125675.fb2 Pianeta di caccia - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 6

Pianeta di caccia - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 6

6

Le rovine arbai su Grass sono in gran parte simili a tutte le altre rovine arbai: enigmatiche, abbandonate in un’epoca che da un punto di vista archeologico è recente, e permeate da un mistero che si può percepire, ma non comprendere. Altrove, le città degli Arbai sono popolate dal vento, dalla polvere, e dalle ossa sparse dei loro costruttori. In queste città, sono stati rinvenuti così pochi resti arbai, che gli uomini si sono chiesti perché un popolo tanto poco numeroso abbia costruito città così estese. La curva e l’arco sono le forme dominanti nel disegno delle strade e delle case. Nessun veicolo è mai stato rinvenuto in nessuna città: intenti a compiere le loro misteriose attività, quali che esse fossero, gli Arbai camminavano o correvano.

Ogni città è dotata di una biblioteca, nonché di una misteriosa opera, collocata nella piazza principale, che viene considerata una scultura civile o religiosa. All’esterno di ogni città si trovano alcuni macchinari enigmatici, che da alcuni studiosi sono considerati forni crematori, da altri sono giudicati impianti per lo smaltimento dei rifiuti, e da altri ancora sono creduti invece impianti per il teletrasporto, giacché non sono mai state trovate cosmonavi arbai. Secondo una diversa ipotesi, i misteriosi macchinari erano in grado di svolgere tutte e tre queste funzioni. Se si trattasse di forni crematori, significherebbe che le salme degli abitanti delle città sono state arse, e ciò spiegherebbe perché le spoglie rinvenute sono così poche e così sparse. D’altronde, se si tratta di impianti per il teletrasporto, le popolazioni potrebbero essersene servite per trasferirsi altrove. Ma benché le dispute erudite si siano protratte per intere generazioni, gli archeologi e gli scienziati non concordano su nessuna di queste interpretazioni.

Nelle città arbai meglio conservate, sono stati ritrovati soltanto pochi scheletri completi, sempre singoli o a coppie, all’interno di stanze chiuse, come se gli Arbai rimasti dopo la partenza degli altri fossero troppo pochi per celebrare le esequie.

Su Grass, invece, la situazione è affatto diversa: le salme giacciono a centinaia nelle case, nelle strade, nella biblioteca e nella piazza. Dovunque scavino, i Frati Verdi trovano spoglie mummificate.

Per molti anni, le ricerche sono state compiute da govani tanto vigorosi, quanto poco interessati al remoto passato e alle razze aliene. Alcuni, tuttavia, sono rimasti affascinati dagli antichi resti, com’era inevitabile che avvenisse; perciò hanno volontariamente dedicato all’archeologia la loro vita, la loro intelligenza, e il loro sapere. Talvolta due o tre di questi fanatici frati archeologi si sono trovati a collaborare, ma attualmente soltanto uno sta studiando la civiltà degli Arbai.

Canuto, calvo e rugoso, frate Mainoa vive esiliato su Grass da quando era un miserabile giovane accolito della Santità, ed è invecchiato senza salire nella gerarchia, senza acquistare quegli onori che vengono riconosciuti ad alcuni membri del suo ordine. Al pari dei suoi predecessori, è un archeologo dilettante, innamorato della propria opera, che ha imparato a celare la propria passione sincera ai superiori. Fra le rovine vetuste, le strade, le case, la piazza, la biblioteca, non ha trovato nulla di utile, nulla che potrà mai comprendere davvero, però ha trovato la dimora del suo cuore. Da solo, ha riportato alla luce quasi metà delle salme arbai, dando un nome a tutte: con esse trascorre gran parte della sua esistenza, e fra esse ha trovato i suoi amici, anche se non si tratta dei suoi unici amici.

Talvolta, la sera, frate Mainoa lasciava le rovine per recarsi ad un vicino boschetto, dove sedeva su una radice sporgente a fumare la pipa, addossato al fusto dell’albero, parlando alle fronde. Anche quella sera, come al solito, sedette sulla solita radice, sospirando, e come al solito i reumatismi lo fecero soffrire. Talvolta, le ossa gli dolevano persino di mattina. E dormire su un pagliericcio, in un alloggio a malapena riscaldato, non contribuiva certo a migliorargli la salute, sebbene i reumatismi fossero meno spietati da quando aveva riparato il tetto.

Aspirò una boccata di fumo fragrante, espirò lentamente, poi, come fra sé e sé, parlò così: — Bisogna provare con l’erba purpurea: non il manto regale, bensì la varietà più chiara, quella con la lanugine azzurra, che cresce assieme all’erba cucchiaio. Bisogna provare con una proteina semplice mescolata in proporzione di due a uno: irrobustisce molto. Il profumo non è granché, ma funzionerà, funzionerà.

Dalle fronde sovrastanti giunse una sorta di possente brontolio che sembrava esprimere interessamento.

