125675.fb2
La mattina della Caccia trovò gli Yrarier colmi di un’angoscia strana, ma riluttanti a mostrarla, e ancor più a condividerla. Dopo una notte quasi del tutto insonne, Marjorie si alzò di buonora, percorse la galleria che conduceva alla cappella, e partecipò alla messa. Ritornata nella villa, trovò il marito in sala da pranzo e ammise il proprio nervosismo. Pur fingendosi calmo, Rigo era ansioso come un fantino prima della corsa. Tony invece si sentiva solo, come lasciò intendere chiaramente salutando con grande trasporto i genitori e indugiando lievemente ad abbracciare la madre. Sdegnosa, Stella non manifestò alcun affetto: semisvestita, imprecò e minacciò rabbiosamente contro la pace e la tranquillità di Grass: — Sarà terribile! Ho quasi deciso di non partecipare! Perché mai non…
— Shh! — interruppe Marjorie. — Ci siamo ripromessi di tacere. Non ne sappiamo ancora abbastanza. Pensa a far colazione, adesso: dobbiamo farci trovar pronti all’arrivo dell’aeromobile.
I velivoli grassiani avevano le forme più strane: suppellettili da salotto, statue da giardino, o parti di sculture barocche. Quello che aveva trasportato i cavalli, per esempio, sembrava la versione volante di un’anfora antica, con tanto di raffigurazioni stilizzate di danzatori. Tony aveva confessato alla madre di aver trattenuto a stento le risa quando lo aveva veduto; e Marjorie stessa, nell’assistere con incredulità al suo faticoso atterraggio, aveva dovuto distogliere il viso per celare il proprio divertimento.
— Pensa a far colazione, adesso — ripeté Marjorie, augurandosi che Stella non scoppiasse a ridere alla vista dell’aeromobile. Se l’avesse ammonita di non farlo, la ragazza avrebbe senza dubbio riso, ma se non le avesse detto niente, forse si sarebbe controllata. Con un sospiro, accarezzò il libriccino di preghiere che teneva in tasca e si affidò alla volontà divina.
La colazione, che avrebbe potuto sfamare senza difficoltà una decina di persone, fu divorata quasi completamente dai genitori e dai due ragazzi. Marjorie si passò una mano intorno alla vita, sbalordita: benché mangiasse in abbondanza, aveva l’impressione di perdere peso. Finalmente arrivò l’aeromobile: un modello a decollo verticale, fastoso, ma niente affatto buffo. L’obermun bon Haunser in persona invitò gli Yrarier a prendere posto sui sedili imbottiti e offrì loro una bevanda calda locale, che era chiamata «caffè» benché non vi somigliasse affatto. Intanto il taciturno pilota, che non era un aristocratico, ripartì per destinazione ignota, verso nord-est. Durante il volo, l’obermun mostrò ai passeggeri alcuni luoghi caratteristici: — Quella è la Dorsale Cremisi — disse, indicando una lunga catena collinare rosa cupo. — Entro una settimana, o al massimo due, sarà sanguigna. In lontananza, alla vostra destra, potete invece osservare le Colline di Zibellino. Spero che vi rendiate conto del vostro privilegio: siete fra i pochi stranieri a cui sia stato concesso di uscire dai confini dell’astroporto e della Città Plebea.
— Devo ammettere che la Città Plebea m’incuriosisce molto — dichiarò Rigo. — Stando alle mappe, è del tutto circondata dalla foresta ed è considerevolmente vasta: cinquanta miglia circa di lunghezza, per due o tre miglia di larghezza. Se non sbaglio, ha una economia fiorente, basata sul commercio, l’agricoltura e l’allevamento. Al nostro arrivo, inoltre, ho notato che in essa le strade non mancano, a differenza che nel resto del pianeta.
— Come ho già spiegato a vostra moglie, ambasciatore, la circolazione degli automezzi è consentita nella Città Plebea, o meglio in tutta la zona circondata dalla foresta palustre. Qua su Grass, dove ci sono paludi, ci sono anche boschi. Laggiù, alla vostra sinistra, potete osservare appunto la foresta palustre e l’astroporto. Il panorama, là, è molto diverso che nel resto del pianeta, vero? — Nell’indicare la città affollata e rumorosa cinta dalla verde foresta ondeggiante, l’obermun bon Haunser dilatò appena le narici in una inequivocabile espressione di disprezzo. — A noi non importa niente se i plebei costruiscono strade nella loro zona, — aggiunse, come se le strade fossero serpenti maligni che cercavano di strisciare furtivamente fuori da una gabbia — perché là non distruggono nessuna prateria, e inoltre non possono attraversare la palude.
Stella avrebbe voluto replicare, ma una tagliente occhiata di rimprovero del padre la indusse a tacere.
— Preferite dunque che non escano dalla città? — domandò Anthony, nel giusto tono di falso interesse. — Ma vi riferite alle strade, oppure ai plebei? E perché mai?
L’obermun arrossì, rammaricandosi di essersi abbandonato alla spontaneità: — I plebei non hanno alcun desiderio di lasciare la città. In ogni modo alludevo alle strade, ragazzo mio. Non posso certo aspettarmi che comprendiate l’orrore che suscita in noi la sola idea di devastare le praterie. Sia chiaro che non abbiamo alcun timore di falciare l’erba, né di servircene, tuttavia su Grass non esistono strade, tranne i sentieri che collegano ogni estancia al suo villaggio, e anche di questi ci rincresciamo.
— Dunque tutti i collegamenti fra una estancia e l’altra avvengono per via aerea?
