125675.fb2
Si diceva fra i bon Damfels che ogni qualvolta la Caccia si svolgeva nella loro estancia, il tempo era perfetto. La famiglia se ne assumeva il merito, anche se ciò si sarebbe potuto attribuire ugualmente al Ciclo della Caccia, secondo cui la Caccia stessa avveniva sulle terre dei bon Damfels all’inizio dell’autunno, ossia in un periodo in cui il tempo era di solito perfetto. Lo stesso valeva naturalmente per l’inizio della primavera, quando, seguendo il Ciclo, si ripeteva la Caccia.
Una volta, un dignitario di Semling, il quale s’illudeva di essere un’autorità in un’ampia varietà di materie irrilevanti, aveva detto a Stavenger, l’obermun bon Damfels, che, da un punto di vista storico, la caccia al seguito era uno sport invernale.
Come era tipico, non di lui soltanto, bensì dell’aristocrazia grassiana in generale, Stavenger aveva replicato: — Qua, su Grass, pratichiamo la Caccia come si deve: in primavera e in autunno.
Il visitatore aveva capito che non sarebbe convenuto insistere, tuttavia aveva preso molti appunti in base ai quali, dopo il ritorno a Semling, aveva potuto comparare in una erudita monografia la versione classica di quello sport sanguinario, descritta nei documenti storici, con quella che si praticava su Grass. Delle dodici copie che ne erano state stampate, sopravviveva soltanto quella che era rimasta sepolta negli archivi del Dipartimento di Antropologia Comparata dell’Università di Semling.
Tutto questo era successo molti anni prima: l’autore era quasi dimenticato, e Stavenger bon Damfels non aveva più pensato a quella conversazione, perché, per quanto lo riguardava, quello che gli stranieri facevano o dicevano era sia incomprensibile sia disprezzabile, e tanto per cominciare nessuno avrebbe mai dovuto permettere a quel tipo di assistere alla Caccia. A tale proposito, i bon Damfels non avevano alcun’altra opinione.
In onore di un riverito antenato del ramo materno della famiglia, l’estancia dei bon Damfels era chiamata Klive. Secondo una tradizione famigliare, il grande Snipopean aveva scritto che i giardini della tenuta erano una delle settanta meraviglie dell’universo. Una copia del suo libro era custodita nella immensa biblioteca della estancia, dove si respiravano gli odori del cuoio, della carta e dei prodotti chimici usati dai bibliotecari per la conservazione dei volumi. Tuttavia, nessun membro vivente della famiglia aveva mai letto l’opera di Snipopean, né sarebbe stato in grado di rintracciarla fra tutti gli altri volumi, molti dei quali non erano stati aperti neppure una volta dopo essere stati archiviati. Perché mai i bon Damfels avrebbero dovuto leggere uno studio sui giardini d’erba di Klive, quando vi trascorrevano ogni giorno della loro esistenza?
Il raduno per la Caccia avveniva sempre in quella zona dei giardini d’erba conosciuta come la «prima superficie». Nella sua qualità di ospite, Stavenger bon Damfels era maestro di caccia, e per la prima battuta della stagione, come sempre avveniva sia in primavera che in autunno, aveva scelto tre membri della sua numerosa famiglia come capocaccia, primo bracchiere e secondo bracchiere. Al capocaccia aveva affidato il corno dei bon Damfels: uno strumento ricurvo e artisticamente lavorato, che emetteva soltanto suoni attutiti, benché argentini. Ai bracchieri, invece, aveva consegnato le piccole fruste, tanto delicate che occorreva badare a non spezzarle. In realtà, esse non avevano alcuna utilità: erano puramente ornamentali, come preziosi medaglioni. Nessuno avrebbe osato servirsi della frusta per sferzare un veltro o una cavalcatura. Quanto al corno, nessuno avrebbe mai pensato a suonarlo se non per annunciare il raduno rituale e il termine della Caccia. E nessuno si chiedeva quale fosse stata l’usanza in passato, né quale fosse attualmente, nell’altrove. In verità, ciò non interessava affatto a nessun bon, perché per tutti gli aristocratici l’altrove aveva cessato di esistere quando i loro antenati ne erano partiti.
In quel primo giorno di caccia autunnale, Diamante bon Damfels, figlia minore di Stavenger, si unì a coloro che lentamente si radunavano alla prima superficie, tutti mormoranti e assonnati, come se fossero rimasti a giacere svegli per tutta la notte, in ascolto, ad attendere un richiamo che non si era udito. Tra i cacciatori immobili, portando bicchieri piccoli come ditali su vassoi scintillanti, scivolavano le serve provenienti dal villaggio vicino, le quali parevano prive di gambe, nelle lunghe gonne bianche a campana, e avevano le teste nascoste dalle pieghe delle sgargianti cuffie ricamate.
Fra Emeraude e Amethyste, chiamate dai famigliari Emmy ed Amy, ma da tutti gli altri «le padrone bon Damfels», Dimity era impeccabile nel completo da caccia, con la testa che già le doleva tanto la chioma era tirata indietro affinché neppure una ciocca sfuggisse dal cappellino nero. Le sue sorelle maggiori avevano i risvolti della giacca rossi, perché avevano accumulato sufficiente esperienza da entrare a far parte della comitiva di caccia. Invece, Dimity aveva i risvolti neri come le ombre che le incupivano gli occhi. Pur scorgendo tali ombre, Emmy ed Amy fingevano di non accorgersene, perché nessuno poteva permettersi di fingersi malato o di indulgere alla codardia, né poteva consentirlo ad altri membri della famiglia.
— Non preoccuparti — disse Emeraude con voce strascicata, offrendo il miglior consiglio di cui fosse capace. — Presto ti guadagnerai i colori di caccia. Ricorda soltanto quello che ti ha insegnato il maestro di equitazione. — Intanto, un muscolo le guizzò più volte sulla guancia, come una rana incatenata che cercasse di saltare.
— Ma, Emmy… — Dimity rabbrividì, mentre le ombre si torcevano nei suoi occhi. Non voleva dirlo, eppure fu incapace di tacere: — Mamma ha detto che non sono obbligata…
Priva di emozioni come un bicchiere, Amethyste rise, e fu come un breve fremito, privo di allegria: — È ovvio che non sei obbligata, sciocchina! Nessuna di noi è obbligata! Persino Sylvan e Shevlok non erano obbligati!
Nell’udire il proprio nome, Sylvan bon Damfels si volse a guardare le sorelle. Accorgendosi che Dimity era con Amy ed Emmy, si aggrondò. Con una parola di scusa ai compagni, attraversò rapidamente il prato circolare grigio pallido, costeggiando le fontane d’erbe scarlatte e ambrate che ne costituivano il centro: — Cosa fai qui? — chiese a Dimity, con occhi sfavillanti di collera.
— Il maestro di equitazione ha detto alla mamma…
— Non sei ancora pronta! Non lo sei affatto! — Sylvan era fatto così: diceva quello che pensava, pur sapendo di andar contro all’opinione comune; anzi, secondo alcuni lo faceva proprio per questo. Inoltre si divertiva ad attirare l’attenzione in tal modo, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Per lui, la verità era la verità, e tutto il resto era la più tenebrosa eresia. In certi casi, però, era cosi umano da aver qualche dubbio nel decidere quale fosse la verità.
— Suvvia, Sylvan! — intervenne Amethyste, facendo deliziosamente il broncio, con le labbra che, secondo un complimento che aveva ricevuto, sembravano frutta mature. — Non essere così severo. Se fossi tu a decidere, nessuno parteciperebbe alla Caccia, tranne te.
— Se fosse per me, Amy — ringhiò Sylvan — nessuno caccerebbe, incluso me. Cosa ne pensa nostra madre?
— È stata una decisione di papà — spiegò Dimity. — Ha pensato che sarebbe bello se guadagnassi presto i miei colori. Sono già più grande di quanto fossero Amy ed Emmy quando guadagnarono i loro. — Ciò detto, gettò un’occhiata a Stavenger, il quale, immobile fra gli esperti capocaccia, la osservava, aggrondato, magro ed ossuto, col grande naso aquilino che incombeva sulla bocca priva di labbra.
Sylvan posò una mano sulla spalla della sorella minore: — Per l’amor del cielo, Dim. Perché non gli hai detto, semplicemente, che non sei ancora pronta?
— Non ho potuto, Syl. Papà ha chiesto il parere del maestro di equitazione, secondo cui non potrei essere più pronta.
— Ma senz’altro voleva dire.
