125675.fb2 Pianeta di caccia - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 7

Pianeta di caccia - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 7

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Ad oriente di Collina d’Opale era situato uno dei numerosi antri degli Hippae che avrebbero potuto essere scoperti su Grass, se qualcuno avesse osato cercare. Gli alti steli dell’erba cinabro, che ricadevano come tende aleggianti, ombreggiavano gli stretti accessi dell’antro vuoto e buio, che si addentrava nelle viscere della collina. La volta era sorretta da colonne di sassi, recuperati dallo scavo della grotta stessa e cementati con un impasto di escrementi di migerer e terra.

Creature simili a talpe, sterratori per eccellenza, i migerer erano dotati di meraviglioso talento: costruivano gli antri degli Hippae, li ripulivano periodicamente, e scavavano per loro stessi grotte simili, più piccole, ma collegate le une alle altre da miglia e miglia di tortuosi cunicoli.

In quel momento era in corso la ripulitura: alcuni migerer uscivano dall’ingresso più settentrionale per attraversare in fretta i prati di erba cinabro, di erba fucsia, e di corta erba viola, coi villosi marsupi delle cosce colmi di sterro appena prelevato dal suolo dell’antro, dove altri, guardando attorno con occhi miopi, quasi nascosti nella pelliccia color indaco, e scambiando pigolii flautati, scavavano alacremente con gli artigli anteriori e spianavano la terra coi duri cuscinetti delle zampe posteriori.

Ad un tratto, un Hippae entrò nella caverna e la percorse su e giù varie volte, scalpitando, scuotendo in segno di approvazione la testa mostruosa con dissonante cozzar di corna, e mugghiando alla volta rocciosa, con le zanne parzialmente snudate in una sorta di ghigno.

Come se non si fossero accorti dell’Hippae, o comunque incuranti di esso al punto da passargli fra le zampe scalpitanti, i migerer continuarono a spianare, scavare, riempirsi i marsupi villosi, e guizzar fuori nella prateria a scaricare lo sterro. Soltanto al termine della loro opera, vale a dire quando ebbero esercitato tutta la loro capacità istintiva nello spianamento del suolo dell’antro, sedettero a rassettarsi i ventri rotondi, a pulirsi le piccole zampe robuste e a lisciarsi le vibrisse coi ricurvi artigli d’avorio, battendo le palpebre nella luce fioca. Poi, quando si udì un fischio lamentoso recato dal vento, simile al richiamo di un uccello in lieve pericolo, essi scomparvero fra le erbe senza lasciar traccia.

Intanto, nell’antro echeggiante, l’Hippae continuò l’ispezione dell’opera appena compiuta, talvolta mugghiando, in lento andirivieni, solitario, maestoso e compiaciuto.

Annunciatosi con un grido tonante, un altro Hippae varcò l’ingresso per cominciare a percorrere l’antro a sua volta, seguito quindi da un terzo, da un quarto, e da molti altri. Così, trenta e più mostri in fila tracciarono un disegno complicato, sinuoso, e lo ripercorsero per imprimerlo nel terreno, mentre gli zoccoli ricalcavano ripetutamente le stesse tracce con la precisione dei magli degli artigiani.

Non molto lontano, nel villaggio di Collina d’Opale, Dulia Mechanic si rigirò nel letto con inquietudine, parzialmente destata dal vibrare del terreno: — Cosa succede? — mormorò, assonnata.

— Gli Hippae stanno danzando — rispose il suo giovane marito, Sebastian Mechanic, il quale era perfettamente sveglio perché ascoltava il ritmico tuonare da oltre un’ora. — Stanno danzando — ripeté, non sapendo se credervi o meno, nonché assorto in tutt’altre riflessioni.

— Come puoi esserne sicuro? — chiese Dulia, in tono lamentoso, sempre assonnata. — Lo dicono tutti, ma tu come puoi saperlo per certo?

— Qualcuno li ha visti — rispose Sebastian. Com’è possibile che sia riuscito a vederli? pensò per la prima volta. Io preferirei affrontare una morte certa, piuttosto che strisciare fra le erbe alte a spiare gli Hippae. Poi sussurrò: — Qualcuno li ha visti, molto tempo fa. — E riprese a meditare sull’argomento che lo interessava ormai da tempo, ossia gli stranieri che soggiornavano a Collina d’Opale.

Nella notte, intanto, nell’antro da cui proveniva il tuono che vibrava nel terreno, gli Hippae giunsero al culmine della loro danza, che poi, d’improvviso, cessò.

Com’erano entrati, soli oppure a coppie, così i mostri uscirono dall’antro, lasciando impresso nel suolo un disegno complicato e preciso come un arazzo, il cui significato avrebbe potuto anche essere espresso mediante una lunga sequenza di gesti, contrazioni, o movimenti quasi impercettibili, se l’antico linguaggio somatico hippae fosse servito allo scopo. Tuttavia non era così. Ecco perché gli Hippae avevano tracciato nel terreno un ideogramma, che apparteneva ad una lingua da essi appresa in un lontano passato, da un’altra razza, e rappresentava un concetto preciso, inesorabile.

Nelle stalle di Collina d’Opale, i cavalli erano desti e ascoltavano, come avevano ascoltato per molte notti, per quasi tutte le notti, da quando erano giunti su Grass. Millefiori nitrì a Don Chisciotte, il quale a sua volta nitrì a Ragazza Irlandese, mentre il tremito sussurrante percorreva e ripercorreva gli stallaggi come un susseguirsi di frangenti e risacche: Qui, ognuno sembrava dire. Ancora qui. Nulla, ancora.

Eppure si trattava di qualcosa di cui ormai erano ben consapevoli. Era come un’ombra spaventosa, o un ponte che non si desiderava percorrere. Era una di quelle minacce che la maggior parte dei cavallerizzi di solito non comprendeva. Soltanto lei comprendeva: sempre. In presenza di una simile minaccia, non insisteva mai: assolutamente mai. E in cambio, ogni cavallo le donava la propria totale fiducia. Quando era lei a condurli verso quelle barriere oltre le quali non si poteva vedere, e che dunque nascondevano l’ignoto, ognuno saltava, sicuro che con lei sarebbe andato tutto bene. Come sapevano che si trattava di fiducia, così sapevano che lei non avrebbe tradito nessuno di essi.

Il loro pensiero non era verbale, ma era piuttosto una comprensione diretta della realtà: le ricompense, le minacce. La creatura sul crinale, quel giorno, e il rumore che vibrava nella notte tentando di insinuarsi nelle orecchie e nelle teste per assumere un controllo assoluto: queste erano minacce.

Eppure nella notte vi era qualcos’altro, che non si poteva identificare né come minaccia né come ricompensa. Era qualcosa che combatteva il rumore orrido, respingeva i pensieri insinuanti, eppure non si avvicinava, non offriva fieno, non accarezzava il collo. Semplicemente era là, come una muraglia di respiro: una cosa affatto incomprensibile.

E così, i cavalli continuavano a scambiarsi nitriti da un capo all’altro della stalla: Qui. Sempre qui. Tutto bene. Nulla. Ancora nulla.

Come aveva promesso, Jandra Jellico si recò a Riva del Porto, sempre in sedia a rotelle, per far visita a Ducky Johns. Aveva già avuto occasione di conoscere Ducky e la trovava simpatica, benché ne disapprovasse il mestiere. Senza dubbio il piacere era piacere, fin dalla notte dei tempi, e la gente lo desiderava; tuttavia, alcuni dei modi in cui ci si procurava piacere non erano affatto di buon gusto, secondo l’opinione di Jandra.

Comunque, Jandra badò bene ad evitare questo argomento, quando fu nel salotto privato di Ducky Johns, a sorseggiare tè. Seduta sul tappeto, la ragazza mormorava fra sé e sé, e quando aveva prurito, si sollevava la gonna e si grattava in qualsiasi punto, così priva di inibizioni come una gatta che si leccasse ovunque fosse necessario.

— Santo cielo — commentò Jandra. — Non puoi proprio tenerla qui, Ducky.

— Davvero? Credi forse che lo abbia voluto io? — Ducky s’imbronciò, gesticolando con le mani piccine per manifestare la propria innocente irritazione. — è stato Gelatina, il tuo Gelatina, ad obbligarmi a ricondurla qui. Ti assicuro, cara, che mi è assolutamente inutile. Non posso venderla, perché chi mai la vorrebbe? Ha bisogno di essere addestrata, per poter servire a qualcosa.

— Fa i suoi bisogni? — volle sapere Jandra.

— A parte mangiare, non fa altro, ma li fa. Come il mio cagnolino, uggiola quando deve farli.

— Hai tentato?

— Non ho tentato proprio niente, perché non ne ho avuto il tempo: il lavoro mi tiene continuamente impegnata. Non ho neanche il tempo per respirare: figuriamoci per queste sciocchezze! — Di nuovo Ducky gesticolò, prima di incrociare ostinatamente le manine in grembo. — Dimmi che te la porti via, Jandra: dillo. Con chiunque altro, il tuo Gelatina si opporrebbe.

— Ma certo che me la porto via — rispose Jandra. — O meglio, la manderò a prendere. Però è davvero la cosa più strana che mi sia mai capitata. Da dove mai sarà venuta?

— Piacerebbe a noi tutti saperlo, vero, mia cara? Ma come lo si può scoprire?

Quello stesso pomeriggio, Jandra mandò a prendere la ragazza. In seguito, per alcuni giorni, trascorse gran parte del proprio tempo ad insegnarle a tener giù la gonna, e a mangiare con le dita anziché affondare il viso nel cibo, e ad andare a fare i suoi bisogni senza prima uggiolare. Fatto questo, chiamò Kinny Few al dimmi per invitarla a casa. Entrambe sedettero a sorseggiare tè e a mangiare molto educatamente i biscotti preparati da Kinny, osservando intanto la ragazza che giocava con la palla sul pavimento.