— Sì, tutti i viaggi e i trasporti, le consegne e le spedizioni di merci d’importazione e di esportazione, avvengono per via aerea. Il dimmi, che collega tutte le estancia e la Città Plebea, consente invece di comunicare a distanza. Mediante il terminale di Collina d’Opale, per esempio, potrete scambiare informazioni con chiunque, su Grass, oppure comunicare con l’altrove.
— Importazioni ed esportazioni? — chiese Stella, decidendo di fare per il momento la brava ragazza. — In cosa consistono, principalmente?
Perplesso, l’obermun esitò: — Be’, le importazioni riguardano soprattutto i manufatti e i beni voluttuari: il vino e i tessuti, ad esempio. Come si può ben prevedere, le esportazioni includono per la maggior parte prodotti vegetali, quali foraggi e fibre colorate, o sementi e granaglie, oppure piante ornamentali. Ho saputo dai plebei che certe erbe, paragonate dai mercanti al bambù terrestre, sono molto richieste per l’arredamento. Inoltre, alcuni prodotti farmaceutici molto efficaci si ricavano da piante che prosperano soltanto qui. Tutti i commerci sono affidati su licenza a varie ditte plebee, giacché noi bon non abbiamo il tempo né la propensione per occuparci direttamente di simili attività. Non credo che siano molto redditizie, comunque sono sufficienti per mantenere sia le estancia che la città, e ciò torna a nostro vantaggio.
Ricordando i vasti magazzini e le prospere compagnie di spedizione che aveva veduto all’astroporto, Rigo si astenne da ogni commento: — Se ho ben capito, la vegetazione del vostro pianeta non ha alcuna affinità con quella terrestre, vero? Si tratta di piante indigene, oppure sono state importate?
— No, non esiste nessunissima affinità, neppure a livello genetico. Quasi tutte le varietà di piante erano già presenti quando arrivammo. I Frati Verdi hanno creato erbe dalle particolari caratteristiche cromatiche mediante ibridazione. Sapete dei Frati Verdi, vero? — Nel dir questo, l’obermun guardò fuori dal finestrino, con una smorfia di sconforto: sembrava che qualunque argomento di conversazione lo turbasse. Senza attendere risposta, proseguì: — Furono inviati su Grass molto tempo fa per compiere ricerche archeologiche alle rovine arbai e cominciarono a dedicarsi al giardinaggio quasi per svago.
Marjorie fu ben contenta di cambiare argomento: — Non sapevo che vi fosse una città degli Arbai su Grass.
— Oh, sì, è al nord: i Frati Verdi vi lavorano ormai da molto tempo. Ho saputo che è davvero tipica, molto estesa, con le case basse — spiegò bon Haunser, con evidente disinteresse. — Perciò il compito di riportarla alla luce è molto arduo. Personalmente, non l’ho mai veduta.
Di nuovo, Marjorie cambiò argomento: — Oggi avremo occasione di conoscere alcuni membri della vostra famiglia, obermun?
— Della mia…? — Jerril trasalì, sorpreso. — No, no. La Caccia si svolgerà anche questa volta dai bon Damfels, e così sarà per tutto questo periodo, prima che abbia luogo dai bon Maukerden.
— Oh! — sorpresa, Marjorie parlò senza riflettere: — Se non sbaglio, mi avete detto che i bon Damfels sono in lutto.
— Naturalmente — rispose l’obermun, irritato. — Ma questo non può certo interferire con la Caccia.
Fingendo di non accorgersi dell’occhiata ammonitrice del marito, Marjorie insistette con dolcezza: — Altre famiglie parteciperanno alla Caccia assieme ai bon Damfels?
— Di solito, due o tre famiglie cacciano insieme. Oggi, con i bon Damfels, vi saranno i bon Laupmon e i bon Haunser.
— Non la vostra famiglia, però.
— Non mia moglie, né i miei figli. Di solito, le donne e i figli più giovani partecipano soltanto alla Caccia che si svolge nella loro estancia. — Ciò detto, Jerril rimase in silenzio, a mascelle serrate.
Consapevole di aver scelto un altro argomento molto delicato, Marjorie sospirò fra sé e sé, pensando: Quali argomenti non sono molto delicati, su Grass?
— Stiamo per atterrare! — annunciò l’Obermun.
— Siamo già arrivati a Klive?
— Oh, non è possibile andare a Klive con questo aeromobile, lady Marjorie: è tanto rumoroso che turberebbe i veltri. No, da qui proseguiremo in aerostato. Si tratta di velivoli praticamente silenziosi e relativamente lenti, molto adatti per assistere allo svolgimento della Caccia.
Poi, nella cabina di un aerostato ad elica, così lussuosa da sembrare progettata per una funzione del tutto diversa da quella che svolgeva, e fornita di finestrini laterali e inferiori, i viaggiatori proseguirono in silenzio fino ad atterrare su un sentiero secondario di Klive, dove furono accolti da Stavenger, l’obermun bon Damfels, e da Rowena, l’obermum bon Damfels, entrambi abbigliati con completi neri, adorni di cappe e veli purpurei: con tutta evidenza, si trattava di abiti da lutto.
Ai visitatori fu offerto vino. Rowena ne sorseggiò appena, mentre Stavenger se ne astenne. Gli Yrarier osservarono che il tempo era magnifico. Marjorie mormorò poche parole di cordoglio, che Stavenger parve non udire affatto. Rowena aveva gli occhi cerchiati e appariva lontana, smarrita in un dolore troppo intimo e profondo per consentirle di comunicare col mondo esterno. O forse, semplicemente, le condoglianze non usavano. Poco a poco, osservando il comportamento degli aristocratici, Marjorie concluse che era proprio così: nessuno badava al lutto dei bon Damfels.