— So benissimo cosa voleva dire, per l’amor del cielo! Non sono stupida! Voleva dire che non sono molto brava e che non migliorerò mai.
— Non te la cavi poi tanto male — dichiarò Emeraude, per tranquillizzarla. — Per esempio, io ero molto peggio.
— Eri molto peggio da bambina — convenne Sylvan. — Però all’età di Dim eri molto meglio, come pure tutti noi altri. Ma ciò non significa che Dim sia obbligata.
— Insomma, volete smetterla tutti quanti di dirmi che non sono obbligata? — strillò Dimity, con le lacrime che le scorrevano sulle guance. — Mezza famiglia mi dice che non sono obbligata, e l’altra mezza che ormai sono pronta!
Quantunque fosse sul punto di gridare, Sylvan tacque e divenne improvvisamente dolce. Amava la sorellina. Era stato lui il primo a chiamarla Dimity; era stato lui ad assisterla quando si era ammalata; ed era stato lui, fanciullo tredicenne, a farla giocare, da bambina, prendendola in spalla e portandola a spasso per i corridoi di Klive. L’aveva sempre coccolata e si era sempre preoccupato per lei. Ormai aveva ventotto anni, ma non aveva cessato di preoccuparsi per lei: la considerava ancora una bambina, benché avesse quindici anni. — Cosa preferisci fare? — chiese teneramente, allungando una mano a sfiorare la piccola fronte umida sotto la falda del cappellino nero. Con la chioma tirata indietro, raccolta dietro la nuca, ella sembrava un ragazzino spaventato. — Cosa desideri, Dim?
— Ho fame, ho sete e sono stanca. Voglio tornare a casa, far colazione e dedicarmi allo studio della mia lezione settimanale di letteratura — pianse Dimity, a denti stretti. — Voglio partecipare a un ballo estivo e flirtare con Jason bon Haunser. Voglio fare un bel bagno caldo e poi sedere nel giardino dell’erba cucchiaio a guardare i picchi.
— Bene, allora. — cominciò Sylvan, subito interrotto dal suono del corno del capocaccia, proveniente dal Cancello della Muta: un fioco ta-wa, ta-wa, per avvertire i cavalieri senza turbare i veltri. — I veltri. — sussurrò, volgendosi. — Oh, Dio! è troppo tardi, Dim. — E si allontanò con passo incerto, improvvisamente silenzioso.
L’intera comitiva cessò di conversare e rimase avvolta nel silenzio. I volti divennero vacui, inespressivi, e gli occhi fissi. Girandosi tutt’intorno ad osservare i cacciatori pronti a montare in sella, Dimity rabbrividì. Lo sguardo di suo padre la spazzò come un vento gelido, senza neppure vederla. Persino Emmy ed Amy erano diventate remote, intoccabili. Sembrava che soltanto Sylvan, il quale era tornato fra i suoi compagni e la fissava, la vedesse e si preoccupasse per lei, come aveva già fatto tante altre volte.
Intanto, i cacciatori si schierarono secondo un ordine preciso: i più esperti, sulla semicirconferenza occidentale della prima superficie, e i meno esperti su quella orientale. Al suono del corno, le serve si erano dileguate come fiori bianchi soffiati dal vento sull’erba grigia. Dimity rimase quasi isolata al margine orientale del prato, guardando il sentiero che conduceva al massiccio cancello della estancia: Guarda il Cancello della Muta, ordinò mentalmente a se stessa, senza necessità. Guarda il Cancello della Muta.
Tutti guardarono, mentre il Cancello della Muta si apriva lentamente e i veltri uscivano a coppie, con le orecchie pendule, le lingue ciondolanti fra le robuste zanne d’avorio, e le code dritte, percorrendo il Viottolo dei Veltri, un ampio sentiero di bassa erba vellutata che cingeva la prima superficie, poi, varcato il Cancello di Caccia, proseguiva ad occidente, attraverso i vasti giardini esterni. Appena si avvicinava al margine della prima superficie, ogni coppia di veltri si divideva: un veltro deviava a sinistra, e l’altro a destra. Così, formando due file, i veltri girarono intorno ai cacciatori, osservandoli con occhi rossi e ardenti come braci. Quindi riformarono le coppie e proseguirono verso il Cancello di Caccia.
Sentendosi come percossa dalle vampe degli occhi dei veltri, Dimity si guardò le mani, così strette l’una all’altra da sbiancare le nocche, e cercò di non pensare a nulla.
Mentre l’ultima coppia di veltri si riformava e i cacciatori si incamminavano a seguire la muta, Sylvan lasciò il proprio posto e corse a sussurrare all’orecchio della sorella: — Puoi restare qui, Dim. Nessuno guarderà indietro: soltanto più tardi si accorgeranno della tua assenza. Resta qui.
Dimity scosse la testa. Era pallidissima, cogli occhi grandi e scuri, colmi di una paura che ammetteva con se stessa per la prima volta; tuttavia era incapace di rimanere.
Scrollando a sua volta la testa, Sylvan corse a riprendere il proprio posto.
Lentamente, con riluttanza, Dimity lo seguì, mentre i cacciatori varcavano il Cancello di Caccia, seguendo la muta. Da oltre le mura proveniva lo zoccolio sull’erba delle cavalcature in attesa.
Dal balcone della camera da letto, Rowena, la obermum bon Damfels, osservò con preoccupazione la figlia minore: il suo collo, cinto dal nastro bianco, sembrava esile, indifeso. È come un bocciolo, pensò, rammentando le figure dei libri di favole che aveva letto da bambina. Poi recitò sottovoce, fra sé e sé: — Bucaneve, tulipani, campanule, peonie. — Un tempo aveva posseduto un libro sulle fate affascinanti e terribili che abitavano i fiori. Chissà dov’è finito, adesso, si chiese. Probabilmente è scomparso, è una di quelle cose «straniere» contro cui Stavenger inveisce perennemente. Come se poche storie di fate potesse nuocere in qualche modo!
— Dimity sembra così minuta — osservò Salla, la cameriera. — Troppo minuta, troppo giovane per seguire i cacciatori. — Aveva accudito tutti i figli della famiglia, da bambini, e Dimity, essendo la minore, era rimasta bimba più a lungo degli altri.
— Ha la stessa età che aveva Amethyste quando partecipò alla caccia per la prima volta. Emmy era ancora più giovane. — Quantunque si sforzasse, Rowena non riuscì a cancellare una sfumatura difensiva dal proprio tono. — Tutto sommato non è poi tanto giovane.
— Ma i suoi occhi, padrona! — mormorò Salla. — Sembra una bimba. Non capisce nulla della Caccia: proprio nulla.
— Invece capisce, eccome — fu costretta ad asserire Rowena. Doveva crederlo. Tutto l’addestramento aveva proprio questo scopo: garantire che i giovani cavalieri comprendessero. Era tutto facile, purché si fosse ricevuto un adeguato addestramento. — Ma sì, che capisce — ripeté Rowena, ostinata, ponendosi dinanzi allo specchio per rassettarsi la folta chioma nera. Però scorse una fiamma accusatrice nei propri occhi grigi e serrò le labbra in una torva smorfia.
— No, che non capisce — insistette Salla, altrettanto ostinata, allontanandosi di scatto per evitare lo schiaffo che altrimenti Rowena avrebbe potuto tirarle senza neppure spostarsi. — È come voi, padrona: non è adatta alla caccia.
Rowena si stancò di guardare se stessa: — Suo padre dice che deve parteciparvi!
Poiché sarebbe stato del tutto inutile, Salla non la contraddisse a tale proposito: — Però non è adatta alla Caccia: non più di quanto lo siate voi. E il padrone non vi obbliga.
Certo, pensò Rowena, rammentando tutto quello che aveva sofferto in passato. Però mi obbligava. Mi ha costretta a fare tante cose che non desideravo. Mi ha concesso di non partecipare più alla Caccia, ma soltanto quando, per sua volontà, ero incinta per la settima volta, benché avessi desiderato soltanto un figlio o due. Mi ha obbligata a partecipare alla Caccia fino a quando sono diventata vecchia, con le rughe attorno agli occhi. Mi ha costretta, contro la mia volontà, ad addestrare i miei figli alla Caccia, e li ha obbligati tutti ad appassionarsi ad essa, come lui. Tutti, tranne Sylvan, che rimane sempre se stesso, qualunque cosa faccia Stavenger. È astuto, Syl: non finge, anzi, protesta e brontola continuamente, ma così riesce a celare quello in cui crede veramente. Anche Dimity, naturalmente, resta sempre se stessa, però. Povera Dim! è proprio incapace di celare qualsiasi cosa! Chissà se è stata capace di nascondere i suoi sentimenti stamane?
