non avrei mai potuto abbandonare i miei amici.

Lo so. Lo sapevo anche prima, ma il mio popolo non credeva in te.

Ha cambiato idea?

Sì, a causa dei cavalli. Dopo questa risposta, Egli trasmise una serie di immagini: Marjorie in sella a Don Chisciotte, entrambi circondati dagli Hippae. Marjorie che rifiutava l’offerta di soccorso dell’aeromobile che li sovrastava. Amazzone e cavallo enormi, a mostrare l’importanza fondamentale della decisione. Marjorie che rifiutava di abbandonare i cavalli.

In quel momento, pensò Marjorie, ho creduto che fosse una sciocchezza.

Una sciocchezza. Importante. È importante sapere che una persona è disposta a rischiare la vita per una creatura diversa da lei. È importante sapere che gli umani provano lealtà. È importante sapere che l’amicizia può esistere anche fra razze diverse.

Gli Arbai erano vostri amici?

Una negazione. Arbai che istruivano gli Hippae e si sforzavano di ignorare le volpi che si aggiravano nei dintorni. Alle volpi sembrava che gli Arbai preferissero comunicare con distacco, anziché telepaticamente, come le volpi stesse. Schifiltoso riserbo degli Arbai. Pudore eccessivo, simile a quello di Marjorie, ma molto più esasperato. Incapacità di scorgere il male, ma rifiuto consapevole di comunicare intimamente.

Marjorie comprese a perfezione questo timore profondo degli Arbai: Confidenza eccessiva! Orribile!

Assenso. Eppure. Pietà e colpa per coloro che erano periti.

Gli Arbai furono sterminati anticamente, ma adesso stiamo morendo noi, annunciò Marjorie. Gli Hippae sono lassù: entreranno nel Comune e massacreranno tutti.

Sono già nel Comune, ma questa volta non uccidono molto.

Ci state proteggendo?

Adesso sappiamo che cosa sta succedendo.

Prima non lo sapevate? Non sapevate che cosa accadde agli Arbai? Sembrava impossibile, eppure, a ben vedere. Il massacro era avvenuto nel cuore della prateria, lontano dalla foresta.

Alcuni di noi odiavano gli umani perché ci cacciavano. Alcuni pensavano che non fosse affar nostro, che non dovessimo preoccuparci, perché non sareste diventati nostri amici, più di quanto lo fossero diventati gli Arbai. Io spiegai che Mainoa era un amico, però mi risposero che era unico, diverso da tutti gli altri: una eccezione. Io sostenni che altri sarebbero diventati amici. Poi sei arrivata tu. Gli altri hanno detto che anche tu eri una eccezione, ma io ho sostenuto che altri diventeranno amici. Ne abbiamo discusso a lungo, infine siamo giunti a un compromesso. Allegria. Quasi una risata. Ma anche tristezza, esitazione. Abbiamo concordato che, se sei davvero mia amica, posso dirlo a te.

A me?

Se mi darai la tua parola di essermi amica come lo è stato Mainoa, e di restare con me.

Poiché aveva già deciso di rimanere su Grass, dove almeno la gente avrebbe capito quello che era accaduto a Stella, Marjorie assentì senza esitare: Hai la mia parola.

Resterai con me?

Sì.

Anche se non sarà qui?

Non qui? E dove, se non qui? Invano Marjorie attese risposta, rammaricandosi di non vedere il Suo viso, la Sua espressione.

Ogni volpe vede le altre volpi.