Poi gli Yrarier furono presentati agli altri membri della famiglia: due figlie e due figli, i cui nomi furono a malapena bisbigliati, tanto che Marjorie non fu sicura di averli ben compresi. Uno dei figli le diede una lunga occhiata, come se volesse prenderle le misure per confezionarle un abito. Oppure un sudario, pensò Marjorie, con un brivido. Nel suo completo nero, il giovane appariva molto pallido e severo, ma non per questo meno bello. In effetti, tutti i bon Damfels erano molto belli.
Poiché ciò le era sempre stato infallibilmente utile nel crearsi nuovi amici, Stella flirtò apertamente, con allegria, ma invano. Soltanto il giovane bon Damfels notato da Marjorie le rispose con poche parole e un mezzo sorriso. Tutti gli altri apparivano distaccati e distratti, come congelati: rispondevano soltanto alle domande dirette, ma non sempre. Alla fine, Stella tacque, confusa e alquanto irata.
D’un tratto squillò una campana. Tutti i bon Damfels, tranne Rowena, si scusarono e scomparvero da un istante all’altro.
— Sono andati a vestirsi per la Caccia — spiegò Rowena, quasi in un sussurro. — Se volete seguirmi, dal terrazzo assisteremo alla partenza dei cacciatori.
Scambiandosi un’occhiata interrogativa, Tony e Marjorie si affiancarono alla padrona di casa. Nulla sembrava prevedibile o familiare: nessuna parola, nessun atteggiamento trasmettevano una qualsiasi emozione che si potesse condividere. Rigo e Stella li seguirono, scrutando attorno con occhi neri, ardenti, e sommamente sprezzanti. Era evidente che detestavano i giardini, l’ospitalità, il lutto e la Caccia che i loro ospiti rifiutavano di condividere. Marjorie rabbrividì, nel sentirli fremere alle proprie spalle per effetto di una ostilità che non era affatto diplomatica: sembrava proprio che le cose si mettessero male.
Il contegno di Rigo e Stella non mutò neppure sul terrazzo, dove furono offerti cibi e bevande: nulla ricordava i ricevimenti che avevano luogo sulla Terra. Per un poco, gli Yrarier rimasero a fissare in silenzio la prima superficie, che era deserta, sorseggiando e masticando lentamente per non tradire il loro vorace appetito, e gettando occhiate oblique alla distratta Rowena.
Più tardi, alcune serve dai lunghi abiti bianchi si recarono alla prima superficie portando vassoi con minuscoli bicchieri fumanti. Poco a poco giunsero i cacciatori. Ad una prima occhiata, costoro sembravano vestiti familiarmente, ma poi ci si accorgeva dei pantaloni imbottiti, simili a calzoni da equitazione troppo gonfi, che li facevano sembrare ridicoli. I loro volti, comunque, non erano affatto divertenti. Ognuno di loro prese un pallido bicchiere fumante e bevve soltanto un paio di sorsi. Pochi, e soltanto fra i più giovani, conversarono.
Al suono del corno, seppure attutito, Marjorie quasi balzò sulla sedia. I cacciatori si volsero al cancello orientale, che lentamente fu aperto. All’arrivo dei veltri, Marjorie rimase a bocca aperta, senza fiato. Si volse a guardare Rowena e notò in lei, con sorpresa, una espressione di odio, di collera frustrata. Di scatto distolse lo sguardo, perché era chiaro che la padrona di casa non voleva essere vista così.
— Mio Dio — ansimò Rigo, inorridito e sconvolto, mentre l’ira sbolliva in lui all’istante.
I veltri erano grandi come cavalli terrestri, muscolosi come leoni, con larghe teste triangolari, e le labbra contratte a snudare file di denti aguzzi. Sul momento, Rigo pensò che fossero erbivori. Eppure le loro fauci sembravano dotate di zanne: possibile che fossero onnivori? La loro pelle era chiara, cosparsa di chiazze informi di tonalità più scura, e il manto era cortissimo, oppure del tutto assente. In silenzio, con le lingue penzolanti sul sentiero, arrivarono a coppie e si divisero per girare intorno ai cavalieri in attesa; poi riformarono le coppie e proseguirono verso il cancello occidentale del cortile.
— Venite — disse Rowena, con voce priva di espressione. — Dobbiamo scendere per assistere alla partenza dei cacciatori.
Senza una parola, gli Yrarier seguirono la obermum per un lungo corridoio, fino ad un terrazzo prospiciente il giardino oltre il muro, e là rimasero sconvolti, a bocca spalancata, avvampando in un terrore improvviso, rimanendo aggrappati alla balaustrata, incapaci di credere a quello che vedevano.
Ecco gli Hippae, pensò Marjorie, tremando. Perché mai ho pensato che assomigliassero ai cavalli? Che ingenua sono stata! E com’è stata stupida la Santità! Possibile che nessuno, alla Santità, si sia preso la briga di… No, certo che no! Anche se avessero tentato, non ne avrebbero avuto il tempo. Poi i suoi pensieri si smarrirono nelle gelide profondità di un panico a malapena soffocato.