Ritornata al balcone, Rowena allungò il collo per guardare oltre le mura e scorse le cavalcature, che, in attesa, scuotevano le teste, sferzavano le code, sbuffavano d’impazienza. Il silenzio era eccessivo. Come sempre, la quiete era troppa quando i cacciatori montavano. Ella aveva sempre pensato che in quei momenti si dovesse conversare, ci si dovesse salutare. Insomma, che ci dovesse essere qualcosa, oltre a quel profondo silenzio.
Oltre il Cancello di Caccia, i veltri si aggiravano tutt’intorno e le cavalcature attendevano, scalpitando con impazienza, sferzando le code, inarcando i colli, in un silenzio di sogno dove nessun movimento produceva rumore. Nell’aria, riscaldata dal loro fiato vaporoso, si diffondeva il loro odore dolciastro, come di fieno. Per prima avanzò la cavalcatura di Stavenger, come si conveniva; poi, una ad una, si avvicinarono le altre: quella del capocaccia, quelle dei bracchieri, e quelle della comitiva, per prime quelle dei cacciatori più anziani ed esperti. Mentre Emeraude e Amethyste montavano, l’una dopo l’altra, Dimity rabbrividì lievemente, e in breve rimase l’unica persona appiedata; ma, proprio quando era quasi convinta di poter rientrare attraverso il cancello perché nessuna cavalcatura le era stata riservata, se ne trovò dinanzi una, a portata di mano.
Fissando la ragazza, la cavalcatura allungò una zampa maculata e si piegò un poco per consentirle di posarvi un piede. Poi, Dimity si afferrò alle redini e montò, come aveva fatto innumerevoli volte al simulatore. Non fu affatto diverso, tranne l’odore della cavalcatura, e i suoi fianchi che, nel respiro, le si dilatavano e contraevano fra le gambe più di quanto avesse mai fatto la macchina. Coi piedi, ella cercò disperatamente i butteri situati fra la terza e la quarta costola, sinché li trovò, molto più avanti di quanto pensava che fossero, e finalmente vi infilò le punte degli stivali. Non dovette fare altro che stringere le redini, puntare i piedi e serrare le gambe, mentre la grande creatura volteggiava sulle zampe posteriori e seguiva le altre cavalcature verso occidente. Aveva passato tante ore al simulatore, che i calzoni imbottiti erano ormai adeguatamente consunti e ammorbiditi. Non beveva dalla sera prima e non mangiava dal mezzogiorno precedente. Per un attimo desiderò che Sylvan cavalcasse al suo fianco, prima di accorgersi che egli la precedeva ormai di molto. Emeraude e Amethyste erano già perdute nel gruppo. Stavenger si distingueva per la sua giacca rossa, la schiena dritta come uno stelo. Era impossibile tornare indietro, ormai. Era quasi un sollievo sapere di non poter fare più nulla, se non cavalcare, almeno sino alla fine della Caccia. E finalmente si udivano rumori: uno zoccolio che sembrava colmare tutto lo spazio esistente, come un tuono risonante che salisse dal suolo.
Dal balcone, Rowena udì lo zoccolio e si premette le mani sulle orecchie finché esso non si fu spento nel silenzio. Poco a poco ripresero i deboli rumori, prodotti dagli insetti, dagli uccelli e dalle rane fra le erbe, che erano cessati all’arrivo dei veltri.
— È troppo giovane — commentò Salla, aggrondata. — Oh, padrona.
Anziché schiaffeggiare la cameriera, Rowena si volse a guardarla con occhi colmi di lacrime: — Lo so — ammise, girandosi ad osservare la fila dei cavalieri che si allontanava sul sentiero verso occidente. Partono, pensò. E torneranno. Come una litania, ripeté mentalmente: Torneranno. Torneranno. Torneranno.
— Tornerà — disse Salla. — Tornerà, con una gran voglia di fare un bel bagno caldo.
Poi, entrambe rimasero a fissare l’occidente, senza vedere null’altro che erba.
In fondo all’ampio corridoio, dalla parte opposta rispetto all’appartamento di Rowena, nella biblioteca scarsamente frequentata di Klive, alcuni aristocratici che avevano dovuto rinunciare alla Caccia si erano radunati per discutere un problema che li preoccupava da tempo. La persona più autorevole di Klive, dopo Stavenger, era il fratello di questi, Figor. Alcuni anni prima, in seguito ad uno degli incidenti di caccia che capitavano di frequente, Figor aveva smesso di cavalcare al seguito dei veltri; perciò, durante le stagioni di caccia, poteva assumersi le responsabilità dell’estancia, lasciando libero Stavenger di dedicarsi all’unica occupazione che giudicava importante.
Quel giorno, Figor ricevette Eric bon Haunser, Gerold bon Laupmon, e Gustave bon Smaerlok. Sebbene invalido, Gustave era ancora l’obermun bon Smaerlok, ossia il capo della famiglia Smaerlok; mentre Eric e Gerold erano soltanto fratelli dei loro capifamiglia, i quali stavano partecipando alla Caccia. I quattro erano radunati intorno a una grande tavola quadrata, in un angolo della sala fiocamente illuminata, ad esaminare un breve documento, il quale iniziava con una vistosa intestazione che includeva i nomi e gli attributi della Santità, e terminava con vari nastri, sigilli, e la firma del Prelato in persona.
Sia nel passato remoto che in quello più recente, gli aristocratici avevano risposto parecchie volte a documenti simili, perciò Gustave non celava la notevole impazienza che provava nel dover affrontare ancora quella fastidiosa incombenza: — Questa faccenda della missione della Santità sta diventando importuna — dichiarò, dalla sedia a rotelle che occupava ormai da vent’anni. — Dimoth bon Maukerden la pensa allo stesso modo: lo ha detto, quando gliel’ho chiesto, e si è persino infuriato. L’ho domandato pure a Yalph bon Bindersen, s anche lui la pensa così. Non ho ancora avuto occasione di recarmi da bon Tanlig, però Dimoth, Yalph e io concordiamo che qualunque cosa voglia la Santità, non ha nulla a che fare con noi: non intendiamo tollerare, qua, la presenza dei loro dannati fragras! Ci siamo trasferiti su Grass proprio per sfuggire alla Santità, perciò che la Santità se ne stia alla larga da noi! è già sufficiente aver concesso ai Frati Verdi di scavare alla città degli Arbai, su al nord. L’altrove deve rimanere altrove, e Grass deve rimanere Grass. Su questo siamo tutti d’accordo, dunque diciamolo anche a loro, una volta per tutte. È stagione di Caccia, per l’amor del cielo! Non abbiamo tempo per tutte queste assurdità! — Quantunque non cavalcasse più, Gustave non aveva perduto la sua ardente passione per la Caccia, perciò, ogni qualvolta il tempo glielo consentiva, vi assisteva da un silenzioso aerostato ad elica.
— Calma, Gustave — mormorò Figor, massaggiandosi il braccio sinistro con la mano destra, alla giuntura della protesi, e sentendo pulsare fra le dita il dolore che accompagnava senza posa la sua esistenza da due anni, rendendolo irritabile. Consapevole che tale irritazione derivava dal corpo anziché dallo spirito, badava sempre a non esprimerla. — Non è necessario che la nostra contrarietà si manifesti come una rivolta. È del tutto inutile accarezzare contropelo la Santità.
— Rivolta! — ruggì l’obermun. — E da quando i fragras della Santità governano su Grass? — Quantunque la parola fragras significasse semplicemente «straniero», egli se ne serviva nel modo in cui era di solito usata su Grass, ossia come il peggiore degli insulti.
— Calma, calma — ripeté Figor, il quale, sapendo che anche Gustave era facilmente irritabile perché soffriva molto, era sempre indulgente nei suoi confronti. — Sai bene che non intendevo «rivolta» in quel senso. Anche se non abbiamo nessuna affinità religiosa con la Santità, fingiamo pur sempre di averne rispetto. La Santità ha sede sulla Terra, e noi riconosciamo la Terra come centro dell’attività diplomatica, custode del nostro retaggio culturale, eterna culla dell’umanità, e così via. — Sospirò, massaggiandosi ancora, mentre Gustave sbuffava d’impazienza, pur senza interromperlo. Quindi proseguì: — Molti hanno profonda considerazione per la nostra storia, Gustave. Persino noi stessi non la ignoriamo del tutto. Durante le conferenze usiamo l’antico linguaggio, inoltre istruiamo i nostri figli nell’idioma terrestre. Non è forse vero che, pur se non tutti parliamo il medesimo linguaggio nelle nostre estancia, riteniamo che parlare il Terrestre sia un segno di cultura? Inoltre, continuiamo a seguire il calendario della Santità, e a coltivare, per il nostro sostentamento, piante terrestri importate dai nostri antenati. Perché dovremmo, senza che ciò sia necessario, entrare in conflitto con la Santità, e con tutti coloro che in tal caso si leverebbero in sua difesa?