— Pensavo che tu sapessi chi è — confessò Jandra. — O chi era. Senza dubbio non è stata sempre così.

Dopo aver meditato profondamente, Kinny giunse alla conclusione che il modo in cui la ragazza reclinava la testa le rammentava qualcuno, benché non fosse in grado di precisare chi. Comunque non si trattava di nessuno del Comune, questo era certo: — Dev’essere arrivata con un’astronave — disse infine, pur già sapendo che ciò non era possibile. — È così per forza.

— Anch’io non riesco a trovare nessun’altra spiegazione — convenne Jandra. — Però Gelatina dice che non è proprio possibile. Resta il fatto che era là, nella veranda posteriore di Ducky Johns: ecco tutto. È proprio come se ci fosse nata: non ha più memoria di un uovo.

— Cosa intendi farne?

Jandra scrollò le spalle: — Credo che cercherò di trovarle una casa, e presto, anche. Gelatina sta perdendo la pazienza, ad averla sempre intorno.

In realtà, non era certo la sua pazienza ad essere minacciata. Quantunque fosse devotamente innamorato di Jandra, e fosse perfettamente d’accordo con lei sulla fedeltà coniugale, Jellico stava sviluppando preoccupanti desideri a causa della vicinanza della ragazza, che era così bella, e così priva di inibizioni come un animale semi-selvaggio: — Ancora una settimana — aveva ingiunto a Jandra, giudicando di essere in grado di controllarsi almeno per tale periodo. — Ti concedo ancora una settimana.

Deciso ad invitare gli aristocratici ad un ricevimento diplomatico, Rigo era incoraggiato a questo proposito da Eugenie, la quale era stanca della compagnia di coloro che soggiornavano a Collina d’Opale, ma non poteva recarsi da nessuna parte perché il suo status non lo consentiva. Per la medesima ragione, non poteva neppure assistere alla Caccia. Dopo la battuta che si era svolta nella tenuta dei bon Damfels, gli Yrarier avevano presenziato ad altre tre Cacce, due volte da soli e una volta accompagnati da padre Sandoval e padre James. Poi, come si era espresso Tony, ne avevano avuto abbastanza: accontentandosi di sapere che tutte le battute erano uguali, avevano declinato i successivi inviti, e così avevano confermato il pregiudizio dei bon nei loro confronti.

Comunque, Rigo dovette occuparsi nel frattempo di altri problemi: una parte degli arredi per gli appartamenti estivi arrivò con Roald Few, il quale promise che tutto il resto sarebbe giunto entro due settimane: — Tendaggi, tappeti, mobili, proiettori d’immagini parietali, e così via. Tutti arredi molto eleganti, della migliore qualità.

— Rigo vuole organizzare un ricevimento per i bon — dichiarò Marjorie.

— Hmmph — sbuffò Persun Pollut.

— Suvvia, Pers — rimproverò Roald. — L’ambasciatore non è al corrente. Dovete sapere, lady Westriding, che durante la stagione di Caccia è possibile invitare soltanto le persone meno importanti, vale a dire quelle che non cavalcano al seguito dei veltri. Gli altri, i cacciatori, non prenderebbero neppure in considerazione l’invito.

— Vale a dire che accetterebbe Eric bon Haunser, ma non l’obermun?

— Esatto. Fra i bon Damfels, accetterebbe soltanto Figor. La obermum non va da nessuna parte, senza l’obermun. Semplicemente, non usa. Tutto il resto della famiglia, ossia quello che ne rimane, partecipa alla Caccia.

Memore del fatto che Roald era stato sempre sincero e leale nei suoi confronti, Marjorie lo scrutò e decise che non mentiva: — Mi occorrono informazioni — disse infine, con voce molto calma.

Roald rispose sottovoce, in tono confidenziale: — Sono a vostra completa disposizione, lady Westriding.

— Al nostro arrivo, i bon Damfels erano in lutto.

— Sì, certo.

— Avevano perduto una figlia, durante un incidente di caccia. Anche Eric bon Haunser perse le gambe in un incidente di caccia, o almeno, così mi ha detto. Quando mi sono guardata intorno, dopo la prima Caccia, ho veduto in pochi momenti più protesi bioniche di quante ne vedrei sulla Terra durante un anno intero. Ebbene, mi piacerebbe comprendere meglio questo genere di incidenti.

— Ah. — Roald strascicò i piedi. — Be’.

— Capitano vari tipi di incidenti — intervenne Persun, in un tono calmo e neutro da conferenziere. — Si può cadere, si può restare trafitti, si può offendere un veltro, e si può scomparire. — Pronunciò quest’ultima parola quasi in un sussurro.

Roald annuì in segno di assenso: — Questo è quello che ne capiamo noi, lady. I servi delle estancia sono nostri parenti: vedono, sentono, e ci riferiscono. E noi, quando è necessario, sommiamo due più due per ottenere quarantaquattro.

— Si può cadere? — chiese Marjorie, ben sapendo che raramente le conseguenze delle frequenti cadute di sella dei cavallerizzi erano fatali.

— Si può cadere, e finire calpestati. Se un cavaliere cade nell’erba, viene calpestato finché non ne resta nulla. Capite?

Nauseata, Marjorie annuì.

— Dato che avete assistito alla Caccia, senza dubbio vi rendete ben conto di come si possa restare trafitti. Sorprendentemente, ciò non accade spesso. Allo scopo di imparare a star lontani da quelle corna affilate, i giovani si allenano per lungo tempo a cavalcare al simulatore. Nonostante questo, capita di quando in quando che qualcuno svenga, o che una cavalcatura si fermi tanto bruscamente da proiettare innanzi il cavaliere.

Marjorie si passò una mano sulla bocca, sentendo sapore di bile.

— Se un cacciatore offende un veltro, di solito gli viene strappato a morsi un braccio, o una gamba, o una mano, oppure un piede o tutti e due, quando smonta alla fine della Caccia.

— Se offende un veltro? Cosa significa?

— Non dovete chiederlo a noi, lady — rispose Persun. — Non esistono veltri, nel Comune. In città i veltri non possono entrare, e quanto a noi. Be’, nessuno che abbia un po’ di buon senso si allontana troppo nelle praterie, dove è probabile incontrare i veltri. Finché si resta nei pressi dei villaggi va tutto bene: veltri non ce ne sono. Ma se ci si allontana. Quelli che osano farlo, non tornano mai. In realtà, noi non sappiamo che cosa sia offensivo per un veltro e, a quanto pare, non lo sanno neanche i bon.

— E quanto alla scomparsa?

— Non c’è molto da dire: qualcuno parte per la Caccia, e non torna. Anche la cavalcatura scompare. Di solito, questo capita ai giovani cavalieri, soprattutto alle ragazze. È raro che capiti ai ragazzi.

— Si tratta di qualcuno che rimane in coda al gruppo, vero? — chiese Marjorie, in improvvisa comprensione. — Così gli altri non se ne accorgono, vero?

— Sì.

— Cos’è accaduto alla figlia dei bon Damfels?

— La stessa cosa che successe l’autunno scorso a Janetta bon Maukerden, la ragazza di cui Shevlok bon Damfels era tanto innamorato: entrambe scomparvero. Lo so perché la moglie di mio fratello Canon ha una cugina, Salla, che è cameriera dai bon Damfels e ha praticamente allevato Dimity da quando era bimba. Ebbene, l’autunno scorso Dimity ebbe l’impressione che un veltro la osservasse, e lo riferì a Rowena. Durante la caccia successiva, accadde la stessa cosa. Rowena ne parlò con Stavenger e impedì alla ragazza di partecipare alle battute successive di quella stagione. Questa primavera, Stavenger obbligò la figlia a cavalcare di nuovo. Era la prima Caccia di primavera! E la ragazza, puf, scomparve.

— Dimity, avete detto? Quanti anni aveva?

— Diamante bon Damfels, la figlia minore di Stavenger e Rowena. Credo che avesse circa diciassette anni, secondo il calendario terrestre.

— I bon Damfels hanno avuto cinque figli?

— Ne hanno avuti sette, lady. Due li persero in giovane età: furono calpestati, credo. Purtroppo non ne rammento i nomi. Adesso restano soltanto Amethyste ed Emeraude, Shevlok e Sylvan.

— Sylvan. — Marjorie rammentava bene di averlo conosciuto in occasione della prima Caccia alla quale aveva assistito: Sylvan aveva dimostrato di essere molto diverso dagli altri cacciatori. — Anche lui non accetterebbe il nostro invito perché partecipa alla Caccia, vero?

Roald annuì.

— Però c’è sempre l’intervallo. — mormorò Persun.

— L’avevo dimenticato! — ammise Roald, con una sfumatura d’irritazione — Ormai ho quasi dieci anni grassiani, eppure ho dimenticato l’intervallo!

— L’intervallo?

— Ogni primavera esiste un periodo nel corso del quale le cavalcature e i veltri scompaiono. A quanto mi risulta, nessuno sa dove vadano. Forse è la stagione dell’accoppiamento, o del parto, o qualcosa del genere. Talvolta la gente sente abbaiare e ululare molto a lungo. È un periodo che dura una settimana o poco più.

— Quando? — chiese Marjorie.

— Quando succede. In effetti, non c’è una data esatta: talvolta un po’ prima, talaltra un po’ dopo, ma sempre in primavera.

— E nessuno, qua sul pianeta, può prevedere tale periodo?

— Qua nelle praterie possono tutti, lady. Nel Comune ce ne disinteressiamo completamente, ma qui, sì, lo sanno tutti. Se non altro perché il primo giorno si preparano alla Caccia, ma le cavalcature e i veltri non arrivano. Ecco perché lo sanno.

— Dunque, se mandassimo un invito formulato in modo adatto. Mmmm. Per esempio: «Siete invitati, nella terza sera dell’intervallo.»

— Non è mai accaduto. — bisbigliò Persun.