Era naturale: ogni volpe vedeva le altre volpi, nell’intimo. Marjorie arrossì: lei stessa avrebbe potuto vedere le volpi allo stesso modo se si fosse spogliata di se stessa per unirsi a loro. Come gli amanti si denudavano per unirsi ai loro amanti, così le volpi si spogliavano da tutti i veli dell’illusione per percepire la realtà. Tuttavia Marjorie in quel momento non riusciva a vedere Lui. Non le restava che rifiutare le sue condizioni, oppure accettarle come se si trattasse di un rituale, o una cerimonia di matrimonio, promettendo di abbandonare tutti gli altri per una creatura enigmatica, senza alcuna certezza su cui basarsi, e giurando di rinunciare al nucleo della propria personalità per qualcosa d’altro. Consapevole del pericolo, Marjorie trasalì. Si trattava di prendere o lasciare, ma come poteva? Era proprio quello che voleva anche Rigo, e lei aveva tentato più e più volte, sempre invano, perché non era riuscita a conoscerlo, a fidarsi di lui. Doveva fidarsi di Primo? Non soltanto Lui era riuscito a comprenderla, ma aveva impegnato Se Stesso e la Sua gente per salvare lei e la sua gente. Cos’altro avrebbe potuto fare per meritare fiducia? Cos’altro avrebbe potuto chiedergli di fare? Sentendosi soffocare, Marjorie sospirò e si impegnò per sempre: Sì, lo prometto.

Allora Lui le mostrò perché e come gli Arbai erano morti, e perché l’umanità stava morendo.

Quando ebbe compreso, Marjorie si appoggiò a Lui, mentre idee, ricordi, riflessioni, intuizioni le turbinavano senza ordine nella mente. Poco a poco, e senza che Lui intervenisse, ogni dettaglio si combinò con gli altri a comporre finalmente un quadro preciso e coerente. La sua comprensione era soltanto parziale, eppure la risposta era là, vicina, come un tesoro che si rivelasse scintillando nella corrente di un fiume. C’è una cosa che devi prendere per me, pensò Marjorie. Poi dovrò percorrere questi sotterranei fino alla città.

In silenzio, senza farsi notare, Marjorie arrivò nella caverna e rimase immobile in un angolo, a concentrarsi per essere in grado di spiegare tutto nella maniera più ordinata.

Dopo un poco, Lees Bergrem, curva sulla scrivania, si accorse di essere osservata e alzò lo sguardo: — Marjorie?! Pensavo che foste all’Albergo dell’Astroporto, assediata dagli Hippae!

— Esiste almeno una galleria che passa sotto la Mug. Me ne sono servita per tornare qui. Debbo parlarvi.

— Non ho tempo per parlare di niente — rifiutò Lees, volgendosi per riprendere il proprio lavoro.

— Credo di sapere come trovare una cura per la peste.

Con occhi ardenti, Lees si rigirò a scrutare Marjorie: — Ah, così, semplicemente, lo sapete?

— Sì, così. Per la verità, sono a conoscenza di qualcosa d’importante. O meglio: due cose importanti.

— Dite pure.

— La prima cosa importante è questa: gli Hippae sterminarono gli Arbai scagliando pipistrelli morti nei loro apparecchi di teletrasporto. Poiché noi non disponiamo di nulla del genere, gli Hippae ci uccidono collocando pipistrelli morti nelle nostre cosmonavi.

— Pipistrelli morti! — Less si imbronciò, meditando. — Sylvan bon Damfels ha detto che si tratta di un comportamento simbolico.

— Oh, certo che è simbolico. Il problema è che abbiamo pensato che fosse soltanto simbolico. Invece avremmo dovuto rammentare che spesso i simboli sono, per così dire, distillati di realtà. Ad esempio, le bandiere erano un tempo stendardi di battaglia, mentre la croce era anticamente uno strumento di esecuzione capitale. Voglio dire, insomma, che i simboli si riferiscono a qualcosa che è, oppure era, reale.

— Fin qui siamo d’accordo — ammise Lees, scrutando torvamente Majorie. — Ma quale realtà simboleggiano i pipistrelli?

Marjorie si massaggiò tristemente la testa: — Parassiti che provocano dolorose ferite al collo, in origine. Gli Hippae si scagliano pipistrelli morti a vicenda: li ho veduti io stessa.

— Ma questo lo sappiamo! Sylvan bon Damfels ha spiegato che scagliarsi pipistrelli morti equivale ad una offesa. Significa: «Sei soltanto un parassita».