— Vuoi forse che quei dannati restino qui, a frugare e intromettersi dappertutto? Vuoi forse che i loro piccoli e disgustosi ricercatori sconvolgano le nostre attività?
Seguì un breve silenzio, mentre tutti meditavano su una eventualità che avrebbe potuto avere conseguenze perturbatrici. In quella stagione poteva restare sconvolta soltanto la Caccia, ossia l’unica attività importante che vi si svolgeva. Durante l’inverno, naturalmente, nessuno andava da nessuna parte, mentre in estate era troppo caldo per viaggiare, tranne la notte, quando si tenevano i balli estivi. Eppure, la parola «ricerca» suonava in modo molto sgradevole, perché faceva subito pensare a gente che poneva domande ed esigeva risposte.
— Non è necessario permettere ai ricercatori di turbare alcunché — riprese finalmente Figor, dubbioso. — Ci hanno pur spiegato la ragione delle loro indagini: dato che si è diffusa non so quale epidemia, una sorta di peste, la Santità ha inviato missioni un po’ dappertutto, in cerca di una cura. — Aggrondato, si massaggiò di nuovo il braccio.
— Ma perché proprio qui? — sbottò Gerold bon Laupmon.
— Perché non anche qui, come in qualsiasi altro luogo? La Santità sa poco e niente a proposito di Grass.
Anche su questa affermazione meditarono tutti e quattro per breve tempo. In effetti, la Santità non sapeva nulla di Grass, tranne quello che era in grado di apprendere dai Frati Verdi. Gli stranieri avevano libero accesso alla Città Plebea, dove però potevano restare soltanto fra l’arrivo di una cosmonave e la partenza di un’altra; non avevano il permesso di accedere alle praterie. Semling aveva tentato di mantenere una ambasciata su Grass, ma senza successo; dunque non esisteva più alcuna relazione diplomatica con l’«altrove». Sebbene questa parola fosse spesso usata per indicare la Santità o la Terra, aveva anche un significato più generale: Grass era Grass, mentre tutto quello che non era Grass era l’altrove.
Finalmente, Eric ruppe il silenzio: — L’ultima volta, i santificati ci hanno detto qualcosa a proposito di qualcuno che quando arrivò qui era affetto dalla peste, ma quando se ne andò era guanto. — E si alzò goffamente sulle sue gambe artificiali, desiderando che gli accadesse la stessa cosa: potersene andare senza essere più invalido.
— Sciocchezze! — latrò Gustave. — Non hanno neanche saputo dirci chi fosse, né quando ciò sarebbe avvenuto. Hanno parlato di un astronauta, ma senza saper precisare di quale astronave fosse. Era soltanto una diceria. Forse — brontolò — la peste non esiste neppure. Forse è soltanto una scusa per iniziare a far proseliti fra noi e prelevare campioni cellulari per le loro dannate banche. — La storia della famiglia tramandava ancora molti aneddoti sulla tirannia religiosa dalla quale i bon Smaerlok erano fuggiti in epoca molto antica.
— No — rispose Figcr — credo che la peste esista davvero, come abbiamo potuto verificare da altre fonti. Il fatto che essa susciti tanta apprensione è del tutto comprensibile: questo spiega perché i santificati si danno tanto da fare in varie direzioni, senza combinare granché. Comunque, col tempo finiranno per trovare una cura che debelli la pestilenza. Una cosa bisogna riconoscere, a proposito della Santità: alla fine, trova sempre le risposte che cerca. Dunque, perché non lasciare che essa trovi la risposta, senza manifestare ostilità, ma anche senza prenderci troppo disturbo? Diremo al Prelato che non ci piace essere studiati, e così via. Ci appelleremo al diritto della inviolabilità culturale, e lui dovrà accettare, dato che è uno degli accordi riconosciuti dalla Santità all’epoca della diaspora. Tuttavia, aggiungeremo che siamo un popolo sensibile, che siamo disposti a discuterne, e che, a questo scopo, egli potrebbe inviare un ambasciatore. — Figor fece un ampio gesto: — Così potremo andare avanti a discutere per anni, fino a quando la questione perderà ogni importanza.
— Fino a quando moriranno tutti? — chiese Gerold.
— No — sospirò Figor. Supponeva che bon Laupmon si riferisse a tutti coloro che erano di origine umana e non vivevano su Grass, ma sapeva che non si poteva mai essere certi che egli comprendesse appieno quello che succedeva. — Fino a quando troveranno una cura. E senza dubbio ci riusciranno, col tempo.
Gustave sbuffò: — Persino io, Gerold, devo riconoscere che i santificati sono intelligenti. — Ma fece questa ammissione in un tono tale da far sembrare che non avesse alcuna considerazione per l’intelligenza.
Ancora una volta i quattro aristocratici interruppero la conversazione per meditare. Poi Eric affermò: — Questo piano ha il vantaggio di farci sembrare del tutto ragionevoli.
Di nuovo, Gustave sbuffò, aggrondato: — Agli occhi di chi? Chi ci osserva? Chi ne ha il diritto? — E picchiò il braccio sulla sedia, arrossendo.
— Chiunque può osservarci, Gustave, che ne abbia il diritto o meno. — Sin da quando aveva subito l’incidente che gli aveva impedito per sempre di partecipare alla Caccia, Gustave era suscettibile, oltre che irascibile, perciò Figor tentò di calmarlo: — Che lo vogliamo o no, chiunque può osservarci e formarsi una opinione sul nostro conto. Inoltre, se mai dovesse occorrerci la collaborazione della Santità per qualcosa, ci troveremmo in posizione tale da poter chiedere la restituzione del favore.
Eric annuì, accorgendosi che Gustave stava per obiettare: — Probabilmente non ci servirà mai nulla, Gustave. In caso contrario, però, ci troveremmo in posizione vantaggiosa. Non sei tu a dire sempre che non dobbiamo rinunciare a nessun possibile vantaggio, a meno che sia assolutamente necessario?
L’obermun cominciò a placarsi: — Allora dovremmo essere cortesi con i loro inviati, e inchinarci, e strisciare, fingendo che uno stupido straniero di un altro pianeta sia nostro eguale?
— Ebbene, sì. Poiché sarà inviato dalla Santità, l’ambasciatore sarà probabilmente un Terrestre. Senza dubbio, Gustave, riusciremo a sopportarlo per qualche tempo. Come ho detto, quasi tutti parliamo la lingua diplomatica.
— E questo fragras, con ogni probabilità, avrà una moglie sciocca e una dozzina di marmocchi, nonché un seguito di servi, segretari e assistenti vari. E tutti andranno in giro a fare un sacco di domande!
— Li manderemo tutti in qualche luogo isolato, dove non potranno parlare con molta gente. Per esempio, Collina d’Opale. — Eric nominò con una certa soddisfazione la sede dell’ex-ambasciata di Semling. — Sì — ripeté — Collina d’Opale.
— Ah, Collina d’Opale! è lontanissima e molto isolata, oltre le paludi e le foreste sud-occidentali! Ecco perché la delegazione di Semling se ne andò: ci si sente soli, a Collina d’Opale.
— Così, l’inviato della Santità si sentirà solo e se ne andrà a sua volta. Ma in tal caso, sarà colpa sua, non nostra. Non siete d’accordo?
Era evidente che tutti ne convenivano. Figor attese un poco, nel caso che qualcuno vi ripensasse, o che Gustave si riabbandonasse alla collera; poi chiamò un cameriere affinché servisse il vino, e condusse gli ospiti nei giardini d’erba, che all’inizio dell’autunno erano nel periodo del loro massimo splendore, con gli steli che ondeggiavano come danzatori al ritmo del vento meridionale: persino Gustave si sarebbe addolcito, dopo aver trascorso un’ora nei giardini.