— E con questo? Chi ha stabilito che non sia possibile? — ribatté Roald. — Se il vostro buon marito è proprio deciso, lady, vale la pena tentare. Altrimenti non resta che attendere l’estate, e la sospensione della Caccia. Allora potrete organizzare il vostro ricevimento fra un ballo estivo e l’altro.

Poiché non intendeva affatto aspettare fino all’estate, Rigo rispose alla moglie: — Sarebbe più di un anno e mezzo, secondo il calendario terrestre. Non possiamo attendere, Marjorie: dobbiamo cominciare ad ottenere informazioni dai bon. Prepareremo tutto, e appena la villa sarà in condizioni decenti, manderemo gli inviti. Senza dubbio bon Haunser mi avvertirà, se questa iniziativa è contraria alle usanze locali.

Gli inviti furono trasmessi per dimmi, e sorprendentemente, almeno per Marjorie, furono accettati di buon grado. Afflitta da una forma grave di «panico da debutto», Marjorie si recò, per tranquillizzarsi, nei freddi appartamenti estivi, ormai trasformati dalle nuove tinte alle pareti, nonché da ogni genere di abbellimento: mazzi di fiori originari di altri pianeti, coltivati nella serra del villaggio, che era stata restaurata per ordine di Rigo; fragranti composizioni floreali di gigli terrestri, semele di Semling, ed erba argento, che si riflettevano all’infinito negli specchi; copie di preziose opere d’arte appartenenti agli Yrarier, ricavate dalle oloregistrazioni che Marjorie aveva portato dalla Terra, appese alle pareti o collocate su piedistalli sparsi fra i mobili costosi.

— È proprio una bella tavola, questa — commentò Marjorie, accarezzando il legno dalle sfumature blu, liscio come raso.

— Grazie, lady — rispose Persun. — Lo ha fabbricato mio padre.

— Dove si procura il legno, vostro padre? Qua su Grass?

— In gran parte lo importa, giacché persino i bon desiderano qualche novità, di tanto in tanto, nonostante il grande valore che attribuiscono alla tradizione. Tuttavia, per i mobili che fabbrica per noi, mio padre taglia direttamente il legno dalla foresta palustre, dove crescono alcuni tipi di alberi molto belli, come ad esempio quello da cui si ricava il legno di questa tavola, che noi chiamiamo «tesoro blu», o come l’«albero cangiante», così detto perché il suo legno cambia colore a seconda della luce, dal verdechiaro al blu cupo.

— Non sapevo che ci si potesse addentrare nella foresta palustre.

— Nessuno vi si addentra. La foresta è ampia cento miglia, e questi alberi crescono ai margini. Comunque, non ne abbattiamo molti. A proposito, per i pannelli del vostro studio, sto appunto utilizzando il legno di alcuni alberi originari del pianeta. — Persun aveva trascorso molte ore a disegnare e ridisegnare i pannelli, poiché desiderava molto che piacessero a lady Westriding.

— Davvero? — chiese Marjorie, in tono meditativo. Proprio in quel momento, vedendo la snella Eugenie passeggiare avanti e indietro sul terrazzo, con inquietudine, a testa china come un fiore appassito e triste come una bimba trascurata, accarezzò il proprio libro di preghiere e rammentò certe virtù: — Volete scusarmi un momento, Persun?

In silenzio, Pollut s’inchinò, e mentre lady Westriding si allontanava, la seguì timidamente con lo sguardo.

— Salve, Eugenie — salutò Marjorie, gentilmente, ma con imbarazzo. — Ci siamo viste molto poco dopo l’arrivo su Grass. — Sulle Terra non si erano mai frequentate, ma quello era un mondo così diverso, che tutti i paragoni erano odiosi.

Eugenie arrossì: — Non dovrei essere qui. — Rigo le aveva ordinato di stare alla larga dalla villa. — Pensavo che l’artigiano potesse darmi un passaggio in città, ecco tutto.

— Ti occorre qualcosa?

Di nuovo, Eugenie arrossì: — No, non mi serve niente. Pensavo soltanto di trascorrere una giornata a visitare i negozi, e magari pernottare all’Albergo dell’Astroporto, e assistere a qualche spettacolo.

— Questo soggiorno dev’essere noioso, per te.

— Maledettamente noioso! — sbottò Eugenie, senza riflettere. Ma subito arrossì ancor più di prima, imbarazzatissima, mentre gli occhi le si colmavano di lacrime.

A sua volta, Marjorie arrossì: — Sono stata priva di tatto, Eugenie. Ascolta. So che non sei tipo da cavalli o animali del genere, ma perché non t’informi se al Comune si possono acquistare animali da compagnia?

— Animali da compagnia?

— Non so cosa possano avere. Cani, forse, o gatti, o uccelli di qualche genere, magari esotici. Con animaletti di questo genere ci si può divertire e passare il tempo.

— Ah, di tempo ne ho in abbondanza — ringhiò Eugenie, quasi rabbiosamente.

— Be’, Rigo è stato molto occupato. — Marjorie lasciò vagare lo sguardo sulla zona dei giardini d’erba, chiamata Panorama Evanescente, che era costituita da una serie di alture: ogni altura nascondeva parzialmente la successiva, e il colore dell’erba digradava dall’una all’altra, finché l’ultima pareva fondersi al cielo e l’orizzonte risultava pressoché indiscernibile. Divertita, ella pensò che in maniera molto simile la sua animosità nei confronti di Eugenie era poco a poco sbiadita, sino a trasformarsi in una tolleranza vaga che era quasi indistinguibile da una parziale, riluttante accettazione. — Presto daremo il nostro primo ricevimento ufficiale — riprese. — Forse avrai occasione di conoscere un po’ di gente. — E così la sua voce si spense di nuovo, come l’erba dell’ultima altura scolorava all’orizzonte. Ma con chi potrebbe mai fare amicizia? pensò. I ragazzi la disprezzano, i servi hanno per lei scarsa considerazione, e senza dubbio i bon la eviteranno. O no? In tono meditativo, aggiunse: — In particolare, vorrei che tu conoscessi alcune persone: un certo Eric bon Haunser, e Shevlok, il figlio maggiore dei bon Damfels.

— Stai cercando di sbarazzarti di me? — domandò Eugenie, con rancore fanciullesco. — Se così non fosse, perché vorresti farmi conoscere altri uomini?

— Desidero soltanto procurarti un po’ di compagnia — replicò Marjorie, con calma. — Voglio, anzi, che ognuna di noi ne abbia. Naturalmente dobbiamo mantenere un contegno irreprensibile, ma, se saremo affascinanti, tu, Stella, e magari anch’io, forse qualche uomo comincerà a frequentare la villa. Dopotutto, siamo qui con l’incarico di compiere una indagine.

— Non parlare come se io sapessi tutto, perché non so niente: Rigo non mi ha rivelato nulla!

— Oh, mia cara — rispose Marjorie, più sconvolta di quanto potesse ammettere, persino con se stessa. — Ma deve averlo fatto! Altrimenti perché saresti venuta?

Con gli occhi sgranati per la meraviglia, Eugenie si limitò a fissare colei che era moglie di Roderigo Yrarier e madre dei suoi figli, pensando: Possibile che sia all’oscuro di tutto? E dopo alcuni istanti rispose, quasi in un sussurro: — Perché lo amo. Io. Pensavo che tu lo sapessi.

— Be’, anch’io lo amo — rispose brevemente Marjorie, convinta che fosse così. — Ma nonostante questo non sarei mai venuta su Grass, se non avessi saputo perché.

Quantunque non apprezzasse granché il consiglio a proposito degli animali da compagnia, Eugenie lo accettò. Normalmente avrebbe ignorato per puro principio un suggerimento di Marjorie: difficilmente Rigo sarebbe stato contento se la sua amante avesse seguito un qualsiasi consiglio di sua moglie. Data la situazione, però, Eugenie non poteva permettersi di trascurare nulla, pur di alleviare la noia perenne che l’affliggeva. Sulla Terra si era sempre divertita a frequentare ristoranti e ricevimenti, a far compere, a chiacchierare di moda, a scherzare, a spettegolare. In più, come un filo d’oro nella trama di chiffon fluttuante della sua esistenza, aveva avuto Rigo. Anche se non le aveva mai dedicato molte ore, Rigo aveva provveduto a tutte le sue necessità, e inoltre le aveva spiegato che le donne come lei svolgevano un ruolo di particolare importanza, perché gli uomini come lui, che si occupavano di tante attività noiose ma prestigiose come quelle dei comitati e dei club, ne avevano bisogno per rilassarsi di quando in quando. E questo era in assoluto il più bel complimento che Eugenie avesse mai ricevuto: gli uomini erano sempre stati prodighi di lodi con lei, ma nessuno prima di Rigo le aveva mai detto che era importante.

Dunque Eugenie si trovava lì, su Grass, con Rigo. Tuttavia lo frequentava così poco che tanto sarebbe valso restare sulla Terra con qualche altro protettore. Invero, aveva considerato questa possibilità, e se avesse già avuto un altro uomo a disposizione, probabilmente avrebbe scelto di restare. Invece aveva deciso che fare i bagagli e sottoporsi ad ibernazione fosse più semplice che trovare un nuovo amante. Infatti non sarebbe stato tanto difficile trovarlo, quanto imparare a conoscerne le abitudini, i cibi, i profumi e i colori preferiti, nonché le caratteristiche sessuali: tutti gli uomini erano convinti di essere speciali e di saper compiere prodigi, a letto.

E poi restava il fatto che Eugenie amava Rigo. Quando lo aveva detto a Marjorie, non aveva certo mentito: probabilmente non aveva mai amato nessuno come amava Rigo, e senza dubbio non si era mai divertita con nessuno come con lui.