— Sì, questo era il significato, in origine, nonché all’epoca in cui gli Hippae scagliarono pipistrelli morti agli Arbai. Un tempo, sulla Terra, esistevano animali che gettavano feci alle creature di razze diverse. Ebbene, gli Hippae disprezzano gli stranieri. Credono che le altre creature siano strumenti da usare, come i migerer e i cacciatori, oppure da disprezzare e, se possibile, da uccidere. Gli Arbai rientravano in quest’ultima categoria, perciò gli Hippae scagliarono pipistrelli morti contro di loro, nelle loro case, nei loro apparecchi di telestraporto. Così, per puro caso, un pipistrello morto, che qua su Grass era usato soltanto in funzione simbolica, fu teletrasportato su un altro pianeta, dove assunse un altro significato: peste, morte.

— Il veicolo del contagio.

— Esatto. Accadde quasi sicuramente così: sul pianeta dove uno o più pipistrelli morti furono casualmente teletrasportati, gli Arbai perirono. In seguito, gli Arbai che abitavano Grass raccontarono stupidamente agli Hippae quel che era avvenuto. Da allora in poi il significato del comportamento simbolico mutò da «sei un parassita» a «sei morto». Una volta scoperto il modo di uccidere, gli Hippae continuarono a scagliare pipistrelli morti negli apparecchi di teletrasporto. Tale comportamento non era più meramente simbolico, bensì anche reale.

— Continuate.

— In questo modo, tutti gli Arbai dell’universo furono contagiati. Forse bastò poco tempo: un giorno soltanto, o una settimana. Ogni volta che potevano farlo senza essere osservati, gli Hippae diffondevano il contagio. Gli Arbai erano così categorici nella loro filosofia, che non pensarono neanche, mai, a sorvegliare gli apparecchi di teletrasporto. Supponiamo che, come una rete computerizzata, gli apparecchi di teletrasporto degli Arbai fossero collegati gli uni agli altri e, come certi computer, fossero attivabili a voce. Ogni unità di ingresso e uscita poteva condurre a qualsiasi altra su altri pianeti, come Pentimento o Shafne, dove sono state trovate rovine arbai, oppure tanti altri mondi che ci sono ancora ignoti. Ciò spiegherebbe in qual modo gli Hippae riuscirono a diffondere ovunque il contagio, sterminando gli Arbai. Comunque sia, gli Hippae celebrarono l’evento con le loro danze, tramandandolo come una grande vittoria: «Gioia nell’uccidere gli stranieri». Quando gli umani arrivarono su Grass, gli Hippae non poterono agire nello stesso modo, anche se lo avrebbero voluto, perché la nostra civiltà non usa apparecchi di teletrasporto, bensì astronavi. Così furono costretti ad adeguarsi: dato che i pipistrelli morti avevano funzionato con gli Arbai, decisero di gettarli nelle cosmonavi, che però erano protette dalla foresta, entro la quale le volpi avevano indotto gli umani a costruire l’astroporto, convinte che esso sarebbe stato al sicuro. Le volpi provavano simpatia per gli Arbai, ma, essendo telepatiche, trascurarono le normali relazioni, che pure avrebbero gradito, per tentare di comunicare in un modo molto più diretto e più intimo, che gli Arbai rifiutarono. Per questo motivo non tentarono neppure di entrare in rapporto con noi umani: ci considerarono creature simpatiche, intelligenti, interessanti, però incapaci di amicizia. Credettero che fossimo abbastanza al sicuro, ma sottovalutarono gli Hippae, forse credendo che, dopo tanti secoli, non ricordassero più. Invece, gli Hippae rammentavano a perfezione: mediante le loro danze e gli ideogrammi impressi nel terreno, avevano tramandato l’esperienza del genocidio degli Arbai. Così, già all’epoca della colonizzazione di Grass, incaricarono i migerer di scavare una piccola galleria, appena sufficiente a consentire il passaggio di una persona alla volta. Si trattava di «messaggeri», per così dire: individui completamente privati della personalità, tranne uno specifico impulso, e condizionati a compiere una determinata attività.