E così, quelli sono gli Hippae! pensò Rigo, fradicio di sudore, rifugiandosi nella collera. Ecco un altro punto a sfavore di quel dannato imbecille di Sender O’Neil! E il Prelato? Povero zio! Povero vecchio agonizzante. Semplicemente, non sapeva. Reggendosi con entrambe le mani alla balaustrata, Rigo dovette ricorrere a tutte le proprie forze per non perdere il controllo di se stesso, consapevole che Stella, accanto a lui, era curva innanzi e ansimava, tremante. Con la coda dell’occhio, vide Marjorie stringere la mano di Tony.
Nel giardino sottostante, i mostri s’impennavano e trotterellavano in silenzio, grandi il doppio dei veltri, con i lunghi colli arcuati molto simili a quelli dei cavalli, ma irti di corna taglienti ed aguzze come scimitarre, lunghe come un braccio umano dalla testa fino alla metà del collo, più corte lungo la metà inferiore del collo e sulle spalle. Gli occhi erano globi rossi e ardenti. Il dorso era rivestito di grandi piastre callose, dure e scintillanti.
A stento Marjorie trattenne una esclamazione, quando Stavenger bon Damfels si preparò a montare, portando sulla schiena, a tracolla, una custodia che sembrava una faretra lunga e stretta: la cavalcatura si piegò e stese la zampa anteriore sinistra. Stavenger vi posò il piede sinistro, e col braccio sinistro infilò un anello sull’ultimo corno inferiore. Con la mano sinistra sull’anello, tirò e balzò allo stesso tempo, sollevando molto in alto la gamba destra per scavalcare l’ampia groppa, e si accomodò proprio dietro le spalle mostruose, col ventre a brevissima distanza dalle corna. Aprì le mani e le ruotò, per avvolgersi intorno alle dita le cinghie sottili che erano fissate all’anello intorno al corno.
Redini, pensò Marjorie, per un istante. Poi, subito: No, non sono redini. Infatti, era evidente che le cinghie servivano soltanto a reggersi con le mani: non era assolutamente possibile usarle per dirigere l’enorme cavalcatura, e neppure per trasmetterle segnali. Non ci si poteva afferrare alle corna senza tagliarsi le dita, né curvarsi innanzi senza essere trafitti. Era necessario mantenere sempre la schiena flessa all’indietro, in una posizione che doveva essere dolorosissima persino per pochi istanti, altrimenti, si restava trafitti dalle corna.
Infilate le punte aguzze degli stivali nei butteri fra le costole enormi dell’animale, Stavenger puntò i piedi. Quando la cavalcatura volteggiò, impennandosi, lo sguardo dell’obermun sdrucciolò sugli occhi di Marjorie come ghiaccio: il suo volto non era semplicemente inespressivo, bensì del tutto vacuo. Stavenger non cercò in alcun modo di parlare alla cavalcatura, né tanto meno di guidarla: fu essa stessa a decidere dove andare, trasportandolo. Allora un altro Hippae si avvicinò a un altro cavaliere, che montò a sua volta.
Sempre stringendogli la mano, Marjorie indusse Tony, che era pallido come il latte, a volgersi a fronteggiarla, e lo scrutò con uno sguardo di avvertimento. Stella sudava, con una eccitazione febbrile negli occhi.
Raggelata in tutto il corpo, Marjorie si riscosse e si sforzò di parlare, perché non intendeva lasciarsi mettere a tacere da quelle, quelle creature, qualsiasi cosa fossero: — Scusate — esordì, abbastanza forte da rompere il silenzio e strappare la padrona di casa alla fascinazione che la soggiogava. — Le vostre cavalcature, hanno gli zoccoli? Non riesco a vedere, da qui.
— Tre — rispose Rowena, in un bisbiglio udibile a malapena. Poi alzò la voce: — Sì, ne hanno tre. Hanno tre zoccoli taglienti per ogni zampa, o meglio, tre dita, ciascuna dotata di uno zoccolo triangolare. Più in alto hanno anche due dita atrofiche.
— E i veltri?
— Anche i veltri, a parte il fatto che i loro zoccoli sono così morbidi che assomigliano più a cuscinetti. Per questo hanno il passo molto sicuro.
Ormai, quasi tutti i cacciatori erano montati.
— Venite — ripeté Rowena, sempre con voce priva di emozione. — L’aerostato vi aspetta. — E scivolò innanzi ai visitatori come se fosse su un carrello perfettamente silenzioso, con l’ampia gonna che fluttuava sul pavimento lucido come un pallone inconsolabile, in procinto di scoppiare di dolore. Non guardò gli ospiti, né pronunciò i loro nomi: sembrava che non li avesse mai veduti, e che continuasse a non vederli. Era interamente concentrata su una visione intenore d’intimo orrore, così vivida, che Marjorie riusciva quasi a percepirla. Quando fu presso l’aerostato, Rowena se ne andò fluttuando, per rientrare nella villa.
Presso l’aeromobile attendeva Eric bon Haunser: — Mio fratello partecipa alla Caccia — spiegò. — Dato che io non posso più cavalcare, mi sono offerto di accompagnarvi. Forse potrò rispondere alle vostre domande. — Camminando goffamente con le gambe artificiali, si appressò all’ingresso dell’aerostato, poi, con un cenno, invitò Marjorie a montare a bordo per prima.