— Be’, naturalmente l’erba gialla è sempre la più usata. Prima che tornassi qua dal Monastero, il priore Laeroa mi ha detto che la migliorerà. Non so se crederci o meno, ma sarebbe proprio difficile, perché l’erba gialla è quasi perfetta di per sé, anche se purtroppo scarseggia. Al sole si usa quella arancione, alta, e all’ombra una varietà corta, come la verde piccola o l’azzurra media. Soltanto gli angeli sanno perché, ma è proprio così. Il priore Laeroa dice di essere tentato di piantarla a strisce per verificare l’effetto, ma credo che spiccherebbe troppo.

Di nuovo si udì il brontolio, questa volta in tono interrogativo.

— Certo che loro ci osservano — sospirò frate Mainoa. — Dovresti sentire i racconti dei giovani frati arrampicatori, che salgono lassù sulle torri e guizzano fra le nubi. Dovresti proprio sentirli. Vedono molti occhi, là, fra le erbe, fissi al monastero. Certo che loro ci osservano. Per questo è così difficile scoprire qualcosa.

Silenzio dalla cima dell’albero.

Frate Mainoa osò gettare un’occhiata verso l’alto, ma non vide altro che il cielo pallido attraverso le fronde, e una stella che brillava allo zenit, come un lustrino caduto dalla veste di un angelo sbadato. Un po’ più a sinistra, appena sopra l’orizzonte, alcuni ponti di fune tesi fra le torri del Monastero, erano circonfusi di luce dagli ultimi raggi del sole.

— Parli di nuovo da solo, fratello?

Nel riconoscere la voce e il tipico tono di rimprovero, frate Mainoa trasalì visibilmente: colui che stava immobile nel buio, sotto l’albero vicino, era il priore Noazee Fuasoi, vice direttore del Dipartimento della Sicurezza e della Dottrina Accettabile al Monastero. Ma cosa diavolo è venuto a fare, qua alle rovine? pensò. Quindi rispose sottovoce: — Stavo soltanto meditando fra me e me sull’antica cultura degli Arbai, priore. — E si alzò rispettosamente, chiedendosi: Chissà se mi ha seguito? E in questo caso, da quanto tempo mi ascolta?

— Mi sembrava piuttosto che parlassi di giardinaggio, fratello.

— Be’, sì. Per la verità, stavo riflettendo anche su questo argomento.

— Si tratta di una pessima abitudine, frate Mainoa, poiché perverte poco a poco il contegno austero che contraddistingue il nostro ordine. Se ti fossi sbarazzato di simili abitudini e ti fossi comportato come si conviene, saresti diventato già da molto tempo un funzionario al Monastero, con incarichi ben più degni di un monaco della tua età, anziché essere ancora a scavare tra queste rovine.

— Sì, priore — convenne frate Mainoa, remissivo, benché nutrisse una opinione tutt’altro che rispettosa dei funzionari del Monastero. — Cercherò di correggermi.

— Bada di farlo davvero, perché non vorrei essere costretto a denunciarti al priore generale, Jhamlees Zoe, il quale, come sai bene, non transige mai sulla fedeltà alla nostra dottrina.

Almeno questo è vero, pensò frate Mainoa. Jhamlees Zoe è arrivato così di recente, che il suo fanatismo non si è ancora placato. Poi sospirò: — Sì, priore.

— Sono venuto ad assegnarti un incarico: domattina andrai a ricevere un accolito ribelle proveniente dalla Santità. Frate Shoethai ed io ti abbiamo portato un velivolo dal Monastero.

Obbediente, frate Mainoa s’inchinò e tenne la bocca chiusa.

Dopo aver ruttato, il priore Fuasoi si massaggiò meditativamente lo stomaco: — Mi hanno riferito che il ragazzo ha dato in escandescenze in refettorio, proprio quando gli mancava soltanto un anno per terminare il servizio. Viaggia col suo nome di battesimo: Rillibee Chime. Trovagli un nome che si addica a un Frate Verde.

— Sì, priore.

— Preparati, perché la cosmonave arriverà nelle prime ore del mattino. E non parlare più da solo. — Per un po’, Fuasoi rimase a massaggiarsi lo stomaco, poi finalmente se ne andò.

Inchinandosi umilmente, frate Mainoa si augurò che la malattia allo stomaco uccidesse al più presto Fuasoi. Testa di merda, pensò. Tutti i membri del Dipartimento della Dottrina Accettabile sono teste di merda, incluso quel missionario fanatico del priore generale, Jhamlees Zoe: lo hanno mandato proprio qui, su Grass, dove non c’è nessuno da convertire, perciò adesso sta lentamente impazzendo. Se non avessero tutti quanti la testa imbottita di escrementi, si renderebbero conto di quello che succede veramente su questo pianeta. Qualunque persona dotata di buon senso se ne accorgerebbe.

Dalle fronde sovrastanti si udì di nuovo il brontolio, questa volta colmo di placido divertimento.

— Finirai col cacciarmi in un grosso guaio — sussurrò frate Mainoa. — Si può sapere perché sei così contento?

Le cento miglia quadrate che gli aristocratici chiamavano Città Plebea erano divise in due zone da una muraglia rocciosa, impervia e scoscesa, detta, con una sfumatura di ironia, Montagna Unica di Grass, o, più brevemente, Mug. Essa correva da oriente ad occidente, perdendosi ad entrambe le estremità nella impenetrabile foresta palustre, e separando i residenti dagli stranieri. Gli artigiani, gli agricoltori, i commercianti e le loro famiglie vivevano e lavoravano a settentrione della barriera naturale, nel quartiere chiamato il Comune, che costituiva la città vera e propria.