Su Grass, però, Rigo non era affatto divertente. E quando non era divertente, l’amore era soltanto noioso, monotono, doloroso. Il divertimento era necessario. A questo proposito, il consiglio sugli animali da compagnia era probabilmente il migliore che Eugenie potesse ricevere, benché offerto da Marjorie, la moglie di Rigo.

Così, Eugenie chiese un passaggio per la Città Plebea, e durante il viaggio fu molto divertita e compiaciuta dai complimenti che Roald Few e gli altri uomini le fecero.

Fu lo stesso Roald a suggerirle di recarsi da Jandra Jellico: — Se cercate un animaletto che vi tenga compagnia, per distrarvi un poco, Jandra può senz’altro fornirverlo, visto che possiede animali di ogni genere, oppure può indirizzarvi a chi ne è in grado. — Ciò detto, avvertì Eugenie che Jandra usava la sedia a rotelle, come se la giudicasse capace di comportarsi per questo in maniera poco gentile, con commenti od occhiate sconvenienti.

Dopo aver trascorso mezz’ora in sua compagnia, Jandra capì tutto di Eugenie, proprio come aveva fatto Roald, e provò un poco di commiserazione nei suoi confronti. Però al tempo stesso ringraziò gli spiriti benigni che gliela avevano inviata al momento giusto per risolvere il delicato problema che la affliggeva: — Ho proprio la creatura che fa per voi — disse. — L’ho avuta da Ducky Johns di Riva del Porto. Non era giusto che Ducky la tenesse laggiù, fra bordelli e gente dissoluta, così ho dovuto portarla qua con me e alloggiarla in una stanza libera.

Poi Jandra mostrò a Eugenie la creatura dalla lunga chioma, bella, flessuosa, con lo sguardo obliquo da oca, e pelle di ragazza, e profumo di ragazza, abbigliata con una veste graziosa che aveva imparato a non sollevare in modo scandaloso: — Io la chiamo Ragazza Oca — disse, senza spiegarne la ragione, perché Eugenie non era così acuta come il caro Gelatina, il quale aveva subito notato quello che era sfuggito agli altri, ossia lo sguardo da uccello, quasi vacuo, che pareva chiedere cosa mai vi fosse di temibile al mondo, ma come se il cervellino da uccello già sapesse che davvero esistevano cose terribili.

— È una ragazza — commentò Eugenie, con assoluta certezza. — Non è un animale. — La bella creatura era tanto femmina quanto lei, e circa della sua stessa taglia.

— Be’, a questo proposito vi sono varie opinioni, anche se io sarei incline a concordare con voi — rispose Jandra, stringendosi la punta del naso fra le dita, come faceva talvolta, quando meditava sugli aspetti etici di una questione. — Non conosce il suo nome e non sa vestirsi. è abituata a fare i suoi bisogni, ciò di cui sono davvero assai grata, quindi c’è almeno una cosa che la rende preferibile a un cucciolo. Oltretutto, io non ne ho nessuno, e non conosco nessuno che ne abbia, perciò i cuccioli sono fuori discussione. Se ne sta seduta per quasi tutto il giorno a spazzolarsi i capelli, e mangia di buon grado quasi tutto quello che le viene offerto: le ho persino insegnato un po’ a mangiare col cucchiaio. Talvolta brontola come se stesse per parlare, ma non spesso, badate bene, e ne resta sorpresa essa stessa, quando le succede. E poi è proprio una creaturina giocherellona: le piace giocare con la palla o con una pallina legata a una cordicella.

— Come un gattino — osservò Eugenie, tutta contenta. — Credete che me la lasceranno tenere?

Be’, in caso contrario sarà soltanto un problema vostro, non mio, pensò Jandra. Finora, invece, la Ragazza Oca è stata un mio problema, coi suoi bei capelli, il suo bel corpo, il suo dolce visino, e la testolina priva di pensieri. La sera prima, aveva scoperto Gelatina a guardar la ragazza — in modo tale che non sarebbe mai stato troppo presto per sbarazzarsene, a dispetto di qualsiasi etica. Nonostante questo, Jandra si sarebbe sentita non poco a disagio nell’affidare la Ragazza Oca come bestiola da compagnia a una persona diversa da Eugenie, come ad esempio lady Westriding, sul conto della quale Jandra, e così pure ogni cittadino che non fosse sordo, avevano saputo tutto da Roald Few. Ebbene, l’ambasciatrice avrebbe senza dubbio investigato e meditato sul conto della povera creatura, sino a renderle la vita miserevole. D’altronde, non si poteva neppure darla in uso ad un uomo, anche se Jandra avrebbe preferito questa soluzione estrema, anziché permettere a Gelatina di usarla.

Per fortuna, Eugenie era proprio la persona più adatta a prendere in custodia la ragazza. Non era una pervertita, perciò non avrebbe abusato della creatura, né sembrava incline ad interrogarsi sulle sue origini e sul modo in cui era giunta a Riva del Porto, per esser poi trovata sotto il filo da bucato di Ducky Johns. Semplicemente, l’avrebbe considerata come una bambola in tutto e per tutto simile ad una ragazza, capace persino di camminare, e quindi si sarebbe preoccupata soltanto di acconciarla, vestirla e giocarci.

Secondo Jandra Jellico, insomma, non si poteva far meglio per la Ragazza Oca, che affidarla a Eugenie. In ogni modo, tale soluzione era di gran lunga preferibile a quella che di recente aveva suscitato in lei una notevole apprensione.

Un dipendente di Roald Few riaccompagnò Eugenie e la sua nuova bestiola a Collina d’Opale, lasciandole dietro la prima altura di Panorama Evanescente, così che poterono recarsi entrambe alla casetta dell’amante di Rigo senza essere vedute. Eugenie aveva già una dozzina di progetti per la Ragazza Oca, uno dei quali consisteva nell’insegnarle a ballare; tuttavia il primo e il secondo della lista concernevano il confezionarle abiti strepitosi e sceglierle un nuovo nome, che fosse assolutamente delizioso.

Dopo aver bussato alla porta, Marjorie entrò nello studio di Rigo: — Sono in anticipo?

— Entra, entra — rispose Rigo, in un tono che tradiva la fatica. — Asmir non è ancora arrivato, ma lo aspetto da un momento all’altro. — Radunò alcuni documenti e li ripose in cassaforte, poi spense il dimmi: bande colorate ondeggiarono sullo schermo. — Anche tu sembri molto stanca — commentò.

Senza convinzione, Marjorie rise: — Sto benissimo. Però Stella ha una delle sue solite crisi di pianto. Qualche tempo fa ho chiesto a Persun di accompagnarla al villaggio, pensando che potesse trovare qualcuno con cui passare il tempo, ma c’è andata soltanto un paio di volte, poi ha rifiutato di tornarci. Dice che sono tutti quanti provinciali ignoranti.

— Be’, probabilmente è vero.

— Ad ogni modo — Marjorie s’interruppe, accorgendosi appena in tempo che le considerazioni che stava per fare sull’orgoglio avrebbero annoiato Rigo. — Tony la pensa diversamente, anzi, ha trovato compagnia al villaggio.

— Forse Stella conoscerà gente più congeniale al ricevimento.

Marjorie scosse la testa: — Nessuno della sua età vi prenderà parte.

— Eppure abbiamo invitato le famiglie al completo.

— Nessuno dell’età di Stella verrà al ricevimento — ripeté Marjorie. — Sembra quasi che gli aristocratici abbiano deciso d’impedirci di fraternizzare.

Irato, Rigo arrossì: — Dannati superbi bastardi. — La sua voce divenne un ringhio subito interrotto, giacché proprio in quel momento si udì bussare alla porta.

Un servo annunciò l’arrivo di Asmir Tanlig, il quale, da quando era stato assunto, aveva trascorso il suo tempo ad investigare sulle malattie diffuse su Grass: chi era deceduto, e per quale causa; chi soffriva, e per quale ragione; chi si era recato dai medici del Comune, e per quale motivo; e così via. Basso e tarchiato, col viso rotondo e imbronciato, si fermò meditativamente di fronte a Rigo e Marjorie: — Ambasciatore, Lady Westriding, — salutò. Poi si accinse a riferire l’esito delle proprie ricerche, sfogliando metodicamente alcuni documenti con le mani piccole: — A dir la verità, non ho scoperto granché. Fra i bon, le principali cause di mortalità sono il parto, gli incidenti di caccia, e i trapianti di fegato dovuti al loro eccessivo indulgere al bere. — Si passò un fazzoletto pulito sulle labbra e continuò in tono confidenziale, a voce bassa, curvandosi sulla scrivania di Rigo, dove la lampada creava una pozza di luce nella semioscurità: — Ho incaricato i miei parenti del Comune di raccogliere informazioni sulle persone scomparse.

— Sì — mormorò Marjorie — sappiamo che alcuni aristocratici sono scomparsi.

— Certo, signora. Ma se vi riferite alla Caccia, coloro che scompaiono sono quasi sempre giovani. L’ambasciatore mi ha detto.

— Lo so — interruppe di nuovo Marjorie, in un sussurro. — Volevo soltanto rammentarlo.

— Non lo dimenticheremo — intervenne Rigo. — Cosa mi dite di coloro che non sono aristocratici, Asmir?

— Oh, c’è un po’ di tutto, dagli incidenti alle allergie. A Riva del Porto c’è sempre qualcuno che finisce assassinato. Però non ho scoperto nessun caso strano o inspiegabile. Inoltre, nessuno è scomparso, tranne coloro che si sono addentrati nelle praterie o nella foresta palustre.

— Ah — commentò Rigo.

— Naturalmente questo è sempre successo, almeno a quanto posso ricordare — continuò Asmir, improvvisamente dubbioso. — La gente che entra nella foresta palustre non ne esce più, e la gente che si smarrisce nella prateria non torna più.

— Che tipo di gente? — chiese Marjorie. — Negli ultimi tempi, ad esempio.