— Tutto ciò è incredibile!

— Niente affatto. Anzi, è del tutto credibile, giacché si tratta soltanto di una lieve variazione del comportamento naturale e del carattere degli Hippae. Le rane non hanno poteri mentali, i veltri ne sono quasi privi, ma gli Hippae sono dotati di poteri sufficienti ad influenzare e a dominare le menti delle altre creature. Pensate soltanto a quello che fanno ai migerer e ai cacciatori! Quando si trasformano in volpi, i loro poteri si centuplicano. Forse non sono realmente intelligenti, benché siano malvagi, astuti e capaci di apprendimento. Per caso hanno imparato a uccidere, e poi hanno continuato, limitandosi meramente a ripetere uno schema di comportamento acquisito.

Dopo aver riflettuto per un poco in assoluto silenzio, la dottoressa Bergrem osservò: — Se non sbaglio, mi avete detto di conoscere due cose importanti.

— Ho riconosciuto il secondo elemento importante tentando di leggere i vostri libri. Non avendo competenze scientifiche, ricordo soltanto che una delle vostre opere concerneva un aminoacido di una proteina: una sostanza necessaria alla vita, che qui su Grass, e soltanto qui, esiste in due forme. Ebbene, mi sono chiesta: perché qui esiste in due forme? Inoltre mi sono domandata: — Quali sarebbero le conseguenze se qui, su Grass, qualcosa trasformasse un aminoacido nella sua immagine speculare? Così, una sostanza di cui tutte le nostre cellule hanno necessità e si servono, diverrebbe una sostanza diversa, che non potremmo utilizzare.

Seguì un lungo silenzio.

Infine, Lees Bergrem disse: — Mi occorre un pipistrello morto.

— Ne ho portato uno — rispose Marjorie, infilando una mano in tasca. Depose sulla scrivania della dottoressa la creatura friabile che Primo era andato a prendere, quindi sedette, si posò la testa sulle ginocchia tremanti, e cercò di non pensare a nulla.

Per due giorni Lees e Marjorie rimasero in laboratorio, mentre in città si combatteva strada per strada e casa per casa. Molte persone morirono, tuttavia non tante quante si era temuto in un primo momento, e ciò grazie all’intervento di alleati invisibili: numerosi Hippae furono trovati morti senza che nessuno rammentasse di averli uccisi. Giacché il Prelato dormiva e non poteva revocare gli ordini del serafino, la navetta trasportò le truppe dalla cosmonave al pianeta, una pattuglia per volta. Così il Comune fu lentamente liberato e gli artificieri fecero saltare le gallerie, impedendo agli Hippae di passare sotto la foresta palustre. Sfruttando il loro mimetismo, i mostri che erano rimasti in città perpetrarono agguati nei vicoli e si introdussero nelle case e nelle botteghe, spargendo sangue, dolore e morte. Tuttavia furono sconfitti poco a poco.

Soccorso da una creatura indescrivibile, Roald Few scampò alla morte per un pelo, ma uno dei suoi figli perì, e molti suoi amici furono uccisi o rimasero dispersi. Nell’obitorio allestito nei sotterranei, Sylvan bon Damfels fu deposto per primo e, seguito da decine e decine di altre salme, si unì nella morte agli abitanti del Comune, come non era riuscito a fare in vita.

Uno ad uno, gli ultimi Hippae furono scovati e uccisi. Le truppe si schierarono lungo il perimetro della foresta e aprirono il fuoco automatico con le loro armi sensibili al calore, abbattendo i numerosi mostri che si nascondevano ai margini della palude, i quali furono assaliti anche da altre creature. Così, nessun mostro invase più il Comune.