La zona a meridione della barriera, invece, comprendeva due quartieri e circa quaranta miglia quadrate di campi di fieno e di pascoli, che, dal pianoro del cosmodromo, scendevano ad oriente, a meridione e ad occidente, fino alla foresta palustre.

Il Quartiere Commerciale comprendeva l’astroporto e, ad est di quest’ultimo, i magazzini per le merci di importazione e di esportazione, i fienili dove era custodito il foraggio invernale per il bestiame del Comune, parecchi negozi e locali rispettabili gestiti da cittadini locali, l’Albergo dell’Astroporto, e l’ospedale.

Il quartiere chiamato Riva del Porto, situato ad ovest dell’astroporto medesimo, era costituito dai bordelli sempre affollati di Via Riva del Porto, che non chiudevano mai ed emanavano un puzzo indefinibile di droghe, sporcizia, e secrezioni assortite. Là, tra lo sfarzo pacchiano dei locali, i visitatori dovevano scavalcare corpi in continuazione, ma non se ne preoccupavano granché, né molti di quei corpi erano cadaveri: in parte appartenevano a persone gravemente ferite, in parte a persone più che mai vive e attive.

I quartieri dell’astroporto erano collegati al Comune mediante la Via della Montagna di Grass, che attraversava la Mug per un valico e la costeggiava da oriente, oltre la Capitaneria. E poiché talvolta gli equipaggi delle astronavi mercantili lasciavano Riva del Porto nel cuore della notte per concedersi il piacere straordinario di turbare il sonno della popolazione, capitava che i cancelli alti e solidi della Capitaneria fossero chiusi a bloccare il traffico, che di solito, però, non subiva alcuna restrizione.

All’astroporto, gli affari prosperavano molto più di quanto fosse giustificato dalla scarsa popolazione del pianeta. Infatti, Grass si trovava ad un bivio topologico, dove la sua collocazione nello spazio coincideva con un luogo accessibile dell’iperspazio. Isolati nelle loro estancia ed assorti in tutt’altre faccende, gli aristocratici non si erano mai resi conto dei vantaggi offerti dalla posizione del pianeta; quindi sarebbero rimasti assai sbalorditi nell’apprendere che le ricchezze di Grass non erano affatto concentrate nelle estancia, come loro credevano, bensì erano custodite nelle banche di altri pianeti e appartenevano ad una gran parte della popolazione cittadina.

Gli aristocratici erano convinti che la loro superiorità economica e sociale fosse reale e immutabile, perciò pochi di loro si recavano alla Città Plebea, e di rado, e soltanto per visitare gli uffici dei mercanti. Dal canto loro, gli abitanti del Comune erano da lungo tempo molto più pragmatici: coloro che si recavano nelle estancia badavano bene a tener la bocca chiusa sull’economia planetaria.

Così, il Quartiere Commerciale era diventato poco a poco, senza che gli aristocratici ne fossero consapevoli, se non superficialmente, uno dei principali centri del commercio interplanetario, e offriva alloggio temporaneo a un gran numero di viaggiatori.

Coloro che alloggiavano all’Albergo dell’Astroporto, in attesa di ripartire, si recavano al Comune in cerca di colore locale, ma non potevano far di più, per conoscere la realtà di Grass, che acquistare tessuti d’erbe, quadri d’erbe, e ceste di erbe multicolori a forma di uccelli o pesci fantastici. Gli aristocratici, infatti, avevano proibito di compiere voli turistici sulle praterie. Per un certo periodo, l’Albergo dell’Astroporto aveva organizzato visite guidate ai margini della foresta palustre, però aveva smesso dopo che un battello con a bordo parecchie persone influenti non era più ritornato. Era possibile visitare soltanto il Comune, perciò il traffico lungo Via della Montagna di Grass era continuo e i cittadini non erano affatto sorpresi nel vedere facce nuove.

Così, quando un giorno, di prima mattina, Ducky Johns arrivò alla Capitaneria insieme a una bella ragazza, l’ufficiale James Jellico pensò semplicemente che una cliente dell’Albergo dell’Astroporto fosse finita in dubbia compagnia. D’altra parte, Ducky Johns non era certo cattiva: lei e Santa Teresa erano proprietari dei due più grandi e lussuosi bordelli di Riva del Porto, e spesso si recavano al Comune in compagnia delle loro cuoche e governanti. Di solito Ducky era la prima ad offrire il proprio contributo alle cause giuste, tranne quando era preceduta da Santa Teresa. A causa della perfetta manutenzione, le sue macchine di rado ferivano qualcuno, e mai gravemente. Nessuno dei suoi ragazzi, delle sue ragazze, o dei suoi mutanti prodotti dall’ingegneria genetica, aveva mai tentato di uccidere qualche cliente.

— Cos’è quella, Ducky? — chiese Jellico. — Di’ al buon vecchio Gelatina cos’hai lì con te. — Era bruno, di mezza età, e aveva preso il soprannome dall’ingannevole strato di grasso che gli ricopriva il corpo muscoloso.