— L’ultimo è stato uno straniero grande e grosso, un certo Bontigor, Hundry Bontigor. — Nel parlare, Asmir consultò i propri appunti, vergati in una calligrafia piccola e nitida, ordinando e riordinando i fogli. — Era un autentico spaccone, a detta di tutti. Per burla, qualcuno lo ha sfidato ad addentrarsi nella foresta e lui lo ha fatto. Come tutti coloro che lo hanno preceduto, non è più tornato. Aveva un permesso di soggiorno di una settimana e stava aspettando di ripartire con un’astronave. Nessuno ha sentito granché la sua mancanza.

— Non vi è stato qualche caso in cui si sia semplicemente presunto che la persona scomparsa si fosse addentrata nella foresta? — Marjorie si premette le dita fra il naso e la fronte, nel vano tentativo di scacciare una emicrania.

Ancora una volta, Asmir consultò i propri appunti: — Gli ultimi a scomparire, prima di Bontigor, sono stati alcuni fanciulli: nessuno li ha visti entrare nella foresta, se è questo che intendete dire. Quanto ai casi ancora precedenti, be’, una vecchia scomparve, e siccome nessuno riuscì a ritrovarla, si pensò…

— Ah — rispose Marjorie — ecco.

— E poi ci furono quella coppia del villaggio Maukerden e il carpentiere degli Smaerlok e qualcuno anche dai Laupmon.

— Smarriti nella prateria?

Asmir annuì: — Casi come questi, però, si sono sempre verificati.

— E quanti? — domandò Rigo. — Quanti ne avete registrati nell’ultima raccolta? Anzi, no, si tratterebbe dell’inverno. Consideriamo invece l’autunno scorso. Quante persone scomparvero nella foresta palustre o nella prateria, secondo le stime, l’autunno scorso?

— Circa cinquanta — rispose Asmir.

— Non molte — mormorò Marjorie. — Potrebbe davvero trattarsi di persone scomparse. Oppure potrebbe essere per qualche malattia.

Rigo sospirò: — Andate pure, Asmir. Continuate a raccogliere informazioni. In particolare, scoprite tutto il possibile sulle persone scomparse: identità, età, condizioni di salute prima della sparizione, e cose del genere. Sebastian vi sta aiutando?

— Certo, signore. Vi ho appena riferito anche le informazioni raccolte da lui.

— Benissimo. Continuate entrambi a darvi da fare.

— Se poteste dirmi…

— Vi ho già detto tutto quello che potevo quando vi ho assunto, Asmir.

— Pensavo, ehm, pensavo che allora non vi fidaste ancora di me.

— Avevo la massima fiducia in voi allora, e ho la massima fiducia in voi adesso — sorrise Rigo, con uno dei suoi rari, incantevoli sorrisi. — Come vi ho detto, la Santità mi ha affidato l’incarico di effettuare un censimento speciale che concerne la mortalità umana. Vi ho spiegato molte cose sulla Santità e sul suo tentativo di tramandare il ricordo di ogni membro della razza umana, affinché vi fosse possibile comprendere perché essa è tanto interessata alle cause di mortalità. Ma poiché gli aristocratici non consentono alla Santità di stabilire una missione su Grass, Marjorie ed io abbiamo accettato di scoprire tutto il possibile, e cerchiamo di operare con la massima discrezione per non offendere i bon. Vogliamo sapere soltanto se qui, su Grass, si sono verificati decessi inspiegabili.

— I decessi che avvengono nella foresta palustre non potranno mai essere spiegati — rispose Asmir, con fermezza. — E se qualche trapasso avviene durante la notte, nella prateria, allora la causa è da attribuire molto probabilmente alle volpi. Avete mai veduto le volpi?

Marjorie, che non aveva visto le volpi abbastanza da vicino per poterle descrivere, ma non intendeva affatto avvicinarle maggiormente, annuì.

— In tal caso, avete veduto più di me — replicò Asmir, abbandonandosi a un tono meno solenne. — Però ho visto le immagini.

— Se ho ben capito, quindi, voi non vi recate nelle praterie.

— Oh, no, signore! Per chi mi prendete? Be’, di giorno ci vado, sì, per un picnic o una passeggiata romantica, o per rimanere un poco in solitudine, però senza mai allontanarmi troppo. Ecco a cosa servono le mura dei villaggi e delle estancia: per tenerli fuori.

— Chi? — domandò gentilmente Marjorie.

Allora, con parole squillanti come note di campana, invocando la morte per ciascuna creatura elencata in tono di timor panico, Asmir enumerò: — Le rane, che strillano nel cuore della notte, e i grandi erbivori: veltri, Hippae, volpi. Tutti quanti.

— E nessuno, quindi, si addentra realmente nelle praterie?

— Si dice che i Frati Verdi lo facciano, o almeno alcuni di loro. Ma se è così, sono gli unici che l’osano, e non saprei proprio come ci riescano.

— I Frati Verdi — ripeté Rigo, meditabondo. — Ah, certo! I monaci penitenti della Santità, che stanno scavando alla città degli Arbai. Sender O’Neil me ne ha parlato. Come potremmo metterci in contatto con loro?

Abbigliato con una insolita tonaca verde, le lacrime che gli rigavano il volto privo di cipria, Rillibee Chime era accoccolato dietro a frate Mainoa nel piccolo aeromobile che filava sobbalzando verso settentrione: — Puoi dirmi dove stiamo andando? — chiese, benché non fosse certo che ciò gli importasse davvero. Gli sembrava di essere in un incubo: aveva la nausea e dubitava persino della propria identità, lui che aveva sempre lottato tanto duramente per conservarla.

— Alla città degli Arbai, dove sto scavando — rispose frate Mainoa, in tono tranquillizzante. — È a nord, non molto lontano. Resteremo là per un paio di giorni, in modo che tu possa riprenderti dal viaggio, poi ti condurrò al Monastero. Per la verità, dovrei condurtici subito, ma spiegherò di non averlo potuto fare perché ti sentivi male. Appena arriverai al Monastero, Jhamlees Zoe o gli arrampicatori ti saranno addosso, e io non potrò farci niente, perciò conviene che tu ti senta bene prima di recartici.

— Chi sono gli arrampicatori? — domandò Rillibee, non comprendendo dove mai ci si potesse arrampicare su quella sconfinata prateria pianeggiante.

— Lo scoprirai presto. Comunque, non potrei dirti molto, perché quando hanno cominciato a compiere le loro assurdità non ero più da molto tempo abbastanza giovane per prendervi parte. Ma sdraiati, e fra poco ti sentirai meglio. Appena il vento cala, inserisco il pilota automatico e ti preparo un po’ di brodo.

Prostrato, addolorato, Rillibee si afflosciò nell’aeromobile, abbandonandosi ad un pianto silenzioso, ma soffocando i singhiozzi. Da quando si era destato dalla ibernazione, aveva incubi, orride sensazioni, una fame insaziabile.

— Cos’hai fatto per essere inviato fra noi? — chiese frate Mainoa. — Hai rubato un angelo della Santità per venderlo al Papa?

Vagamente divertito, Rillibee si soffiò il naso e riuscì a rispondere: — No, niente di tanto grave.

— E allora cosa?

— Ho posto alcune domande. — Dopo breve riflessione, Rillibee aggiunse: — Anzi, le ho gridate, in refettorio.

— Che genere di domande?

— A cosa potrà mai servire avere tutti i nostri nomi registrati negli elaboratori quando saremo tutti morti? Ammesso che la peste non ci stermini tutti quanti, come potremo mai ottenere l’immortalità dalla perenne recitazione dei nostri nomi nelle cappelle vuote della Santità? Ecco, feci domande di questo genere. — Di nuovo Rillibee singhiozzò, nel rammentare l’orrore, la confusione, la propria incapacità di controllarsi.

— Ah — brontolando, frate Mainoa premette vari pulsanti che non sembravano affatto intenzionati a rimanere premuti. — Luride dannate macchine inutili e merdose! — bisbigliò, picchiando col palmo della mano finché i comandi risposero e l’aeromobile prese a volare senza sobbalzi. — E adesso, il brodo — dichiarò, di nuovo calmo, prima di sorridere a Rillibee: — E così, hai chiesto della peste, vero?

Rillibee non rispose.

Dopo un poco, il vecchio monaco riprese: — Be’, dovremo trovarti un nome.

— Ho già un nome. — Nonostante la depressione in cui era sprofondato, Rillibee si ribellò alla prospettiva di non poter conservare il proprio nome.

— Però non è adatto al Monastero, dove i nomi devono ottemperare a determinati requisiti. — Aggrondato, frate Mainoa picchiò il palmo della mano sui comandi della cucina automatica. — Dodici consonanti e cinque vocali, ognuna col suo attributo sacro.

— Assurdo — mormorò Rillibee, leccandosi le lacrime dall’angolo della bocca. — Sai anche tu che è assurdo. Questo è proprio il genere di cose che… Insomma, è proprio questo quello che ho chiesto in refettorio: perché tante assurdità?

— Sono troppe, per te?

Rillibee annuì.

— Anche per me — confessò frate Mainoa. — Però a suo tempo io non feci domande: cercai di scappare. Probabilmente anche tu eri un accolito vincolato, vero? Per quale periodo?

— Non ero veramente vincolato: semplicemente mi presero, quando, be’, quando non avevo nessun altro posto dove andare. Dissero che dopo dodici anni avrei potuto fare quello che avessi voluto.