Mosso da eliche silenziose, l’aerostato decollò senza rumore e seguì i cacciatori per lunghe miglia, mentre i veltri percorrevano un tragitto ancor più lungo e tortuoso. Dall’alto, gli animali sembravano soltanto macchie scure sull’erba, pulsanti ad ogni balzo. Le cavalcature si distinguevano dai veltri soltanto a causa dei cavalieri, i quali parevano a loro volta mere escrescenze, come porri sulle macchie che si dilatavano e si contraevano nella corsa. I cacciatori scomparvero in un boschetto e ricomparvero poco dopo, diretti a un altro boschetto. Coll’andar del tempo, gli Yrarier persero il senso di quello a cui stavano assistendo: avevano l’impressione di osservare formiche, o pesci nella corrente, o acqua che scorreva, o vento che soffiava. Non vi era nulla di individuale nel movimento delle bestie: soltanto i puntini rossi tradivano la partecipazione umana alla corsa. Se non fosse stato per questi punti rossi, sarebbe parso che gli animali fossero soli nella loro ricerca. Benché le erbe ondeggiassero di quando in quando dinanzi ai cacciatori, gli osservatori non riuscirono a scorgere la preda.
Nel tentativo di valutare la velocità degli Hippae, Marjorie pensò che non fossero rapidi come i cavalli, almeno su quella distanza, anche se forse i cavalli non sarebbero riusciti ad aprirsi un varco tra le erbe alte e folte con uguale facilità. Per un po’, cercò di stabilire se i cavalli fossero in grado di battere gli Hippae in corsa, concludendo che forse vi sarebbero riusciti in piano, ma non certo in salita; poi si chiese per quale ragione stesse pensando una cosa del genere.
Finalmente, l’aerostato si librò sopra l’ultimo boschetto. Le fronde tremarono quando la volpe comparve su una piattaforma di rami, lanciando al cielo un grido di sfida che sovrastò il tenue ronzio delle eliche. Poi si vide una esplosione di pellicce o scaglie, zanne o artigli, un gran scrollar di fronde, una impressione di ferocia, una presenza enorme e indomabile.
— La volpe — bisbigliò Anthony, con voce rotta. — La volpe! Quella creatura dev’esser grossa almeno come mezza dozzina di tigri! — Tacque, sentendo la madre che gli stringeva la mano, tuttavia pensò: Dove non ha zanne, ha ossa! Mio Dio. La volpe! Signore Misericordioso! Non vorranno mica che insegua a cavallo quella creatura? Ebbene, non lo farò! Qualunque cosa vogliano, semplicemente rifiuterò!
Cavalcare, pensò Stella. Certo che potrei cavalcare come fanno loro! Un cavallo non è niente, a paragone: proprio niente. Chissà se me lo permetteranno?
Cavalcare, pensò Marjorie, in uno spasmo di ripugnanza. Quello che stanno facendo non è cavalcare. Ebbe un fremito di disgusto, di orrore. Non sapeva che cosa stesse facendo quella gente là sotto, ma qualsiasi cosa fosse, non era certo cavalcare: non era equitazione. E se ci volessero far partecipare alla Caccia? pensò. O far partecipare almeno uno di noi? Suppongo che abbiano i loro istruttori. Ma dovremo proprio farlo, per ottenere il loro rispetto?
Cavalcare, pensò Rigo. Cavalcare una creatura del genere! Se non lo farò, penseranno che non sono un uomo, e per via del loro egotismo tribale, cercheranno di impedirmelo. Ci trattano come semplici turisti, non come diplomatici. Be’, non lo sopporterò! Dannata Santità, e maledetto zio Carlos, e dannato Sender O’Neil! Maledetto! Maledetto!
— In tutto Grass vanno pazzi per i cavalli — garantì Sender O’Neil. — Vanno pazzi per i cavalli e tengono molto alla distinzione di classe. Il Prelato, vostro zio, ha suggerito di affidare a voi la missione. Voi e la vostra famiglia siete senza dubbio le persone più adatte.
— Le persone più adatte per cosa? — chiese Rigo. — E perché diavolo dovremmo lasciarci coinvolgere? - La supplica del vecchio zio Carlos non lo aveva certo reso più cortese, anche se lo aveva lievemente incuriosito.
— Le persone più adatte ad essere accettate dagli aristocratici di Grass. Quanto al motivo per cui dovreste accettare. — O’Neil si leccò di nuovo le labbra, nervosamente, accingendosi a nominare qualcosa che secondo la Santità non esisteva e non si doveva neppure menzionare: — La peste - sussurrò.
Roderigo rimase in silenzio, furioso, ma non sorpreso, perché, se non altro, l’accolito lo aveva preparato a quell’argomento.
Sender scosse la testa e gesticolò, come per respingere l’ira che promanava da Rigo: - Lo so, lo so. La Santità non ammette l’esistenza della peste. Tuttavia abbiamo le nostre buone ragioni per tacere. Persino il Prelato, vostro zio, è d’accordo. Tutte le società umane crollerebbero non appena se ne ammettesse l’esistenza e si cominciasse a discuterne.
— Non potete esserne certi!
— Lo dicono gli elaboratori. Tutti i modelli di computer esistenti hanno fornito la medesima risposta. Non esiste nessuna speranza, nessuna cura: nessuna speranza di trovare una cura, nessun mezzo di prevenzione. Abbiamo isolato il virus, ma non abbiamo scoperto alcun modo per indurre il nostro sistema immunitario a produrre anticorpi. Non sappiamo neppure quale sia l’origine della peste. Non possiamo far nulla. Gli elaboratori ci avvertono che se lo rivelassimo alla gente. Be’, sarebbe la fine.
— La fine della Santità? E perché dovrebbe interessarmi?
— Non della Santità, ma della civiltà! La fine dell’umanità stessa! La mortalità è del cento per cento! Moriranno la vostra famiglia e la mia: tutti noi moriremo. Non si tratta soltanto della Santità, dunque, bensì della fine della razza umana. Riguarda tanto voi quanto me!