— Che mi venga un colpo se lo so! — Ducky scrollò le spalle in segno d’impotenza e il tremito della sua montagna di carne si trasmise alle pieghe dell’abito. — Me la sono trovata a casa, nella veranda posteriore, sotto il filo del bucato — spiegò in tono querulo, inarcando le sopracciglia luccicanti di lustrini e socchiudendo gli occhi dalle palpebre tatuate.

— Avresti dovuto riportarla all’albergo — ribatté Gelatina, scoccando una dura occhiata alla ragazza, che lo ricambiò con lo sguardo innocente dei suoi grandi occhi.

— Ho tentato — Ducky sospirò, imbronciata come una bimba, agitando una mano piccina, infantile, e i rotoli di grasso del polso adorno di braccialetti ingemmati. — Non sono mica stupida, Gelatina! Ho pensato anch’io che potesse essere sbarcata da un’astronave ed essere in attesa di ripartire, e che si fosse smarrita dopo aver lasciato il Quartiere Commerciale. Le ho chiesto il nome, ma non ha detto niente.

— Credi che sia pazza? O drogata?

— Nessun sintomo.

— Forse è una di quelle. Come sono chiamate? Ah, sì. Una di quelle pseudo-persone che vendono su Depravazione.

— Ho controllato, ma non è così. È stata un po’ usata, ma non nel modo in cui si usa lassù.

— Ebbene, cos’hanno detto all’albergo?

— Hanno picchiettato sulle loro piccole tastiere, hanno scrutato nei loro piccoli schermi, e mi hanno detto di portarla via, sostenendo che non appartiene a loro. Non ne possiedono di simili, e se ne posseggono, non ne hanno smarrita nessuna.

— Che io sia dannato!

— Proprio quello che ho detto anch’io. Non appartiene certo al Comune, vero?

— Suvvia, Ducky. Anche tu conosci tutti quanti così bene come li conosco io, e se chiunque di loro ingrassa di qualche chilo o insulta la cognata, lo vieni subito a sapere, proprio come me.

— In tal caso, Gelatina, sappiamo entrambi che resta una sola possibilità: le estancia, dove abita un sacco di gente che non conosciamo. Però è una faccenda che lascia davvero perplessi, vero, mio caro? Se fosse venuta da là, ce ne saremmo accorti.

Gli aeromobili che viaggiavano fra la Città Plebea e le estancia avevano il permesso di atterrare soltanto all’aerodromo nel centro della città, oppure all’astroporto, e ciò non poteva certo avvenire segretamente. Se dunque la bella creatura dagli occhi strani fosse apparsa in uno dei due porti, qualcuno l’avrebbe sicuramente notata.

— Che sia sbarcata da un’astronave? — azzardò Jellico.

— Anche tu conosci benissimo tutti quegli sciocchi regolamenti, caro Gelatina! In ogni astroporto, quando i passeggeri e l’equipaggio sono sbarcati, ogni cosmonave viene sottoposta a disinfezione e ad una completa revisione, quindi è da escludere che essa provenga da un’astronave vuota. Sappiamo inoltre che non appartiene all’albergo, né a me, né a Santa Teresa, né a nessun altro giù dalle nostre parti. Temo che sia un problema tuo, Gelatina, e soltanto tuo. — Così dicendo, Ducky Johns ridacchiò, e le pieghe dell’abito tremarono, mentre il suo corpo sembrava scosso da una convulsione parossistica.

Jellico scosse la testa: — Niente affatto, Ducky, vecchia mia! Te la dovrai portar dietro, quando le avrò preso un’immagine. Hai posto in abbondanza, nel tuo locale: puoi metterla in una stanza vuota e alimentarla un po’. A questo scopo, la cisterna di stasi non è certo il luogo adatto. Non ha bisogno di essere ibernata, bensì di essere curata: starà meglio da te.

— Quanta fiducia! — sorrise Ducky, con affettazione.

— Oh, sono sicuro che non la venderai! Se non può parlare, non può neanche pronunciare una rinuncia al consenso. E tu sai che verrò a vederla, la prossima volta che andrò a Riva del Porto per controllare i permessi di transito. E prima farò tutte le indagini del caso. Che dannata situazione!

Nell’approntare il riproduttore, Jellico continuò ad osservare la ragazza, la quale ricambiò il suo sguardo con la testa reclinata, mostrando soltanto un occhio da cui non traspariva intelligenza alcuna. Eppure, quando la sua immagine fu registrata, la creatura prese la mano che Ducky le offriva e sorrise, reclinando di nuovo la testa a gettare un’altra occhiata obliqua.

Con un tremito, Gelatina ebbe l’impressione di notare qualcosa di stranamente familiare in quello sguardo: qualcosa di non meno strano della misteriosa provenienza della ragazza, che senza dubbio non era arrivata attraversando la palude, né a bordo di un aeromobile o di un’astronave, e non apparteneva all’albergo. Cosa restava, dunque?

— Maledizione! — sussurrò Gelatina fra sé e sé, nell’osservare la vecchia Ducky che caricava la ragazza a bordo del suo motoveicolo a tre ruote, prima di partire per tornare a Riva del Porto. — Maledizione!