— Io fui vincolato per cinque anni, però non riuscii ad arrivare alla fine del periodo: semplicemente, non ce la feci. La mia famiglia mi vincolò quando avevo quindici anni. A diciassette anni ero già qua su Grass, a riportare alla luce le ossa degli Arbai, e da allora non me ne sono più andato. Sono un penitente, come tutti gli altri reietti. Ah, se soltanto fossi stato un po’ più adulto, allora. — Frate Mainoa prese una tazza fumante dalla cucina automatica: — Ecco, bevi questo: ti farà bene, davvero. Il priore Laeroa, che a quell’epoca era soltanto un giovane frate, lo diede anche a me, quando mi venne a prendere all’astroporto. A mia volta, da allora, l’ho offerto a parecchi altri giovani, quindi ti posso assicurare che fa sempre bene. Avrai fame in continuazione ancora per parecchio tempo, ma poco a poco anche la fame passerà. Non so perché: semplicemente, fa parte dell’essere su Grass. Ma perché non mi parli di te? Più ne so sul tuo conto, più mi sarà facile aiutarti.

Non sapendo cosa dire, Rillibee sorseggiò il brodo: — Vuoi forse conoscere la storia della mia vita?

Per un poco, Mainoa rifletté, incerto, infine decise: — Sì, credo di sì. Con certe persone non sarei affatto interessato, sai? Ma nel tuo caso, credo proprio di sì.

— E per quale ragione?

— Oh, varie ragioni. Il tuo aspetto, ad esempio, e il tuo nome, che è decisamente insolito per un santificato.

— Non sono mai stato un santificato. Come ti ho detto, mi presero, e basta.

— Dimmi qualcosa di più, ragazzo. Raccontami tutto quello che c’è da sapere.

Sospirando, Rillibee si chiese che cosa vi fosse mai da sapere, ma ricordò, perché era incapace di dimenticare.

La casa di Red Canyon aveva spesse mura che garantivano caldo di notte e fresco di giorno, ma erano deteriorate dalla pioggia e dalla neve, così che ogni estate Miriam e Joshua, Song e Rillibee, dovevano trascorrere quasi una settimana a restaurarla. Una stanza aveva il pavimento piastrellato di rosso, un’altra di verde, un’altra di azzurro, e un’altra di mattonelle policrome. Song insegnò a Rillibee come giocare al gioco del mondo sulle piastrelle della sua camera. Davanti al caminetto, invece, vi era una scacchiera di piastrelline bianche e nere, larghe cinque centimetri, con cui Joshua e Miriam giocavano usando scacchi di terracotta che, al pari delle mattonelle, Miriam stessa aveva cotto nella piccola fornace dietro casa.

Le camere da letto erano tre: due piccole per Rillibee e Songbird, una grande per Joshua e Miriam. Talvolta Rillibee chiamava i genitori mamma e papà, talaltra li chiamava coi loro nomi, e Miriam diceva che andava benìssimo, perché in un caso intendeva parlar loro come genitori, e nell’altro semplicemente come persone.

La cucina era ampia, e il soggiorno ancora più ampio, con un ritratto di Miriam sopra il caminetto, e due divani grandi e comodi, nonché antichi tappeti indiani, e una tavola dove tutta la famiglia si riuniva per desinare. La colazione, invece, era solitamente consumata in cucina.

Attigua alla casa, la bottega di Joshua era dotata di un magazzino seminterrato, che si estendeva parzialmente anche sotto la stanza di Rillibee: in esso era lasciato a stagionare il legno da cui Joshua ricavava tavole, sedie, stipi e scrigni. Oltre a numerosi attrezzi, la bottega conteneva il tornio da vasaio di Miriam. L’ampia porta affacciata sulla sponda del Red Creek restava spalancata per tutta l’estate.

Il basso fabbricato che comprendeva casa e bottega era ombreggiato da pioppi antichi e giganteschi, le cui fronde pendevano verdi in estate e di un color oro struggente in autunno. Miriam lo chiamava proprio così: «oro struggente», perché era così bello da mozzare il fiato, allorché i raggi solari filtravano tra le fronde come il tocco della mano di Dio. Spesso Miriam si esprimeva in un modo così antiquato com’erano antichi e disusati il suo nome e quello di suo marito, Joshua, nonché i loro mestieri, i quali risalivano davvero a un remoto passato: nessuno si dedicava più alla falegnameria, alla ceramica e al giardinaggio, né ai lavori manuali e all’agricoltura.

Fra un lavoro e l’altro, Miriam e Joshua trovavano sempre il tempo di condurre Rillibee e Songbird ad osservare la natura: fiori, uccelli, pesci. Il torrente era ricco di pesci, mentre nel canyon e sulle montagne vivevano cervi, tetraoni e tacchini selvatici: — Questo è uno dei pochi luoghi al mondo che l’umanità non abbia trasformato in immondizia — spiegava talvolta Joshua, indicando il canyon. — Viveteci, osservatelo, proteggetelo. Ogni primavera, recatevi ai suoi confini e piantate alberi che possano vivere più a lungo di voi.

Da vent’anni, ossia da quando Joshua era tornato da Pentimento, ì genitori di Rillibee piantavano alberi ogni primavera. Nel canyon, a monte della casa, lungo Red Creek, crescevano gli alberi antichi e immensi che erano stati piantati dal nonno di Joshua, mentre a valle, creando nubi di fiori a primavera, prosperavano frutteti di meli, ciliegi e prugni, piantati da suo padre: ogni albero era quattro volte più alto di Joshua. Le conifere piantate da Joshua e Miriam erano sempre più basse man mano che ci si avvicinava ai confini della zona boschiva, oltre la quale si stendeva una regione piatta, grigia, arida, cosparsa di centauree, cardi selvatici, pruni, e tagliata dalla lama polverosa della strada che conduceva alla città e alla scuola, l’una e l’altra della Santità.

I genitori di Rillibee non erano santificati, tuttavia ritenevano che l’istruzione scolastica fosse necessaria, complementare a quella impartita da loro stessi ai figli; inoltre la scuola della Santità era la più vicina, poiché distava soltanto un miglio, senza contare che vi si poteva giungere facilmente per la maggior parte dell’anno, giacché di rado capitava che la neve ostruisse il canyon. Talvolta Rillibee tornava da scuola in compagnia di alcuni ragazzi, ma anche questo accadeva di rado, perché quasi tutti gli studenti lo consideravano strano.

Tutti i genitori dei compagni di scuola di Rillibee lavoravano al terminale nei loro appartamenti, o nei centri tecnologici lungo la strada di superficie, dove si recavano a piedi percorrendo apposite gallerie, oppure in aeromobile, se dovevano coprire lunghe distanze. Invece, Joshua e Miriam viaggiavano a dorso d’asino! E ciò era sufficiente perché i compagni di Rillibee ridessero a crepapelle dei fenomeni terricoli che mangiavano cibi coltivati da loro stessi, e non dicevano parolacce, e indossavano abiti di foggia molto strana. Rillibee non udì mai pronunciare l’epiteto «fenomeno terricolo» prima di essere in quarta, ma poi si convinse che non avrebbe mai smesso di sentirlo.

La derisione e il disprezzo degli studenti turbavano Rillibee molto più di Song, la quale aveva un amico, appartenente a un’altra famiglia di fenomeni terricoli residente a Rattlesnake, col quale andava d’accordissimo: anche il nome di costui, Jason, era antico. Talvolta, Jason pronunciava parolacce, però mai al cospetto di Joshua, che non le tollerava assolutamente. In presenza del padre, naturalmente, anche Rillibee badava bene a non dirne.

Un giorno, dopo essere stato particolarmente maltrattato a scuola da tutti i compagni, che si erano divertiti a burlarsi del suo nome, dei suoi abiti e dei suoi genitori, Rillibee chiese alla madre, disperato: - Perché mi hai chiamato così? Perché proprio «Rillibee»?

— È il suono che il fiume produce scorrendo sui sassi — rispose Miriam. - Lo ascoltavo, la notte prima della tua nascita.

Come sarebbe stato possibile infuriarsi per questo? Il ragazzo, infatti, non ne fu capace: tacque.

Sorridendogli, Miriam sfornò alcune focacce e gliele ammucchiò in un piatto, prima di servirgli anche una tazza del latte che aveva tenuto al fresco nel torrente: — Rillibee - disse, affinché anch’egli udisse il chioccolio dell’acqua in esso - Rillibee.

— I miei compagni di scuola — mormorò il ragazzo, con la bocca piena - pensano che sia molto buffo.

— Lo immagino — convenne Miriam. — Senza dubbio pensano la stessa cosa anche del mio nome. Adesso portano tutti quanti nomi come Brom, o Boll, o Rym, o Jolt.

— Non Jolt.

— Oh, certo, scusami - rise Miriam. — Non Jolt. Comunque sembrano tutti rumori meccanici.

E Rillibee dovette convenirne: «Bolt» sembrava decisamente in grado di spaventare a morte un asino, e «Jolt» suonava anche peggio.

Un giorno, Joshua tornò a casa con un piccolo pappagallo grigio dalle sfumature verdi.

— Joshua! Cosa t’è mai venuto in mente? — chiese Miriam.

— Rammenti i mobili che ho costruito per i Brant?

— Certo.

— Ebbene, li hanno tanto apprezzati che, come gratifica, mi hanno regalato questo pappagallo.

Dubbiosa, Miriam scosse la testa: — Molto probabilmente volevano soltanto sbarazzarsene - commentò. E Rillibee capì che stava pensando a quanto avrebbe sporcato il pappagallo.

Ficcando le mani in tasca, Joshua rimase immobile a fissare l’uccello sul trespolo accanto al caminetto. — Eppure mi hanno detto che vale molto.

In silenzio, Miriam fissava il volatile a labbra serrate, come se si trattenesse a stento dal dire qualcosa di spiacevole.

Allora il pappagallo disse con voce limpida: — Merda! Escrementi! — E defecò sul pavimento.

Incapace di trattenersi, Miriam scoppiò a ridere, e rise a lungo, tenendosi la pancia.

Arrossito di collera, Joshua non riuscì a spiccicar parola.

— Be’, una cosa è certa — commentò poi Miriam: — sa parlare.

— Subito dopo cena vado a restituirlo!

— Oh, Josh, per l’amor del cielo! Lo terremo, invece, e gli insegneremo un linguaggio migliore. Bisogna rendersi conto che il pappagallo non sa quello che dice: non è come se dicesse parolacce volontariamente, per offendere. Imita soltanto quello che sente.