A ben riflettere, anche Collina d’Opale aveva giardini bellissimi, sebbene recenti. I penitenti santificati, coloro che si facevano chiamare Frati Verdi, espiavano i loro peccati proprio su Grass, disseppellendo rovine e progettando giardini. A Collina d’Opale, dove i Frati Verdi si erano davvero prodigati, i giardini non erano cambiati da quando la delegazione di Semling se n’era andata. E forse l’ambasciatore santificato si sarebbe interessato al giardinaggio; oppure, se non lui, sua moglie, ammesso che ne avesse una, o i suoi numerosi marmocchi.
Lontano da Klive, fra le erbe, Dimity bon Damfels si sforzava di resistere al dolore alle gambe e alla schiena. Nonostante tutte le ore che aveva trascorso al simulatore, e tutte le sofferenze che vi aveva patito, cavalcare davvero era ben diverso: era qualcosa di esasperante, detestabile, intimo.
— Quando ti sembra che il dolore diventi insopportabile — le aveva detto l’istruttore di equitazione — ripensa allo svolgimento della Caccia, distraiti, e soprattutto, non pensare al dolore stesso.
Così, per distrarsi, ella ripensò al percorso che aveva compiuto assieme alla comitiva fino a quel momento, lungo il Sentiero Verdazzurro, che attraversava una prateria il cui colore andava dall’indaco cupo, attraverso tutte le sfumature di turchese e zaffiro, sino al verdecupo e al verde smeraldo, culminando nell’acquamarina dell’alta erba acqua che ondeggiava incessantemente su una dorsale e, più oltre, colmava una depressione cosparsa d’isole di erba sabbia: nell’insieme, si aveva l’impressione di ammirare un paesaggio marino meravigliosamente suggestivo; e proprio perciò quella distesa era chiamata Giardino dell’Oceano. Una volta, quando aveva accompagnato Rowena alla Città Plebea a ritirare tessuti d’importazione, Dimity aveva veduto, appeso a una parete del negozio, un quadro che raffigurava un autentico oceano della Santità, e rammentava di aver commentato che quella distesa d’acqua assomigliava molto alla prateria. Alcuni altri clienti, ridendo, avevano risposto che era piuttosto l’erba ad assomigliare al mare. Ma come lo si poteva stabilire? L’oceano e la prateria erano simili in tutto e per tutto, a parte il fatto che nell’acqua si poteva annegare.
Meditando su tutto ciò, Dimity si sorprese a pensare che anche nell’erba si poteva quasi annegare: lo si poteva persino desiderare. Intanto, un dolore insopportabile le si diffuse poco a poco dal ginocchio sinistro all’inguine: Devo distrarmi, pensò ripetutamente. Devo distrarmi.
Oltre il Sentiero Verdazzurro, la muta aveva proseguito la sua corsa silenziosa sul sentiero che conduceva alle Montagne di Rubino, addentrandosi nella Foresta delle Trenta Ombre, dove giganteschi steli neri, grossi come il busto di Dimity, si urtavano con le cime nella brezza, producendo rumori cavernosi, e i prati erano vellutati come muschio intorno ad ammassi di erba roccia.
Sulle Montagne, da cui si scorgevano distese color ambra e pesca, albicocca e rosa, con striature rossocupe e chiazze sgargianti di sanguinaria, il sentiero abbandonava i giardini per addentrarsi fra le incolte, altissime graminacee della prateria di erbalta, dove non vi era nulla da vedere, se non steli che si aprivano al passaggio delle cavalcature, e null’altro da udire se non il continuo frusciare, e null’altro a cui pensare se non proteggersi dalle sferzate delle erbe, curvando la testa affinché fosse percosso il cappello imbottito e non il viso.
In base al sole, comunque, Dimity capì che la comitiva stava correndo verso settentrione, e su questo si concentrò. Le estancia erano separate le une dalle altre da almeno un’ora di volo, eppure occupavano soltanto una minima parte della superficie di Grass. Cosa sapeva, lei, del territorio a nord dell’estancia bon Damfels, dove non esisteva nessun’altra tenuta? L’estancia più vicina era quella dei bon Laupmon, che pure era molto lontana, a sud-est. Ad oriente si trovava quella dei bon Haunser, mentre il Monastero dei Frati Verdi era a nord-est. A settentrione, dunque, non vi erano altre estancia, né villaggi: nulla, tranne la prateria e una bassa vallata cosparsa di numerosi boschetti. E molti boschetti, pensò Dimity, rammentando quello che le era stato ripetuto tante volte, significano molte volpi. Senza dubbio la comitiva era diretta proprio alla vallata.
D’improvviso, Dimity provò dolore all’altra gamba, tuttavia cercò di non combatterlo e di non distrarsi, perché il maestro di equitazione le aveva detto: — Ma puoi far di meglio che distrarti: puoi adattarti al ritmo della cavalcata e non pensare a niente. Soprattutto, non turbare la cavalcatura e non attirare l’attenzione dei veltri. — Decisa a seguire scrupolosamente queste istruzioni, ella cercò dunque di non pensare a nulla e di sopportare la sofferenza.
Al simulatore, non era mai riuscita a non pensare, quindi fu sorpresa nel constatare quanto ciò fosse più facile in groppa a una vera cavalcatura: sembrava che un apposito dispostivo svuotasse senza posa la sua mente, come una sorta di gomma per cancellare. Ma poiché era una sensazione che non le piaceva affatto, fece per scrollare la testa, irritata, rammentando appena in tempo che occorreva conservare una assoluta immobilità. Così turbò il proprio silenzio interiore. Volutamente, cercò di nuovo di distrarsi pensando al suo nuovo abito da ballo, di cui rivide ogni balza, ogni ricamo; e dopo un poco sentì svanire il dolore alla testa.
Cavalca, esortò mentalmente se stessa. Cavalca, cavalca, cavalca. Sostituendo il silenzio mentale con questa cantilena, ella dimenticò l’abito da ballo, e continuò semplicemente a cavalcare, assecondando i movimenti della creatura, ad occhi chiusi. La spina dorsale era una colonna di dolore, la bocca era arida: fu costretta a dar fondo alle proprie forze per reprimere il desiderio disperato di urlare.
D’un tratto, la comitiva si fermò su un lungo crinale. Quasi contro la propria volontà, Dimity apri gli occhi per osservare la vallata, che non era dissimile dal Giardino dell’Oceano, tranne il fatto che le onde di erbalta avevano sfumature ambrate o bruno-grigiastre, e le isole erano costituite da boschetti di veri e propri alberi: gli unici che esistessero su Grass. Erano alberi palustri, che crescevano nei pressi delle sorgenti, ed erano il rifugio delle volpi. Era là che quei demoni zannuti vivevano e si nascondevano, quando non si muovevano furtivamente tra le erbe per uccidere i puledri.
— Non bisogna mai pronunciare la parola «puledri» quando le cavalcature possono sentire — aveva raccomandato il maestro di equitazione. — È soltanto un termine che usiamo noi. Semplicemente, supponiamo che esistano puledri, anche se non ne abbiamo mai visti. Perciò è meglio non dir nulla. Anzi, è sempre meglio evitar di parlare, quando le cavalcature possono sentire.
Per questo Dimity taceva, come pure tutti gli altri cavalieri, ognuno interamente assorto in se stesso, pallido per la concentrazione. Se non l’avesse vista, Dimity non avrebbe mai creduto che Emeraude potesse essere così immobile e taciturna: probabilmente non lo avrebbe creduto neppure la mamma. E Shevlok! Tranne quando Stavenger era presente, Shevlok parlava sempre con qualcuno, oppure fumava sigari di importazione, giacché non si accontentava di nulla di meno del miglior tabacco di Shafne. In presenza del padre, invece, se ne stava in disparte cercando di non attirare l’attenzione, anche se così, con questo tentativo di nascondersi o mimetizzarsi, finiva proprio col farsi notare.
La Caccia stessa era impressionante per la sua quiete: era silenziosa come i luoghi più isolati quando, nel cuore dell’inverno, erano deserti e ricoperti da uno spesso strato di ghiaccio.
Nel concentrarsi per mantenere la respirazione lenta e profonda, Dimity si sentì di nuovo svuotare la mente e si ribellò, pensando al pranzo che sarebbe seguito alla Caccia: gallina fritta nell’olio con spezie d’importazione e macedonia, anzi, torta di frutta secca, perché era ancora troppo presto per la frutta fresca.