La mattina successiva alla caccia dai bon Damfels, Marjorie si alzò nel cuore della notte, dopo un sonno breve, turbato da sogni minacciosi in cui aveva riveduto gli Hippae. Si aggirò un poco per gli appartamenti invernali, recandosi infine nelle stanze dei figli, ad ascoltare il loro respiro.

Quasi come El Dia Octavo il giorno in cui le creature erano comparse sul crinale, Anthony emetteva brevi gemiti e tremava nel sonno. Seduta sul bordo del letto, Marjorie gli accarezzò le spalle e il petto, come avrebbe fatto con un cavallo, finché egli rimase immobile, libero dall’angoscia. Caro Tony, pensò. Piccolo Tony. Era il suo primogenito e lo amava moltissimo. Era così simile a lei che riusciva a leggerne infallibilmente ogni minima espressione, ogni minimo gesto o atteggiamento. Si preoccupava molto per lui e desiderava che non subisse mai delusioni, pur sapendo che ciò era impossibile, proprio perché egli le assomigliava tanto: come il giorno segue alla notte, così sarebbero arrivate le delusioni.

Nella stanza attigua, Stella dormiva profondamente, rosea nella luce fioca, le labbra appena dischiuse. La sua straordinaria somiglianza con Rigo diveniva ogni giorno più spiccata: era come una versione femminile del bel padre, e come lui era passionale, orgogliosa. Nel guardarla, Marjorie non la toccò, perché altrimenti si sarebbe svegliata, e avrebbe posto tante domande alle quali ella non avrebbe saputo rispondere, e avrebbe espresso tante esigenze che ella non avrebbe potuto soddisfare. È come Rigo, pensò. È proprio come Rigo. Al pari del padre, Stella pretendeva che il mondo intero la capisse, mentre lei stessa vanificava ogni sforzo di comprensione.

Fra sé e sé, Marjorie bisbigliò: — Eppure ho cercato di conoscere Rigo. — Era quasi una scusa, una sorta di vecchia litania che ella ripeteva spesso a se stessa. L’aveva detto di frequente anche a padre Sandoval prima che costui, tentando di rimediare a quello che sembrava irreparabile, le imponesse come penitenza una completa sottomissione ed ubbidienza. Così, Marjorie aveva finito col sentirsi intrappolata fra il sacerdote e il marito, al punto che non le era più stato possibile chiedere perdono. Quello che aveva raccontato a padre Sandoval era vero. Nel primo periodo del matrimonio, ella aveva talvolta atteso che Rigo fosse molto stanco, o persino addormentato, per poi avvolgersi a lui, premersi a lui, nel desiderio di sentirgli guizzare i muscoli, entrargli nella pelle, conoscere il suo corpo come ne conosceva il viso; e lui le aveva sempre risposto con sfrenata passione, fino a spossarla, fino a perderla. Conoscerlo sembrava impossibile: se Marjorie si allontanava da lui, era accusata di frigidità; ma se gli si avvicinava, ne era inghiottita, annientata.

— Ho cercato di dirglielo — sussurrò, sempre osservando Stella, che dormiva. — Ho cercato di dirlo a lui, proprio come ho cercato di dirlo a te. — E anche questo era vero. Aveva cercato di dire: — Abbracciami e basta, Rigo: gentilmente. Lasciami apprendere il ritmo del tuo sangue, del tuo respiro. — Oppure: — Stai tranquilla un momento, Stella. Parliamo, semplicemente. Conosciamoci l’un l’altra.

Rammentava perfettamente la volta che, da bambina, si era sdraiata nella paglia dello stallaggio a premere il ventre contro un puledro, mentre la giumenta li accarezzava entrambi col muso, nitrendo piano, fino a quando tutti e tre avevano avuto il medesimo odore di fieno e di paglia. Allora Marjorie aveva sentito guizzare i muscoli del puledro sulle ossa, e il sangue scorrere nelle vene, così che in seguito, quando il cavallo era diventato adulto e avevano gareggiato insieme, lei ormai lo capiva: aveva compreso il suo spirito. Allo stesso modo aveva desiderato e tentato di conoscere Rigo, il quale, però, non l’aveva sempre ostacolata.

Come il padre, Stella era sempre molto passionale, provava sempre emozioni e sentimenti all’apice dell’intensità, e pretendeva, pretendeva, pretendeva sempre, senza mai essere cordiale o gentile in cambio, senza mai manifestare semplice affetto. Mai si scambiavano abbracci, mai condividevano piccoli scherzi: fra madre e figlia non vi era pace, mai. D’altronde, Stella non condivideva molte cose neppure col padre. Se mai era capace di affetto, lo riservava esclusivamente per la sua grande amica, la venerata Elaine.

Sentendosi palpitare il cuore, Marjorie sorrise di se stessa, pur con una certa riluttanza: era troppo adulta per provare una tale gelosia. Il suo struggimento non si manifestava tanto con le palpitazioni del cuore, quanto con la morsa di amore impotente che le serrava dolorosamente lo stomaco: un amore che non poteva manifestare, perché mostrare amore a Stella sarebbe stato come offrire carne a un cane selvatico: la ragazza lo avrebbe afferrato, lo avrebbe sbranato sino all’osso, lo avrebbe inghiottito famelicamente. Manifestare amore a Stella significava esporsi ad un’aggressione.