Sul finire della battaglia, Favel Cobham scese la scala di emergenza di un pozzo discensionale, riaccese l’impianto energetico dell’Albergo dell’Astroporto, e andò ad unirsi ai suoi commilitoni. Non aveva avuto ordine di cessare la sorveglianza agli Yrarier, ma non aveva neppure avuto ordine di continuarla.

Più tardi, allorché vide gli ultimi soldati tornare all’astroporto, Rigo lasciò l’albergo e si diresse al cancello della Capitaneria, mentre i militari bruciavano i defunti e si preparavano alla partenza: — Ve ne andate già? — chiese a un cherubino dalla chioma brizzolata e dal viso cinico, rugoso.

— Il Signore e Padrone si è svegliato, scoprendo cosa è successo ai suoi cervelloni e ai cittadini — rispose il cherubino. — Suppongo che non voglia restare perché ha paura di fare una brutta fine.

Al Comune, Rigo chiese a tutti coloro che incontrò se avevano visto Marjorie e si sentì rispondere di recarsi dove tutti cercavano i congiunti dispersi, vale a dire all’obitorio. Così fece, trovando Marjorie accanto alla salma di Sylvan.

— Rowena mi ha chiesto di occuparmi del funerale — spiegò Marjorie. — Vuole che Sylvan sia sepolto nella prateria, dove sorgeva Klive.

— Non saresti forse venuta comunque? — ribatté Rigo. — Non eri forse innamorata di lui? — Questo non era quello che aveva progettato di dirle, perché aveva concordato con padre Sandoval sull’inadeguatezza delle recriminazioni. Tuttavia si era aspettato di dover piangere sulla salma della moglie, perciò, frustrato nel dolore e nei buoni proponimenti, si era lasciato prendere dall’ira.

Anziché rispondere, Mrjorie dichiarò: — Anche Sebastian è morto, e Kinny ha perduto un figlio. Persun Pollut si è salvato a stento, ma è ferito così gravemente al braccio, che forse non potrà più fare l’intagliatore.

La vergogna mise a tacere Rigo, accentuando la sua collera.

Marjorie si avviò all’uscita dell’obitorio, seguita dal marito: — Ho aiutato Lees Bergrem — raccontò, guardando attorno per accertarsi che nessuno udisse. — Era già a buon punto con le ricerche e crede che abbiamo trovato una cura, ma non può sperimentarla qua su Grass, perciò ha contattato Semling, dove potranno produrla e sperimentarla su alcuni malati.

— Produrla? — chiese Rigo, incredulo. — Si tratta forse di una specie di vaccino?

Annuendo, Marjorie abbracciò goffamente il marito, con un sol braccio, il viso rigato di lacrime: — Non è affatto un vaccino. Oh, Rigo! Credo davvero che abbiamo trovato la risposta! — E si allontanò, prima che lui potesse riabbracciarla. Rifiutò di dare spiegazioni finché Lees ebbe spedito su Semling tutto il materiale di cui disponeva: — Aspettate — raccomandò a Rigo, Roald e Kinny. — Non dite nulla a nessuno fino a quando avremo ottenuto risposta. Non dobbiamo illudere la gente senza avere la certezza che la cura funzioni.

Insieme, Marjorie e Lees passeggiarono avanti e indietro nel laboratorio echeggiante, durante tutto il terzo giorno successivo alla loro scoperta, in attesa di sapere come avrebbero reagito alla cura i malati di Semling. A mezzodì del quarto giorno ebbero risposta: entro poche ore dalla somministrazione, tutti i malati avevano cominciato a guarire.

Piangendo, con le lacrime che le scorrevano sulle guance fino agli angoli della bocca sorridente di gioia, Marjorie annunciò: — Adesso possiamo dirlo a tutti! — Andò subito al dimmi per informare frate Mainoa, e soltanto allora seppe che il vecchio monaco era deceduto in grembo a una volpe, alcuni giorni prima. Nello stesso momento comprese anche, parzialmente, quello che Primo aveva tentato di comunicarle.