Sconvolto dalla consapevolezza suscitata in lui con tanta veemenza, Rigo domandò: — Cosa vi fa credere che sia possibile trovare una risposta su Grass?
— Forse si tratta di una diceria, o di una favola, o soltanto dell’ostinarsi a creder vero quello che si desidera. Forse è semplicemente qualcosa di simile alle mitiche città d’oro, o all’unicorno, o alla pietra filosofale.
— Oppure?
— Potrebbe anche essere una realtà. Secondo i funzionati del nostro tempio a Semling, la peste non esiste affatto su Grass.
— Non esiste neppure qua sulla Terra!
— Oh, Signore! Se soltanto fosse vero! Non esiste, nel senso che non è concesso a nessuno di vederne gli effetti. Io, però, ho visto. — O’Neil si passò di nuovo una mano sul viso, gli occhi improvvisamente colmi di lacrime, le mascelle serrate come a trattenere la bile che minacciava di soffocarlo. - Io ho visto. La peste colpisce uomini e animali. È ovunque. Posso mostrarvela, se volete.
Ma Roderigo aveva già veduto la peste. Non sapeva che si fosse già diffusa sulla Terra, né che contagiasse anche gli animali, ma ne aveva visto gli effetti. Perciò respinse l’offerta con un gesto e si concentrò sull’argomento: — Dite dunque che non esiste su Grass? Può darsi che la sua esistenza sia soltanto nascosta, come la nascondete voi della Santità, qua sulla Terra.
— Non riteniamo che ciò sia possibile. A quanto pare, l’organizzazione sociale grassiana non consentirebbe di nasconderne l’esistenza, è un pianeta davvero molto strano. Ma se lassù la peste non esiste?
— Le vostre parole implicano che Grass è l’unico pianeta dove la peste non esiste. State dunque dicendo che essa esiste in tutto il resto dell’universo?
Pallido e sudato, Sender annuì, prima di sussurrare: - Abbiamo almeno un tempio su quasi tutti i mondi colonizzati, mentre nei pochi pianeti dove non abbiamo un tempio, abbiamo almeno una missione. E poiché ci siamo assunti la responsabilità di celare quello che sta accadendo… Sì, sappiamo che la peste è diffusa ovunque.
Rigo arrossì di furore e di sdegno: - E allora, per l’amor del cielo, perché non avete inviato subito scienziati e medici su Grass? Perché vi siete rivolti a me?
— Gli aristocratici che lo governano, rifiutano agli scienziati e ai medici il permesso di visitare il pianeta. Senza dubbio potremmo mandare i nostri emissari nella città dell’astroporto, che è chiamata Città Plebea ed è aperta agli stranieri. Però anche là non esiste nulla di simile all’immigrazione: ogni visitatore riceve un permesso di soggiorno valido esclusivamente fino alla partenza della successiva cosmonave che faccia al caso suo. Abbiamo già tentato varie volte questo sistema, ma i nostri emissari non hanno scoperto nulla, là nell’astroporto. E credete forse che abbiano potuto visitare a piacimento altre regioni di Grass? Per nulla al mondo! La Santità non ha alcun potere su quel pianeta.
Sinceramente incredulo, Rigo fissò O’Neil: - Davvero non avete nessuna missione là?
— La Santità è in contatto con Grass solo mediante la comunità di penitenti che esegue scavi archeologici alle rovine degli Arbai. Quando un accolito fallisce, non possiamo semplicemente rimandarlo a casa, perché sarebbe controproducente: insegnerebbe ad altri ragazzi negligenti come lui il modo per evitar di servire la Santità. Dunque lo mandiamo su Grass, presso i Frati Verdi, così chiamati a causa del colore delle loro tonache, i quali si stabilirono sul pianeta prim’ancora che fosse colonizzato dagli antenati degli attuali Grassiani. I nostri penitenti sono più di un migliaio, ma non hanno quasi nessun rapporto con gli aristocratici, anche se il Prelato, più di un secolo fa, ordinò loro di sviluppare qualche attività che potesse avvicinarli ai Grassiani.
— Insomma - ringhiò Rigo — avete cercato di trasformare i penitenti in un branco di dannati missionari!
O’Neil si passò una mano sulla fronte: — Oh, non nego che ciò piacerebbe molto al direttore del Dipartimento della Dottrina Accettabile, Jhamless Zoe. È più infuriato di un toro perché non convertiamo il pianeta alla Santità, magari con l’uso della forza, e quando il Prelato lo invita a calmarsi oppure a ritornare sulla terra, s’infuria maggiormente. — Di nuovo, Sender si terse la fronte luccicante di sudore.
— Cos’hanno fatto, i frati, per instaurare rapporti con gli aristocratici?
— Si sono dedicati al giardinaggio. — O’Neil emise un’aspra risata. - Giardinaggio! Ne sono diventati autentici specialisti. Sono così famosi, per tale attività, che neanche Jhamless ha osato porvi fine. Ma neppure il giardinaggio ha consentito loro di integrarsi nella società grassiana abbastanza da raccogliere informazioni utili. E i dannati aristocratici non ci consentono di recarci sul pianeta!
— Ma avete provato a spiegare?