— In realtà non mi ami affatto! Quando ero piccola, mi promettesti un viaggio a Westriding, e invece non ci sono mai andata! — Così aveva detto Stella, a sedici anni, rammemorando un torto di almeno otto anni prima.

— Ti ho detto mille volte, Stella, che il nonno era malato. Era troppo malato per avere compagnia: non molto tempo dopo, morì.

— Me lo promettesti, ma poi decidesti, senza consultare nessuno, che non dovevamo partire. Prometti sempre e non mantieni mai. E adesso vuoi trascinarmi in quel luogo terribile! Mi obblighi ad abbandonare i miei amici senza neanche chiedermi se lo desidero! Perché non siamo una vera famiglia? Vorrei essere sorella di Elaine! I Brouer non si comportano così!

In seguito, Marjorie aveva detto a Rigo: — Se mi parla ancora dei Brouer, la strangolo.

— Sono amici — aveva risposto Rigo, gettandole una curiosa occhiata. — Sono i suoi migliori amici. Perché te ne risenti?

— Non me ne risento affatto. Però non mi piace per niente che i Brouer mi siano costantamente additati come ideale di perfezione.

— Tutti i ragazzi pensano che le altre famiglie siano perfette.

— Io non l’ho mai pensato.

— Sì, però tu sei strana.

— Certo che sono strana — mormorò Marjorie fra sé e sé, sempre osservando la figlia addormentata, e chiedendosi per quale ragione i Brouer ne avessero suscitato l’ammirazione. Erano una vera famiglia? Ma cosa intendeva Stella per «famiglia»?

— Vorrei che i Brouer fossero la mia famiglia — aveva detto Stella dozzine di volte, con ostinazione, senza fornire alcuna spiegazione, ben sapendo di arrecare dolore, anzi, volendolo. — Fanno sempre le cose insieme. Sì, vorrei roprio avere una famiglia così!

— Be’, Stella, su Grass avremo la possibilità di essere una famiglia così. Non avremo nessuno attorno. — Così aveva risposto Marjorie, quantunque sapesse che la figlia non voleva mai fare quello che facevano gli altri, e sapendo inoltre che l’isolamento non l’avrebbe affatto cambiata.

A denti stretti, Stella aveva minacciato rabbiosamente di non accompagnare i genitori su Grass.

Nelle ultime settimane che avevano preceduto la partenza, Marjorie aveva creduto che la figlia avrebbe finito col dirle: — Mamma, voglio restare qua, nella Santità, con i Brouer. Ne sarebbero contenti, sai? — E aveva pensato di risponderle: — Benissimo, Stella. Neanch’io voglio partire, e neppure tuo padre. A me sembra ingiusto abbandonare i poveri di Santa Maddalena, e Rigo non vuole rinunciare ai suoi club, i suoi comitati, e le sue notti in città, a braccetto con Eugenie. Partiamo soltanto perché dobbiamo farlo, per salvare l’umanità intera. D’altronde, non c’è nessuna vera ragione per cui debba partire anche tu, Stella. Perciò rimani pure qua a morire di peste, insieme a Elaine e a tutta la sua famiglia perfetta. Non me ne importa più un accidente di niente! — Poi si era pentita della propria ira, e l’aveva confessata, pur senza accennare ad alcuni altri peccati ben più gravi, e aveva ricevuto l’assoluzione. Tuttavia aveva continuato a provare collera.

Su Grass, Marjorie nutriva ancora la medesima ira, e ancora se ne pentiva, e ancora la confessava, e ancora non sapeva come comportarsi con Stella, che lì, su quel pianeta sconosciuto, era sempre tetra e scontrosa, ribelle e gelida, come a casa, sulla Terra.

— Perché, padre? — aveva domandato Marjorie. — Perché Stella è così? Perché Rigo è così?

— Sai bene perché lo sono tutti. — aveva risposto padre Sandoval, in tono gentile come sempre, iniziando una delle sue dotte e inflessibili prediche.

— Il peccato — aveva interrotto Marjorie. — Il peccato originale. So cosa insegna la chiesa: un peccato commesso da persone vissute migliaia di anni fa ricade su di me, tramite le mie cellule, il mio DNA, fondendosi in qualche modo ad esse, al mio cuore, ai miei polmoni, al mio cervello, e contagiando anche mia figlia.

Il prete aveva rizzato la testa: — Marjorie! Non ti ho mai insegnato che il peccato originale si trasmette mediante le cellule!

— E come potrebbe trasmettersi, altrimenti? Di cosa si tratta, in realtà? L’anima è unita al corpo, vero, padre? E il peccato deriva dal sesso, vero? Non sono soltanto le nostre anime ad andare a letto insieme, vero?