In quel momento il gruppo ripartì, per scendere nella vallata, verso un buio boschetto. Allora Dimity rammentò un altro consiglio del maestro di equitazione: — Gli alberi sono così straordinari che ti sarà difficile reprimere l’emozione, però non dovrai sospirare né fare commenti, naturalmente. Dovrai tenere la bocca chiusa, e non allungare il collo, non guardare attorno, non cambiare posizione. — Comunque, ella aveva già visto alberi per migliaia di ore, sugli schermi del simulatore.
Così rimase in silenzio, guardando innanzi, verso la torreggiante vegetazione che la sovrastava, con le fronde pesanti a nascondere il cielo. Ad un tratto, il mondo intero parve invaso da un crosciante diguazzar di zoccoli. L’odore dell’acqua della palude era molto diverso da quello della pioggia: non era semplicemente umido, bensì fradicio, marcio, eppure fecondo. Senza rumore, Dimity dischiuse le labbra per respirare con la bocca, abituandosi intanto a quell’odore insolito, che le faceva desiderare di starnutire, tossire o ansimare.
Pur udendo il segnale, Dimity comprese di cosa si trattava soltanto quando i veltri si lanciarono innanzi, sparpagliandosi in tutte le direzioni, annusando il suolo. Poco a poco, il rumore della loro corsa si spense. Come il maestro di equitazione aveva spiegato, la storia tramandava che nei tempi antichi si era usato incitare i veltri gridando: — Stanatela, ragazzi miei! Stanatela! — Come se qualcuno avesse potuto gridare davveri «ragazzi miei» ai veltri!
Lo stridulo, ritmico gracidio di una rana pulsò ripetutamente nel bosco; s’interruppe per un periodo tanto lungo che Dimity credette che fosse cessato; quindi riprese. Con la coda dell’occhio, la ragazza scorse una rana, bianca e tremante fra l’erba.
Un veltro emise un profondo, echeggiante aroo, e Dimity ebbe un tuffo al cuore, mentre l’ululato si ripeteva più e più volte. Quando gli ululati di un altro veltro, di mezzo tono più alti, si unirono a quelli del primo, ella ebbe l’impressione che un coltello le ferisse le orecchie. Poi l’intera muta scoppiò in una spaventevole cacofonia: aroo, aroo. Strillando in risposta, le cavalcature si addentrarono ancor più nel bosco: ormai stanata, la volpe sarebbe stata braccata senza scampo. Ad occhi chiusi, Dimity tenne duro, mordendosi la lingua e le guance, disposta a compiere ogni sforzo pur di restare consapevole, dritta in sella.
Proprio in quel momento, pensò: Questo è il Boschetto Darenfeld, che un tempo era parte della estancia dei bon Darenfeld. Sto cavalcando al seguito dei veltri proprio qui, nel Boschetto Darenfeld, dove morì la mia amica Janetta bon Maukerden! Aprì la bocca per gridare, ma, con uno sforzo di volontà, riuscì a trattenersi. Non devo parlarne, pensò. In realtà, nessuno mi ha detto che Janetta morì qui. Nessuno lo ha detto. Nessuno ha detto niente, tranne pronunciare il suo nome e poi sussurrare: «Il Boschetto Darenfeld.» E quando ho chiesto spiegazioni, mi hanno risposto: «Taci, taci. Non parlarne, non chiedere.» Ne sanno più di me. Non posso dire niente che già non sappiano.
Intanto, i veltri correvano e latravano, la cavalcatura li seguiva, e Dimity resisteva, ad occhi di nuovo chiusi. Non poteva fare altro che tener duro, restare dove si trovava, non cadere, tacere, sopportare il dolore, continuare la Caccia.
Così la Caccia prosegue e il tempo trascorre. Per ore la volpe fugge, e per ore i cavalieri la inseguono. Dimity finisce col dimenticare chi è e dove si trova. Il passato e il futuro cessano di esistere. Esiste soltanto un’eternità di zoccolio, frusciar di erbe, latrar di veltri, e lontano, innanzi, ululati di volpe. Trascorrono così molte ore, o forse giorni. Sì, forse i cacciatori braccano la preda per giorni: Dimity non saprebbe precisarlo.
Nulla segna il passare del tempo. La sete, sì, e la fame, e la stanchezza, e il dolore, sì. Fin dalle prime ore del mattino, la ragazza è perseguitata da una sete ardente, una fame straziante, un dolore che le martoria il midollo delle ossa come una malattia. La bocca non potrebbe essere più secca, né lo stomaco più vuoto, né la sofferenza potrebbe essere maggiore. Finalmente, ella capisce che tutto ciò durerà per sempre e cessa di lottare. Ogni preoccupazione è cancellata dalla sua mente assieme al senso del tempo. Non esistono più né il prima né il dopo: nulla, nulla.
Poi, la cavalcatura rallenta, si ferma, e Dimity, senza volerlo, esce dal doloroso intontimento in cui è sprofondata: apre gli occhi.
I cacciatori si stanno addentrando lentamente nella fosca cattedrale d’ombra di un altro boschetto. Alcuni raggi di sole cadono da un varco nel fogliame sopra di loro a trafiggere l’oscurità. Un raggio luminoso investe Stavenger, in piedi sulla groppa della cavalcatura, con la fiocina in pugno, pronto a colpire. Quando dai rami dell’albero sopra di lui giunge uno strillo di furore, Stavenger scaglia la fiocina e la funicella si srotola come un filo dell’oro più puro.
Echeggia un orribile ululato, questa volta di agonia.
Un veltro balza in alto ad afferrare con le fauci la cordicella, subito imitato da alcuni altri. In breve, i veltri tirano giù dall’albero la volpe, sempre latrando, senza mai tacere un istante. Fra loro cade una creatura grossa e scura, con occhi sfavillanti e zanne possenti. Poi si odono soltanto gli strilli della preda e i rumori delle fauci che sbranano.
Ancora una volta, Dimity chiude gli occhi, troppo tardi per non vedere il sangue scuro che sgorga come una fontana tra i veltri accalcati, e sente. Sente un empito di piacere, così profondamente intimo che la induce ad arrossire e le mozza il fiato, le fa tremare le gambe strette alla cavalcatura, e le squassa tutto il corpo in uno spasmo estatico.
Tutt’intorno a lei, altri occhi si chiudono, altri corpi tremano. Tutti, tranne Sylvan, il quale rimane eretto in sella, gli occhi fissi al sanguinoso scempio, i denti snudati in un silente ringhio di sfida, il volto affatto privo di espressione. Vede Dimity tremare spasmodicamente ad occhi chiusi e, per non guardarla, distoglie il viso.
Soltanto quando la comitiva lasciò la Foresta Nera e ritornò a Klive riprendendo il Sentiero Verdazzurro, Dimity riaprì gli occhi. Allora il dolore divenne tale che, non riuscendo più a sopportarlo in silenzio, ella gemette, a malapena, senza riflettere. Subito un grande veltro dalle chiazze purpuree si girò a scrutarla con occhi di fiamma, tutto lordo di sangue, suo proprio o della volpe. In quel momento la ragazza si rese conto che quegli stessi occhi l’avevano guardata più e più volte durante la battuta, anche quando la volpe era caduta dall’albero proprio in mezzo alla muta, e lei aveva provato quella sensazione.
Abbassò lo sguardo alle proprie mani che serravano le redini e non alzò più la testa.
All’arrivo al Cancello di Caccia, Dimity non fu in grado di smontare da sola, ma Sylvan corse subito ad aiutarla, con tale prontezza che probabilmente nessun altro cacciatore si accorse della debolezza della ragazza. Tuttavia se ne rese conto il veltro dai rossi occhi fiammeggianti nell’oscurità che si addensava, il quale poco dopo se ne andò, assieme al resto della muta e a tutte le cavalcature. Dal cancello, il capocaccia suonò piano il corno e gridò: — La Caccia è finita! Siamo tornati! Rientriamo.
Dal balcone, udendo il suono attutito del corno, Rowena comprese che gli animali se n’erano andati e i cacciatori attendevano di essere serviti. Con le mani strette l’una all’altra e la bocca aperta, ella si sporse dalla balaustrata, mentre un servo apriva dall’interno il Cancello della Muta e gli stanchi cacciatori entravano: il maestro di caccia e gli altri uomini in giacca rossa, le donne abbigliate di nero. Coi calzoni imbottiti, queste ultime appaiono grosse e goffe come rane nell’oscurità. I pantaloni bianchi erano ormai chiazzati di sudore, mentre i fiocchi da caccia, impolverati e sferzati dalle alte erbe, avevano perduto il primitivo candore. I servi attendevano, pronti a servire acqua e carne arrostita. Già da alcune ore i bagni erano colmi di vapore, ognuno riscaldato dalla sua piccola caldaia. I cacciatori, tenendo coppe d’acqua e spiedini di carne, si sparpagliarono, ciascuno diretto alla propria camera. Ansimante, quasi sul punto di gridare, ormai incapace di reprimere la paura contro la quale aveva lottato durante tutta la lunga giornata, Rowena cercò fra i cacciatori finché scorse la snella figura di Diamante, la quale si appoggiava al braccio di Sylvan. Allora finalmente pianse, e cercò di ritrovare la voce che aveva quasi perduto nella convinzione che Dimity non fosse tornata.