— Non ha certo sentito quella parolaccia da me!

— Però l’ha sentita da qualcun altro, e non l’ha dimenticata.

E così tennero il pappagallo, che non imparò mai nessuna parola decente. Parlava poco, ma, come Rillibee non tardò a notare, pronunciava contumelie ogni volta che Miriam s’infuriava e si tratteneva a stento dall’imprecare. Diceva, con voce sognante: — Merda! Dannazione! - Una volta disse persino: - Vaffanculo! - E per fortuna Joshua non lo sentì, perché in caso contrario il pappagallo avrebbe probabilmente pagato tanta improntitudine con la vita.

A undici anni, con notevole precocità, Rillibee passò in quinta, e per questo i suoi compagni non gli resero certo la vita più facile. La vecchia signora Balman gli insegnava programmazione e informatica, mentre il vecchio Snithers era il suo professore di manutenzione e installazione. I ragazzi più grandi avevano soprannominato Ballsy, vale a dire Palluta, la Balman, perché, dicevano, aveva più palle di Snithers, soprannominato invece Sniffy, ossia Pignolo Arrogante. Non comprendendo affatto tale allusione, Rillibee aveva chiesto lumi a Joshua, il quale gli aveva innanzitutto spiegato, con parole alquanto volgari, che Snithers era peggio di una vecchia zitella ansiosa, meticolosa e sdegnosa, mentre la Balman aveva un risoluto e sbrigativo atteggiamento virile che piaceva molto a tutti gli studenti; infine gli aveva tenuto un’autentica lezione di quasi un’ora sull’uso delle metafore sessuali.

Poi, un giorno affatto normale, durante il quale non accadde null’altro di rimarchevole, Wurn March disse addio ai compagni, spiegando confusamente che stava per recarsi alla Santità a trascorrere un periodo di cinque anni come accolito vincolato, e parve sul punto di scoppiare a piangere, quando gli fu chiesto se davvero desiderava partire. In corridoio, Ballsy disse a Sniffy che la Santità faceva proprio bene a prendersi Wurn, e tanti saluti. Risero entrambi, ma subito arrossirono, quando si accorsero che Rillibee, di ritorno dai gabinetti, li aveva sentiti, e lo rispedirono subito a lezione.

In verità, Rillibee non poteva non essere d’accordo con Ballsy sul fatto che nessuno avrebbe sentito la mancanza di Wurn March. Questi aveva già ripetuto la quinta varie volte, era più grande e più grosso della maggior parte dei compagni, disturbava e faceva chiasso in continuazione, si divertiva a picchiare i più piccoli, e chiedeva sempre tutto in prestito senza mai restituire niente.

A parte tale avvenimento, quella giornata fu come tutte le altre, ma fu proprio allora che Rillibee sentì menzionare per la prima volta gli accoliti vincolati.

Nel pomeriggio, tornando a casa, Rillibee trovò Miriam nella cucina densa di fragranze appetitose, com’era usuale a quell’ora, e la abbracciò, senza curarsi, almeno per una volta, di quello che pensavano gli altri: dopotutto, era la sua mamma, quindi poteva anche abbracciarla, se ne aveva voglia.

Con un gemito, Miriam si ritrasse: - Ouch! - E sorrise al figlio, per fargli capire che non era colpa sua: — Mi fa male un braccio, Rilli. Quando mi hai abbracciata, è stato come se mi picchiassi.

Molto dispiaciuto, Rillibee insistette per esaminare il braccio che doleva, scoprendo che aveva un aspetto tremendo, tutto livido e gonfio.

In quel momento, tornò Joshua, che così poté osservare a sua volta il braccio della moglie: - Conviene che tu vada all’Ufficio Sanitario, Miriam. Sembra che ci sia una infezione.

— Pensavo che stesse migliorando.

— Sta peggiorando, semmai. Probabilmente è stata soltanto una scheggia, ma comunque devi farti visitare. - Ciò detto, Joshua baciò la moglie.

Allora il pappagallo imprecò: — All’inferno! — E tutti scoppiarono a ridere, e non accadde altro.

Il pomeriggio seguente, nel tornare da scuola, Rillibee trovò Songbird intenta a cercare la torta che la madre aveva cotto e nascosto la sera precedente, ma non vide Miriam: - Dov’è la mamma? — volle sapere.

— All’Ufficio Sanitario - gli ricordò la sorella, continuando a frugare nella dispensa.

Rammentando, Rillibee annuì: - Quando torna? - domandò ancora, pensando di raccontarle di Wurn March, del commento della insegnante, e poi chiederle cosa fossero gli accoliti vincolati.

— Tornerà appena avrà finito, stupido — ribatté Song. — Fai sempre domande stupide. — Così dicendo, aprì la porta e uscì a guardare la strada.

Rillibee la seguì: - Vuoi sentire una domanda davvero stupida? Eccola: quando crescerai? è stupida, perché la risposta è: mai.

— Marmocchio! Stupido piccolo marmocchio che si succhia ancora il pollice!

— Basta! — intervenne Joshua, di ritorno dalla bottega. — Smettetela tutti e due! Non c’è scusa per un simile modo di parlare, Song. Non voglio più sentire una sola parola da nessuno dei due. Vai subito ad apparecchiare la tavola, Song. E tu, Rillibee, vai a raccogliere i giochi che hai lasciato sparpagliati per tutto il soggiorno, ieri sera, e rimetti a posto il tappeto. Io preparo la cena, così vostra madre troverà tutto pronto, quando tornerà a casa.

Il silenzio delle ore successive rimase sempre nel ricordo di Rillibee come un preludio sinistro a quel che accadde in seguito: la tranquillità o il silenzio eccessivo continuarono a suscitare in lui un disagio profondo anche dopo molti anni, identificandosi sempre con la tragedia.

Mentre i raggi del sole del tardo pomeriggio cadevano nel soggiorno attraverso le alte finestre creando pozze d’oro sul pavimento, Rillibee distrusse il castello che aveva costruito la sera precedente, raccolse i pezzi, li ripose assieme ai soldatini, rimise a posto il tappeto, e a lungo ne pettinò le frange con le dita finché parvero schiere di guerrieri.

Il pappagallo si mosse sul trespolo, attirando lo sguardo di Rillibee, e sussurrò: — Oh, dannazione. Dannazione. Oh, Dio. Oh, no. - E la sua voce parve quasi quella di Miriam.

Il tempo trascorse lentissimamente e la luce del sole svanì.

Stimolato dall’avvertimento inequivocabile del proprio stomaco, Rillibee si recò in cucina, dove il padre e Song attendevano la mamma, che non era ancora tornata: - È ora di mangiare - disse, in tono lamentoso.

— Mangiamo, dunque — rispose Joshua, benché fosse preoccupato. — Tua madre non vorrebbe che la aspettassimo. Senza dubbio è stata trattenuta per qualche ragione.

Tutti e tre stavano per sedere a tavola, quando si udì il segnale che annunciava il passaggio di qualcuno al cancello. Con un sorriso, Joshua si alzò per recarsi alla porta, e Rillibee si rilassò, pensando che Miriam si fosse attardata a far spese o per mostrare una ceramica di sua produzione a una persona interessata ad acquistarla.

Tuttavia dalla porta non giunse la voce della mamma, bensì quella di un uomo che chiedeva risolutamente di lei.

— Miriam non è ancora tornata - rispose Joshua, con voce ferma. — Non sappiamo dove sia. — Poi sbottò, irato, mentre lo sconosciuto lo scostava per entrare in casa: — Dove credete di andare?

— A compiere una perquisizione — rispose l’individuo, il quale era grande e grosso, più di Joshua, e indossava una uniforme bianca con le spalline verdi e un cappuccio che cadeva sulla schiena. - Continuate pure la vostra cena, ragazzi — ordinò. - Non ci metterò molto. — Perquisì la cucina e le camere da letto, aprendo e chiudendo gli armadi, quindi uscì per andare a frugare rumorosamente anche in bottega.

Con estrema cautela, Rillibee depose la forchetta, osservando il padre, che era improvvisamente impallidito.

Terminata la perquisizione, lo sconosciuto rimase per un poco in cortile a guardare intorno, quindi rientrò in casa e chiese a Joshua di uscire. Fuori, gli parlò sottovoce, ma Rillibee riuscì ugualmente a distinguere alcune parole: «autorizzazione», «ammenda», «custodia».

Rillibee tacque.

Per un poco frate Mainoa attese, prima di commentare: — Parlano sempre così, quelli che comandano. Sono così pieni di parole di potere, che talvolta sospetto che abbiano parole al posto del sangue.

Rillibee non rispose.

— Ti è difficile raccontare?

Deglutendo, Rillibee annuì, incapace di parlare.

— D’accordo. Aspetta di sentirti un po’ meglio, poi continua.

Con qualche sussulto di quando in quando, l’aeromobile continuò a volare nell’aria calda. Dopo qualche tempo, Rillibee riprese a narrare.

Quando l’uomo grande e grosso in uniforme bianca se ne fu andato, Joshua ritornò in soggiorno e risedette a tavola, il viso impenetrabile, duro come roccia.

— Papà.

— No, Rillibee. Non chiedermi niente, adesso. Per il momento, so soltanto che quell’uomo cercava tua madre, e che lei non è qui.

— Ma chi era?

— Un funzionario della Sanità.

— Oh, dannazione! — disse il pappagallo. — Oh, Dio!

Allora Joshua gli tirò un cucchiaio, che lasciò una chiazza rossa sulla parete e cadde sul pavimento. Il pappagallo si limitò a guardare il padre e i ragazzi, coi mobili occhi neri, sussurrando fra sé e sé.