Secondo la dottrina della Santità, la risposta sarebbe stata sì: le anime andavano a letto insieme, e i matrimoni duravano in eterno, soprattutto in cielo. Tuttavia gli antichi cattolici non credevano a tutto ciò. Grazie a Dio, aveva pensato Marjorie. Quando sarò morta, almeno questo avrà fine. Ed era scoppiata a piangere, sentendo che in qualche modo era tutta colpa sua.

Allora padre Sandoval si era limitato a batterle gentilmente una spalla, incapace di confortarla, incapace o riluttante ad attenuare il suo senso di colpa. Nulla aveva potuto mitigare tale senso di colpa: neppure il lavoro che aveva svolto a Santa Maddalena, che avrebbe dovuto costituire una sorta di espiazione.

Chiudendo silenziosamente la porta alle proprie spalle, Marjorie lasciò la camera di Stella. Forse, quando fosse diventata adulta, o quando avesse raggiunto la mezza età, la figlia avrebbe potuto esserle amica. Si sarebbe sposata, la distanza e il tempo l’avrebbero separata dai genitori, avrebbe avuto figli. Forse, con il tempo, madre e figlia avrebbero potuto diventare amiche.

Per effetto di queste riflessioni, Marjorie impallidì e boccheggiò, colta da un dolore simile alla nausea. Forse il tempo non sarebbe bastato affinché ciò avvenisse, e l’incomprensione e l’infelicità si esaurissero. Forse Stella non aveva un futuro: non esisteva alcuna prova che Grass fosse immune dalla peste, bensì la supposizione, la speranza soltanto. E i ragazzi non potevano condividere neppure queste ultime, perché sarebbe stato troppo pericoloso informarli del vero scopo della missione. Questo era il parere della Santità, e Marjorie era perfettamente d’accordo, giacché era consapevole che Tony avrebbe potuto perdere il controllo di se stesso, e Stella avrebbe potuto ribellarsi. Entrambi avrebbero potuto parlare in modo tutt’altro che diplomatico a qualche aristocratico, proprio quando il fato dell’umanità dipendeva dalle loro parole. Ammesso che le notizie ricevute dalla Santità fossero veridiche. Purché fosse vero che la peste non esisteva su Grass.

In seguito, Marjorie rimase seduta immobile, raggelata, in attesa del nuovo giorno, pregando macchinalmente per calmarsi poco a poco.

Appena la luce rivelò distintamente la distesa di erbe, si recò alla stalla: aveva bisogno di toccare i cavalli, di fiutarli, di essere rassicurata dalla loro realtà familiare e dalla semplicità del loro affetto e della loro lealtà. Gli animali non respingevano il suo amore, anzi, ripagavano mille volte le minime attenzioni. Andando da uno stallaggio all’altro, Marjorie accarezzò e vezzeggiò i cavalli, offrì loro focaccine dolci che aveva conservato appositamente. Osservò per un poco Don Chisciotte, che scalpitava, nervoso, implorante, infine lo abbracciò, mormorando: — Il mio Don Chisciotte. Sei proprio un buon cavallo. Un cavallo meraviglioso. — E posò il volto sul muso d’ebano, sentendo il fiato caldo sull’orecchio. Così, per pochi istanti, dimenticò l’ostilità di Stella, e l’infedeltà di Rigo, e gli Hippae, e i veltri, e i mostri che la perseguitavano, ossia quelli chiamati volpi e quello chiamato peste.

— Vieni, usciamo nel prato.

Non era, quella, una mattina da addestramento, bensì una mattina riservata a lei stessa e a Don Chisciotte, per la comunione più intima di cui ella avesse mai avuto esperienza. Perciò Marjorie non sellò lo stallone: voleva essere a contatto col suo manto, per poterlo rassicurare con ogni muscolo e attingerne forza.

Allungata sul collo del cavallo, Marjorie scese per il sentiero sinuoso che, percorrendo un fossato e valicando un crinale, conduceva al prato nel catino.

Nell’avvicinarsi al crinale, lo stallone fu scosso da un tremito, ma in silenzio, senza neppure un nitrito di protesta, come se qualcosa, dal profondo del cuore colmo di amicizia per le persone, gli rivelasse che la sua unica possibilità di continuare a vivere consisteva nel non produrre alcun suono. Soltanto il respiro defluiva da esso, come se la vita lo abbandonasse. Poiché sentiva sempre il suo minimo movimento, Marjorie se ne accorse. Smontò agilmente, già sapendo quel che avrebbe visto dal crinale prima ancora di recarvisi. Si sentì la bile calda in gola e cominciò a tremare come se un freddo improvviso la stesse raggelando. Eppure doveva vedere: doveva sapere.

A un tocco di Marjorie sulle spalla, lo stallone si sdraiò com’era stato addestrato a fare, nonché volentieri, come se le zampe lo reggessero a stento. Per confortarlo, o per confortare se stessa, Marjorie lo accarezzò una volta; poi, carponi sulle membra tremanti, strisciò fino al crinale, a lato del sentiero, per poter osservare la prateria sottostante senza essere veduta.