— Abbiamo tentato di far capire la gravità della situazione ai Grassiani, ma sembra che non se ne curino affatto, visto che non sono afflitti dalla peste. Sono isolazionisti da sempre, più interessati a mantenere i loro privilegi, che a qualsiasi problema umano. Appartengono alla bassa nobiltà, o forse la loro nobiltà è una mera pretesa. Sono in gran parte di origine europea, ridicolmente fieri del loro sangue blu, e terribilmente presuntuosi. Ecco perché hanno sempre rifiutato di accettare un tempio o una missione su Grass. Dopo dieci generazioni su quel pianeta, sono diventati ancor più chiusi in loro stessi, e più strani. Sono irremovibili! Rifiutano di essere studiati, rifiutano di essere convertiti, rifiutano persino di accogliere visitatori! Tranne, forse, qualcuno come voi.
— La Santità possiede una flotta da guerra — dichiarò Rigo. Personalmente, non ne era affatto contento, perché sapeva che ogni governo planetario si occupava soltanto del proprio mondo e si beava del proprio isolamento, lasciando che la Santità dominasse incontrastata in tutto il cosmo. Dopo il primo periodo della colonizzazione dell’universo, la Santità aveva deciso che, per rispettare la fede, non si poteva permettere all’umanità di diffondersi tanto da non poter essere più convertita né controllata; perciò aveva posto fine alle esplorazioni, bloccando anche lo sviluppo della scienza, delle arti, delle invenzioni. Di conseguenza, la sua tecnologia militare era ormai obsoleta; tuttavia essa possedeva l’unica flotta interstellare esistente.
Sender O’Neil fece un sospiro profondo: — Abbiamo valutato anche questa possibilità. Se inviassimo truppe su Grass, non potremmo mantenerne segreto il motivo a lungo, perciò si scatenerebbe un autentico inferno. Non possiamo neppure prendere in considerazione una simile ipotesi, senza prima esser certi che ne valga la pena. Vi prego, qualunque cosa pensiate di noi, riconosceteci almeno un po’ d’intelligenza! Mediante ì computer, i nostri migliori tecnici hanno esaminato ripetutamele tutte le possibilità e tutte le probabilità: sia se si sapesse che la peste esiste davvero, sia se ricorressimo alla forza, le conseguenze sarebbero apocalittiche! A vete mai sentito parlare degli Ammuffiti?
— Sono una specie di setta che predica la fine del mondo, vero?
— Direi piuttosto che predicano la fine dell’universo. In sostanza, bramano l’estinzione dell’umanità e si fanno chiamare Martiri degli Ultimi Giorni. Credono che sia giunta l’epoca della fine dell’umanità, e che una esistenza nuova e migliore nell’aldilà inizierà soltanto quando questa sarà cessata, per tutti. Di recente abbiamo scoperto che gli Ammuffiti stanno «aiutando» la peste.
— Mio Dio!
— Sì. Il Dio di tutti!
— Diffondono la peste?
— Trasportano materiali infetti da un pianeta all’altro. Come gli antichi anarchici, distruggono la realtà presente per favorire l’avvento di un futuro migliore.
— Ma cosa c’entra questo con…
— C’entra per il fatto che tutte le risorse della Santità sono impegnate nel rintracciare ed eliminare gli Ammuffiti. Sembra che siano ovunque, generati dal nulla. Se sapessero che su Grass, forse, esiste una possibilità…
— Vi si recherebbero?
— Sono pronti ad intervenire per eliminare anche la più remota possibilità. Ecco perché qualunque nostra azione deve restare segreta: non dobbiamo attirare l’attenzione in alcun modo. Secondo i computer, abbiamo dai cinque ai sette anni di tempo per agire. Poi, la peste si sarà già tanto diffusa che in ogni caso, i Grassiani hanno dichiarato che accoglieranno un ambasciatore.
— Capisco — rispose Rigo, sinceramente. I Grassiani intendevano soltanto prendere tempo, sia per indurre la Santità ad evitare il ricorso alla forza, sia per impedire che i suoi emissari turbassero troppo la vita del pianeta. - Avete detto che vanno pazzi per i cavalli? - chiese, cercando di dimenticare le immagini di rovina e distruzione che gli turbinavano nella mente. — Avete detto che sono fanatici della caccia al seguito? Dunque portarono cavalli, veltri e volpi dalla Terra, quando si stabilirono su Grass?
— No, però vi trovarono alcune corrispondenti varietà indigene. - O’Neil si leccò le grosse labbra, soddisfatto dalla definizione, e ripeté: — Sì, varietà indigene.
Varietà indigene! pensò Rigo, seduto nell’aerostato che si librava sopra un bosco di grandi alberi, su Grass, nello scorgere indistintamente la creatura chiamata «volpe». Quantunque sentisse la tensione del loro silenzio, non osservò la moglie e i figli. Continuò a guardare in basso, dimentico della necessità di nascondere i propri sentimenti, e ripeté, senza accorgersene, la definizione di O’Neil: — Varietà indigene. — Poi commentò, suo malgrado, intanto che Eric bon Haunser gli lanciava un’occhiata interrogativa: — Temo che quella sia del tutto diversa dalle volpi terrestri!
L’enorme creatura amorfa, che si dibatteva, fu strappata giù dall’albero, mentre bon Haunser descriveva quello che stava accadendo nel bosco sottostante, al riparo delle fronde, e lo faceva con franchezza, quasi sbrigativamente, badando ad ignorare la reazione dei visitatori alla vista della preda.
Durante il ritorno a Klive, Rigo si riprese abbastanza per osservare: — Sembrate molto distaccato a proposito di tutto questo. Vi chiedo perdono, ma vostro fratello mi è parso. Come posso dire? Imbarazzato? Sulla difensiva?