— Dimity — chiamò Rowena, sottovoce, sporgendosi il più possibile dalla balustrata, perché non voleva essere udita da Stavenger, né da nessun altro aristocratico integralista. Poi salutò con la mano, quando la ragazza alzò lo sguardo.
Con un cenno della testa, Sylvan indicò una porta laterale. Pochi minuti più tardi, Dimity entrò nella stanza della madre e fu accolta da Salla con una esclamazione di disgusto: — Oh, come sei sporca! Sei proprio lurida, ragazza mia! Sembri un migerer! Togliti la giacca e il fiocco. Vado subito a prenderti la tunica, così potrai sbarazzarti di tutta quella roba lercia.
— Sì, sono sporca, Salla, però sto bene — rispose la ragazza, pallida come la luna, respingendo debolmente le mani solerti della cameriera.
— Dimity.
— Sì, mamma?
— Da’ a Salla i tuoi vestiti, cara. Vieni, ti aiuto a togliere gli stivali.
In breve, con qualche sforzo, gli alti stivali neri furono sfilati. — Puoi restare qua a fare il bagno, e intanto raccontarmi com’è andata la Caccia. — Con un cenno d’invito, Rowena attraversò la stanza lussuosa e aprì la porta del bagno piastrellato, adorno di mosaici, dove la vasca era già piena di acqua fumante. — Puoi usare il mio unguento da bagno. Ti piaceva tanto, quando eri piccola! Ti senti indolenzita?
Invano Dimity cercò di rispondere con un sorriso. Non poté fare altro che impedire il tremito delle proprie mani nel togliersi la biancheria intima e lasciarla cadere in un mucchio sul pavimento.
Soltanto quando la ragazza fu immersa fino al collo nell’acqua fumante, Rowena domandò: — Raccontami cos’è successo.
— Non so — mormorò Dimity. — Non è accaduto nulla. — L’acqua leniva poco a poco il dolore. Ella soffriva ad ogni movimento, eppure, nel liquido caldo, questa sofferenza che sentiva nel più profondo delle ossa si tramutava quasi in piacere. — Non è successo niente.
Gli occhi lustri di lacrime, Rowena batté un piede sul pavimento per sfogare l’esasperazione, ma senza veemenza: — Hai avuto difficoltà a montare?
— No, davvero.
— E avevi già visto la tua cavalcatura?
Improvvisamente guardinga, Dimity aprì gli occhi a scrutare la madre: — La cavalcatura? Credo che fosse una di quelle che avevo già visto, magari al pascolo, vicino al prato di erba corta dove andavo sempre a giocare con Sylvan. — Pensando che ciò significasse qualcosa, continuò a scrutare la madre.
Quantunque ricordasse di aver montato, alla sua prima battuta, una cavalcatura che l’aveva osservata quando era bambina, Rowena si limitò ad annuire: — Dove siete andati?
— In un bosco. Credo che fosse il Boschetto Darenfeld. Voglio dire, nella vallata.
Di nuovo Rowena annuì, ricordando gli scuri alberi torreggianti che nascondevano il cielo, il suolo tappezzato di muschio e fiorellini, e il chioccolio dell’acqua che scorreva sotto il muschio. Ma quando rammentò anche Janetta, l’amica di Dimity, l’amante di Shevlok, fu costretta a interrompere i ricordi: — Avete stanato una volpe?
— Sì — Dimity richiuse gli occhi, perché non voleva più parlarne, bensì soltanto dimenticare. Promise a se stessa che la prossima volta avrebbe ceduto subito al dolore, senza lottare. Poi, attraverso le palpebre socchiuse, vide il volto sempre interrogativo della madre, che voleva sapere di più. Sospirando, aggiunse: — I veltri si sono addentrati nel bosco e in breve hanno cominciato ad abbaiare. Li abbiamo seguiti al galoppo. Mi sembra di ricordare che la muta ha perso la volpe tre o quattro volte, ma ogni volta l’ha ritrovata. O forse è soltanto una mia impressione. Comunque, la volpe non smetteva più di correre. Alla fine i veltri l’hanno costretta a rifugiarsi su un albero, da qualche parte, al nord.
— L’avete uccisa?
— Stavenger l’ha uccisa. Papà, voglio dire, il maestro di caccia, ha scagliato l’arpione una volta soltanto. Non ho visto dove l’ha colpita, ma la volpe è stata tirata giù dall’albero e la muta l’ha divorata. — Al ricordo di quello che era successo subito dopo, Dimity arrossì, e se ne rese conto sentendo affluire un improvviso calore al viso.
Interpretando correttamente quel rossore, Rowena distolse il volto per non vedere la vergogna, l’imbarazzo, il pudore mortificato della figlia, e cercò qualche altro argomento: uno qualsiasi, pur di evitare quello. Era accaduto anche a lei, ogni volta, tuttavia non ne aveva mai parlato a nessuno. Per questo non aveva mai saputo, fino a quel momento, se fosse una colpa segreta soltanto sua, oppure condivisa da altri. Commentò: — Allora non hai veramente visto la volpe.
— Ho veduto soltanto un’ombra sull’albero, poi anche gli occhi, le zanne, e poi tutto è finito.
— Ah — sospirò Rowena, mentre le lacrime le scorrevano sul viso. Rideva di se stessa e delle proprie paure, si vergognava per la vergogna di Dimity, eppure provava sollievo.
— Mamma! Sto bene. Va tutto bene.
Tergendosi gli occhi, Rowena annuì. Non era accaduto nulla di tutto quello che avrebbe potuto andar male: Dimity era montata in sella, aveva cavalcato, non era caduta, non era stata aggredita dalla volpe, non aveva in alcun modo turbato i veltri.
— Mamma — sussurrò la ragazza, commossa alla vista delle lacrime, cercando in qualche modo di essere di conforto.
— Sì, Dimity?
— Durante il ritorno, un veltro non ha fatto altro che guardarmi. Aveva il manto a chiazze purpuree e non faceva altro che guardarmi. Tutte le volte che abbassavo gli occhi, vedevo che mi guardava.
— Non l’avrai fissato!
— Certo che no! So bene che non bisogna farlo. Anzi, ho finto di non accorgermene affatto. Però mi è parsa una cosa strana.
Per un poco, Rowena meditò in silenzio, indecisa se dire qualcosa, o dire troppo, o tacere. Infine spiegò: — In effetti, da questo punto di vista, i veltri sono strani: talvolta ci osservano, talaltra sembra che non si accorgano neppure di noi. Altre volte, invece, sembrano divertiti da noi. Lo sai.
— In realtà, non lo so proprio.
— Be’, il fatto è che hanno bisogno di noi, Dimity: dato che non possono arrampicarsi, non possono uccidere la volpe, se noi non la tiriamo giù.
— Ma per questo basterebbe un uomo solo, abbastanza forte da scagliare l’arpione.
— Oh, credo che vi sia ben altro. Sembra che i veltri godano del rituale della Caccia.
— Durante il ritorno, non ho fatto altro che chiedermi come sia cominciata la Caccia. So che sulla Terra, molto tempo fa, prima della Santità e della nostra partenza, si usava compiere la caccia al seguito. L’ho letto nel mio libro di storia, dove ho visto varie illustrazioni con i cavalli, i cani, e quelle piccole creature con la pelliccia, che però non assomigliano affatto alle nostre volpi. Non sono neppure riuscita a capire perché desiderassero ucciderle. Certo, con le nostre volpi non c’è altro da fare che ucciderle, ma perché proprio in questo modo?
— È semplice. Uno dei primi coloni divenne amico di una giovane cavalcatura e imparò a cavalcarla — rispose Rowena. — Poi il colono lo insegnò ad alcuni amici, e la giovane cavalcatura portò alcuni altri individui della sua razza, e così, poco a poco, ricominciò la Caccia.
— E i veltri?