Erano tre, proprio come quando Marjorie li aveva visti l’altra volta, dopo essersi recata al catino con Tony e Rigo. Erano tre Hippae: con noncuranza, quasi distrattamente, del tutto a loro agio, con grande esperienza, eseguirono i medesimi esercizi che Marjorie aveva compiuto con Octavo: passo, trotto, piccolo galoppo, e volteggio, attraverso il prato in lunghe diagonali. Poi si schierarono voltando le spalle a Marjorie, con i colli scintillanti, irti di corna minacciose come sciabole snudate. Infine si volsero a guardar su, verso il nascondiglio della donna, cogli occhi rossocupi e scintillanti nella luce dell’alba, in assoluto silenzio.

Per un istante, Marjorie pensò: Quegli Hippae si divertono a scimmiottarci. Si sono divertiti ad osservare gli esercizi che eseguivamo con i nostri piccoli animali di un altro pianeta. Tuttavia fu un pensiero fuggevole, a cui ella non poté restare aggrappata.

Gli Hippae sapevano che lei era lì ad osservarli: forse avevano volutamente compiuto i loro esercizi proprio subito dopo il suo arrivo, e non per divertimento. Non vi era alcun divertimento nei loro occhi rossi.

Anziché restare ad affrontarli, Marjorie fuggì come se temesse per la propria vita; ritornò dallo stallone che giaceva come ucciso; lo fece rialzare sulle zampe tremanti; montò; e, tutta allungata sul suo collo, scappò a Collina d’Opale, fra le persone, con un altro orrore aggiunto a quelli di cui aveva già avuto esperienza.

Negli occhi rossi degli Hippae aveva visto scherno, ma anche qualcosa di più profondo, e durevole, e inesorabile, ossia malignità.

Come spesso faceva, James Jellico tornò a casa per pranzare, sapendo che sua moglie, Jandra, avrebbe appreso con interesse quello che era accaduto durante la mattinata. Priva di gambe, Jandra poteva camminare agevolmente con gli eleganti arti artificiali che il marito le aveva procurato, corrompendo qualche funzionario all’astroporto e talvolta chiudendo un occhio quando era in servizio; tuttavia soffriva nell’usarli, e rifiutava ì trapianti anestetici perché, come lei stessa diceva spesso, non voleva che le fosse «manomessa la testa». Dunque preferiva usare la sedia a rotelle che aveva da quando era bambina, e non soltanto in casa, ma anche fuori, fra i pollai. Un terzo dei proventi della famiglia Jellico derivava infatti dall’allevamento delle oche e delle anatre terrestri, nonché degli uccelli szizz di Semling, e delle grasse, deliziose creature senz’ali originarie del pianeta Shafne, che Jandra chiamava «tozzini».

All’arrivo del marito, Jandra era intenta a distribuire erbe alle oche starnazzanti che si disputavano il cibo, e canticchiava fra sé e sé, com’era solita fare quando era contenta: — Salve, Gelatina — salutò. — Sai? Ho quasi deciso di ammazzare quella lì, per cena. È così tronfia che se lo merita!

Proprio in quel momento, l’oca indicata da Jandra riuscì a strappare un ciuffo d’erba ad una compagna, e lo inghiottì, reclinando la testa per gettare un’occhiata saccente a Gelatina. In quello sguardo gelido, scoccato con un solo occhio, e nel profilo della testa beccuta e del collo, Jellico vide qualcosa che sulle prime suscitò in lui una inquietante sensazione di déjà-vu, e poi un riconoscimento che lo colmò di orrore: — Quella ragazza mi ha guardato allo stesso modo — esclamò. E così fu costretto a spiegare la strana faccenda della ragazza trovata da Ducky Johns. — Poi mi ha guardato così, con la testa reclinata, come se potesse vedermi meglio con un occhio solo che con due: proprio come un animale.

— Un uccello — precisò Jandra.

— Non importa — ribatté Gelatina, paziente. — Si tratta comunque di una creatura priva di quella che si chiama «visione binoculare». Ebbene, tutti gli animali di questo genere fanno esattamente così: reclinano la testa per vedere meglio.

— Era una ragazza, Gelatina, ma da come ne parli sembra che fosse meno di un animale: una cosa.

— Suppongo che si tratti di abitudine. A Riva del Porto, le persone non si distinguono dalle pseudo-persone, quindi per me sono tutti uguali, ormai. — Così dicendo, Jellico prese di tasca l’immagine della ragazza e la inserì nel riproduttore per mostrarla alla moglie.

Sbalordita, Jandra scosse la testa. Il mondo e le sue meraviglie non finivano mai di stupirla: persino le cose più semplici la strabiliavano, anche se non rimaneva mai sconvolta da quelle orride. — Andrò da Ducky a vederla — annunciò, in un tono che non ammetteva repliche. Poi, scrutando meglio l’immagine, soggiunse: — Non è giusto che una creatura umana e indifesa sia abbandonata laggiù. Dimmi, Gelatina. C’era forse qualcosa che non andava negli occhi della ragazza?

— Non ho notato proprio nulla che non andasse, in essa, o meglio, in lei. Era bella, formosa, con i capelli finissimi. Il viso, però, be’, guarda tu stessa.

— Cosa intendi dire, Gelatina?

— Voglio dire semplicemente che il suo viso è vacuo — rispose Jellico, dopo aver riflettuto brevemente, fissando l’immagine. — Sembra davvero vacuo, ecco tutto.