— Io non cavalco più — rispose Eric, arrossendo. — Le mie gambe. È stato un incidente di caccia. Coloro che non cavalcano — spiegò con titubanza, con diffidenza — o almeno alcuni, perdono in parte il loro entusiasmo. — Ma non chiarì affatto il motivo per cui i cacciatori erano così restii a parlare della loro attività.
A tale proposito, gli Yrarier avevano varie opinioni: durante il volo silenzioso sulle praterie, ognuno rifletté sulla propria, riacquistando poco a poco una calma precaria.
Tornati a Klive prima dei cacciatori, i visitatori furono accolti con scarsa cordialità da Rowena, la quale li condusse in una sala prospiciente la prima superficie, dove li presentò al rumoroso gruppo di donne incinte, bambini e vecchi, che erano radunati intorno ai tavoli a mangiare, bere, o giocare. Dopo aver esortato gli Yrarier a rifocillarsi liberamente al buffet imbandito, Rowena se ne andò. Invece, Eric bon Haunser rimase con loro. Poco dopo, il suono del corno provenne dal cancello occidentale e i cavalieri rientrarono: quasi tutti andarono subito a lavarsi e cambiarsi d’abito, ma alcuni entrarono nella sala, evidentemente affamati.
Eric mormorò: — Non hanno bevuto nulla per dodici ore prima della Caccia, tranne la bevanda offerta prima dell’arrivo dei veltri. Una volta iniziata la Caccia, infatti, non si può più evacuare.
— È un grave incomodo — commentò Marjorie, meditativa, immersa nel ricordo delle aguzze corna implacabili sui colli delle cavalcature. — Ne vale davvero la pena?
Eric scosse la testa: — Non sono un filosofo, lady Westriding. Se lo chiedeste a mio fratello, lui risponderebbe senz’altro di sì. Se lo chiedete a me, io posso rispondervi sì o no. In ogni caso, lui cavalca e io no.
— Io cavalco, ma rispondo no.
Marjorie si volse a colui che aveva parlato: un uomo alto, ampio di spalle, non molto più giovane di lei, abbigliato con calzoni sporchi e giacca rossa, il cappello da caccia sottobraccio, un bicchiere pieno in mano; e notò che le labbra gli tremavano, ma quasi impercettibilmente, talché era improbabile che altri se ne fossero accorti.
— Vi chiedo scusa, ma ho molta sete. — Ciò detto, il giovane bevve, trasmettendo il proprio tremito al bicchiere. Per qualche ignota ragione, era così emozionato che la sua pronuncia era confusa.
— Lo immagino — rispose Marjorie. — Ci siamo conosciuti stamane, vero? Avete un aspetto molto diverso nel vostro completo da caccia.
— Sono Sylvan bon Damfels — si presentò il giovane, con un lieve inchino. — Sì, ci siamo conosciuti stamane. Sono il figlio minore di Stavenger e Rowena bon Damfels.
Dall’altro lato della sala, dove si trovava col padre, Stella vide Sylvan parlare con Marjorie, e subito, mutando espressione, si avvicinò, con lo sguardo fisso al giovane. Seguirono altri inchini e mormoni di presentazione. Eric bon Haunser si allontanò, lasciando Marjorie e i figli con Sylvan.
— Un attimo fa — riprese Marjorie — avete dichiarato che non vale la pena cacciare, sebbene voi stesso partecipiate alla Caccia. Ho capito bene, vero?
— Esatto. — Sylvan arrossì, scoccando rapide occhiate tutt’attorno per accertarsi che nessuno ascoltasse, i muscoli del collo così tesi come se dovesse sforzarsi allo spasimo per parlare. — Lo dico a voi, lady, e a voi, signorina, e a voi, giovane signore, confidando che non riferirete le mie parole a nessun membro della mia famiglia, né a nessun altro bon. — E ansimò, per riprendere fiato.
— Ma certo. — Sebbene avesse riacquistato la calma, Anthony era ancora pallidissimo da quando aveva visto la volpe, o le volpi, come molti Grassiani chiamavano la belva, intendendo una o una dozzina. — Se lo desiderate, avete la nostra promessa.
— Ve lo dico, perché forse vi sarà chiesto di cavalcare, o meglio, sarete invitati alla Caccia. Ero convinto che fosse impossibile, prima di conoscere vostro marito, lady Westriding, ma adesso credo proprio che sia possibile, benché improbabile. Se succederà, vi raccomando di non accettare. — Sylvan li guardò negli occhi uno dopo l’altro, come per scrutare nelle profondità dell’anima di ciascuno, poi s’inchinò di nuovo e si allontanò, massaggiandosi la gola come se gli dolesse.
— Accidenti! — Stella scosse la testa, sdegnata.
— Già — rispose Marjorie. — Credo che sarebbe saggio, oltre che cortese, non ripetere quello che ha detto, Stella.
— Che affronto!
— Non credo che intendesse essere un affronto.
— Quelle loro cavalcature potranno spaventare te e lui, ma certo non spaventano me! Sarei perfettamente in grado di cavalcare una di quelle creature: non ho dubbi.
Squassata da un tremito fin nell’anima, Marjorie riuscì a stento a mantenere calma la voce: — So bene che potresti, Stella. Anch’io potrei. Suppongo che ognuno di noi potrebbe, dopo sufficiente addestramento. Il problema è: dovremmo farlo? Dovrebbe farlo, anche uno soltanto di noi? Abbiamo un amico, in questa sala, credo. Ebbene, questo amico ci ha appena raccomandato di non farlo.