— Non so. Una volta mio nonno mi disse che un giorno, semplicemente, apparvero, come se sapessero che avevamo bisogno di loro affinché la Caccia si potesse svolgere in modo adeguato. Arrivano sempre il giorno giusto, nel luogo giusto, proprio come fanno le cavalcature.
— Ma se li chiamiamo veltri sebbene non lo siano realmente, perché non chiamiamo «cavalli» le cavalcature? — chiese Dimity, proponendosi di pregare la madre di lavarle la schiena, e rovesciando la testa all’indietro per immergerla parzialmente nell’acqua calda, contenta di chiacchierare.
Rowena trasalì: — Oh, credo che agli Hippae non piacerebbe affatto.
— E non li urta essere chiamati «cavalcature»?
— Ma, mia cara, sai bene che non li chiamiamo mai così, quando ci possono sentire. Anzi, non parliamo mai di loro quando ci possono sentire.
— Provoca una strana sensazione, vero?
— Cosa? — chiese Rowena, balzando in piedi. — A cosa ti riferisci?
— Non ci si sente strani a cacciare?
In tono preoccupato, Rowena spiegò: — La Caccia esercita una sorta di effetto ipnotico. Altrimenti sarebbe piuttosto noiosa. — Mise un asciugamano piegato a portata di mano della figlia, quindi uscì dalla stanza da bagno, chiudendosi la porta alle spalle per non lasciar uscire il calore.
Un veltro ha guardato Dimity? pensò, aggrondata, mordendosi un labbro, con espressione improvvisamente preoccupata. Ne parlerò con Sylvan. Adesso sarà con Figor a discutere di quella faccenda della Santità, ma forse ha notato qualcosa. Senz’altro nessuno si è accorto di niente, ma lui forse sì. O forse è stata soltanto l’immaginazione di Dimity: sarebbe comprensibile, dopo tante ore di stanchezza e di sofferenza. In questo caso, però, sarebbe una fantasia ben strana. I veltri hanno ucciso la volpe, quindi erano certo di buonumore. Che ragione avrebbe avuto, uno di loro, per guardare Dimity? D’altronde, perché mai lei si sarebbe immaginata un simile incidente? Senza dubbio nessuno le ha mai detto nulla, a proposito di Janetta e di questo aspetto della Caccia. Sì, devo parlarne con Sylvan al più presto, appena si sarà presa una decisione su questa sciocchezza della missione scientifica, e tutti saranno liberi di pensare ad altro.
Erba.
Milioni di miglia quadrate di prateria, con villaggi ed estancia, con cacciatori e prede, dove il vento spira e la luce delle stelle cade sugli steli e sugli stami, e le rane informi gracidano per tutto il giorno e per tutta la notte, tranne quando misteriose creature lanciano il grande ululato nella tenebra punteggiata di stelle, provocando un silenzio stordente, arcano.
A settentrione, presso i confini della regione dell’erba corta, sono situate le rovine di una città degli Arbai, che non sono affatto dissimili da quelle che sono state scoperte sugli altri pianeti colonizzati, tranne il fatto che su Grass gli Arbai perirono di morte violenta. Fra le rovine, i Frati Verdi sono occupati a scavare, a classificare reperti, a copiare volumi della biblioteca arbai. Si dice che i Frati siano penitenti, anche se nessuno, su Grass, sa quali peccati debbano espiare, né se ne cura.
Poco a nord degli scavi, nel Monastero, gli altri Frati Verdi sono impegnati a coltivare orti ed allevare maiali e galline, oppure a vagare nelle praterie a predicare, forse agli Hippae, o forse alle volpi: chi può saperlo? Sono tutti penitenti, esiliati dalla Santità in quel luogo remoto e solitario. Erano già su Grass, benché non di loro volontà, quando arrivarono i primi aristocratici, e alcuni lamentano che saranno ancora qui, sempre contro la loro volontà, quando gli aristocratici saranno scomparsi.
Infine vi sono l’astroporto e la Città Plebea, situati nell’unico luogo su Grass dove l’erba cresce scarsa: un’area ovale, lunga e stretta, di circa cento miglia quadrate, attraversata da un’alta dorsale rocciosa e cinta dalla foresta palustre. Si tratta di una zona riservata ai commerci, con magazzini, fattorie idroponiche, cave, prati, miniere, e tutto il disordine, tutta la cacofonia, che sono tipiche delle città.
Nella Città Plebea, gli stranieri vanno e vengono senza dar noia a nessuno, liberi di dedicarsi ai loro affari incomprensibili e, come dicono i bon Damfels, spregevoli. All’astroporto, le grandi cosmonavi atterrano sulle loro code di fuoco, provenienti da Shafne, da Semling, e dal pianeta che quasi tutti chiamano Santità, se non quando viene loro ricordato che in realtà il suo nome è Terra: la culla dell’umanità. Gli uomini e le donne che giungono su Grass come viaggiatori e mercanti, artigiani e predicatori, nonché astronauti, hanno bisogno di alberghi e magazzini, negozi, bordelli e chiese. Vi sono persino bambini e campi da gioco, insegnanti e scuole.
Talvolta, un gruppetto di fanciulli avventurosi o di viaggiatori annoiati lascia il cosmodromo, oppure la città, e scende per un miglio o due la lunga china, fino alla pianura paludosa, dove il muschio è umido, elastico. Coloro che si allontanano maggiormente si trovano presto ad affondare in un suolo fradicio, come dopo molti giorni di pioggia ininterrotta, cosi che per la gran parte, spinti dalla più che giustificata paura di sprofondare, preferiscono a questo punto tornare indietro. Poco oltre, gli esploratori più tenaci sono costretti a saltare da un ciuffo d’erba all’altro, fra i ruscelli scintillanti nelle luci untuose, e i grandi alberi cangianti dalle foglie azzurre, e fiori simili a pallide candele, e falene grandi e sgargianti come pappagalli, e profumi d’incenso, e grosse rane goffe e brutte, le quali discendono da quelle che giunsero molto tempo fa assieme ai primi coloni.
Lasciando la Città Plebea per una comune passeggiata, non si può vedere altro che questo, perché, oltre gli alberi cangianti, inizia la palude, dove i ciuffi d’erba diventano isolette di giungla tra fiumi torbidi e folti intrichi di radici dove ceature striscianti si contorcono nella melma con tonfi sordi e sinistri. Più si avanza nella palude, e più l’azzurro delle foglie è cupo, più gli alberi sono alti, più il fogliame nasconde la luce.
Per avventurarsi nel labirinto frondoso, basta possedere una piroga spinta da una pertica immersa nelle fosche profondità dell’acqua. Perciò alcuni uomini temerari, e persino alcuni sciocchi ragazzi plebei, accompagnati da un paio di ragazze, hanno costruito piroghe più o meno solide e hanno osato partire in esplorazione fra i tronchi enormi e i tentacoli dei rampicanti, addentrandosi fra le ombre scintillanti della foresta palustre. Ma sono stati pochi, e il loro esempio non è stato seguito, perché quasi nessuno di loro è mai tornato. Persino prodi e forti stranieri provenienti da altri pianeti hanno organizzato spedizioni, però a loro volta si sono perduti.
E coloro che sono tornati? Cosa avrebbero potuto raccontare, se non che avanzando nella palude vedevano aumentare sempre più l’umidità, la tenebra e il numero delle creature striscianti? In effetti, hanno raccontato ben poco, come se non riuscissero a ricordare quello che avevano visto, là, nelle profondità malsane della foresta palustre; o come se ne fossero entrati e usciti senza aver visto né udito alcunché, come sonnambuli.
E dopotutto, a chi mai può importare? Chi ha necessità di recarsi nelle paludi? Da quell’intrico di pantano e vegetali non è mai uscito nulla di dannoso, né mai vi è stato scoperto alcunché di desiderabile. Dall’alto, le fronde dei giganti vegetali paiono i flutti irrequieti di un vasto mare grigio-verde, mentre da lontano cingono e nascondono la Città Plebea come mura ciclopiche, impedendo all’energia turbolenta dei commercianti di erompere. Dall’interno hanno il medesimo aspetto, però sembrano una difesa dalle erbe inesorabili. A settentrione come a meridione, a oriente come ad occidente, la città è circondata dalla foresta palustre, senza strade per entrare, né per uscire. La foresta ignota e inviolabile, coi suoi alberi e le sue acque, è così vasta, così profonda, così labirintica, che, sebbene nessuno ne abbia la prova, tutti nella Città Plebea credono che essa nasconda qualcosa che un giorno si rivelerà, suscitando lo sbalordimento generale.