Il funzionario della Sanità non tornò, e la mamma neppure. Papà rimase a passeggiare in soggiorno, fermandosi di quando in quando per comunicare, mediante il terminale, con la cognata, che viveva a Rattlesnake, e con amici, clienti e conoscenti della moglie.

Quando fu ora di coricarsi, Rillibee guardò fuori dalla finestra della sua camera, scoprendo l’aeromobile parcheggiato sulla pianura: il funzionario era rimasto a sorvegliare la casa. Soltanto dopo lungo tempo andò a letto, cercando di vedere il soffitto e le pareti nel buio: una luce debolissima filtrava sotto la porta. Si sforzò di piangere in silenzio, in modo che Song non lo udisse dalla camera attigua, infine si addormentò.

Fu destato da uno strano rumore, come se qualcuno grattasse in corrispondenza della sua testa, sotto il pavimento, e non osò muoversi, pensando a qualche mostro.

Quando il rumore cessò per un poco, il ragazzo rammentò il magazzino, che era stato costruito per contenere soltanto le sementi, poi era stato ampliato da Joshua fin sotto la bottega: l’ingresso principale era situato appunto nella bottega, dietro le cataste di legname, tuttavia da molto tempo ne esisteva anche uno secondario sotto il letto di Rillibee. E proprio là sotto, qualcuno stava raschiando.

Senza far rumore, Rillibee andò ad avvertire Joshua, il quale spostò il letto poco alla volta, in silenzio quasi assoluto, quindi aprì la botola.

Fu così che apparve Miriam, col viso pallido e striato, la chioma scarmigliata, gli abiti sporchi e stazzonati, come se avesse strisciato: - Josh. Oh, Dio, Josh! Volevano mandarmi via! Sono scappata dalla finestra perché volevano mandarmi via, e ho corso fino a non avere più fiato. Poi ho strisciato fra la vegetazione lungo il torrente e sono entrata dalla porticina dietro la bottega. Nascondimi, Josh: non lasciare che mi prendano.

— Mai, cara — rispose Joshua. — Mai.

Di nuovo silenzio.

Mainoa disse: — Senza dubbio tuo padre la amava molto.

— Non l’ho mai dimenticato — rispose Rillibee, con voce liquida e gorgogliante in gola. — Talvolta ci ripenso, di notte, quando non riesco a dormire. Risento le loro voci e rammento la mia confusione. Perché qualcuno voleva catturare mia madre? Perché volevano mandarla via? Cosa aveva fatto? Né lei né Joshua me lo dissero, e non lo dissero neppure a Song. Fingemmo che non fosse tornata a casa: ci limitammo a fingere di non averla più vista.

La mamma dormì nel letto matrimoniale assieme a papà. La mattina successiva, molto presto, Rillibee fu destato da alcuni rumori insoliti prodotti da qualche attività che si stava svolgendo in strada. Scostando a malapena la tenda, vide il funzionario smontare dall’aeromobile bianco, oltre gli alberi più giovani, e così poté svegliare appena in tempo i genitori.

Rapidamente, Miriam scese in magazzino e Rillibee ricollocò il proprio letto sopra la botola: — Torna sotto le coperte e fingi di dormire — ordinò papà, nel recarsi ad aprire, mentre si udiva bussare fragorosamente alla porta.

Con la testa sotto il cuscino, Rillibee cercò di convincere se stesso che stava vivendo un sogno, poi riuscì a sembrare confuso e irritato, come se fosse stato destato di soprassalto, quando il funzionario della Sanità entrò con arroganza a strappargli il cuscino.

In seguito, mamma dormì sempre giù in magazzino. Papà le fornì una branda e una seggetta che lui stesso aveva costruito appositamente. Durante il giorno, Miriam saliva in casa ogni volta che un familiare poteva sorvegliare il funzionario nell’aeromobile bianco, ma restava nascosta se il marito e i figli erano assenti.

La piaga infetta del braccio di Miriam, grande circa come un nocciolo di pesca, fu medicata e bendata da Joshua, ma entro la fine della settimana si allargò a coprire tutto il gomito, senza che la sofferenza diminuisse; poi si diffuse a trasformare tutto il braccio in qualcosa di simile alla carne viva. Ogni sera bisognava cambiare le bende, anche se si trattava di una operazione molto dolorosa, perché altrimenti il braccio malato puzzava: Joshua lo lavava con l’acqua calda, mentre Song reggeva il catino, e lo fasciava con le bende che Rillibee gli passava. Intanto, il pappagallo sul trespolo diceva, senza che nessuno gli badasse: — Oh, dannazione, dannazione. Oh, Dio.

Il funzionario tornò ripetutamente a perquisire la casa, una volta assistito da due colleghi, ma sempre senza trovare la botola sotto il letto di Rillibee, perché Joshua l’aveva ricostruita con tale perizia che le commessure erano pressoché invisibili.

Talvolta, Miriam saliva in casa durante il giorno, mentre Song e Rillibee erano a scuola, e la sera raccontava loro quello che aveva fatto e dove aveva passeggiato: - Hai notato che le foglie stanno cambiando, Rillibee? Stanno diventando di oro struggente. Dio, come sono belle! - Poi decidevano insieme cosa preparare per cena la sera seguente. Miriam suggeriva a Joshua che cosa comperare, e in quali quantità, quindi spiegava a Songbird come cucinare, e a Rillibee come aiutare. Restavano insieme per un poco a conversare, o a giocare, infine cambiavano la fasciatura, e Miriam tornava giù, in magazzino.

Terribile fu la notte in cui, nel cambiare le bende, si staccarono dalla mano alcuni pezzi di carne e la mamma emise uno strano lamento, come se stesse per vomitare, o come se stesse per gridare ma non avesse abbastanza fiato.

— Fuori — disse Joshua ai figli, indicando la porta, il viso contratto a snudare i denti in una sorta di orribile sogghigno, che rammentava una lanterna ricavata da una zucca.

I ragazzi corsero in cucina. Song pianse, gemendo nello sforzo di soffocare i singhiozzi, e Rillibee disse a se stesso che era soltanto un sogno, un brutto sogno: in realtà, non stava succedendo. A veva veduto le ossa della mano della mamma, dove due dita lucide e bianche si erano staccate senza che scorresse il sangue: un liquido grigiastro era gocciolato lentamente a chiazzare le bende, con un fetore disgustoso, soffocante, che pareva inestinguibile.

Nei giorni successivi, papà non permise più ai figli di assisterlo nel cambiare le bende, quindi proibì loro di restare nella stessa camera in cui si trovava la mamma. Per qualche tempo continuarono a sentire la voce di Miriam, ancora riconoscibile, e di quando in quando anche una risata stridula, spaventosa; poi non fu più una voce, ma soltanto un acuto uggiolare simile a quello di un cane investito da un automezzo o di un conìglio ghermito da un falco.

Il fetore che saliva ogni notte dal magazzino era terribile, peggiore di qualunque altro puzzo.

— Oh, oh, no - diceva il pappagallo. — Oh, Dio, no.

Papà e Rillibee sì scambiarono le camere, e così trascorsero i giorni, senza che i figli vedessero Miriam, mai più. Una notte, coricato nel letto del padre, Rillibee cercò invano di rammentare l’aspetto della mamma prima della malattia. Allora ebbe il desiderio di guardare il ritratto appeso sopra il caminetto. Si recò in soggiorno, accese una lampada e vide Miriam sorridente nel ritratto, col viso incorniciato dalla chioma lustra.

— Lasciami morire — sussurrò il pappagallo. — Oh, ti prego, ti prego. Lasciami morire.

— Zitto! — ordinò Rillibee sottovoce, scagliando le parole come ardenti getti di vomito. — Zitto! Zitto! - E promise a se stesso di non recarsi più in soggiorno, e non ascoltare più il pappagallo. A partire dal giorno successivo mangiò sempre in cucina, fece normalmente i compiti, non pose domande, non parlò più della mamma.

— Dev’essere stato duro — osservò frate Mainoa. — Dev’essere stato molto duro.

— Non riuscivo a smettere di pensare a lei: non potevo. Nel mio ricordo, il suo viso diventava grigio e cominciava ad arricciarsi come una fotografia in fiamme, sinché non riuscivo più a distinguere i lineamenti, non potevo più ricordare il suo aspetto. Sopportai quanto potei, prima di tornare in soggiorno a riguardare il suo ritratto, e di nuovo il pappagallo disse: «Uccidimi, ti prego. Ti prego: uccidimi.»

Fu il giorno dopo, quello del suo dodicesimo compleanno, che Rillibee si destò con la consapevolezza che era stato tutto un sogno, mentre il sole color oro struggente entrava dalla finestra. Si vestì e si recò in soggiorno, dove il pappagallo si muoveva lungo il trespolo, dicendo: — Grazie a Dio. Grazie a Dio. Grazie a Dio.

Song era già seduta a tavola. Un pacchetto era collocato davanti al posto di Rillibee, il quale sedette, con un sorriso, e lo esaminò, lo agitò, per indovinarne il contenuto.

— Buon compleanno, Rillibee - augurò papà dalla soglia della cucina. — Sto cuocendo le frittelle. - Il suo tono fu strano, nonostante l’assoluta normalità delle frasi.

— Buon compleanno, Rillibee — disse Song, con una voce che pareva registrata.

Quando papà venne a servire il succo di frutta, Rillibee si accorse che aveva sul collo, vicino alla nuca, una piaga grande come una nocciolina, simile a quella che era comparsa sul braccio della mamma. Tentò di dirlo alla sorella appena Joshua fu tornato in cucina, però Song rimase seduta immobile, silenziosa, come paralizzata. Soltanto allora il fanciullo notò che aveva la mano bendata e si chiese da quanto tempo anche lei fosse malata, senza che lui se ne fosse accorto.

Senza aprire il regalo, uscì di casa, attraversò i frutteti e i boschi, fra gli alberi sempre più bassi e giovani man mano che si allontanava, finché giunse alla zona dove non cresceva più nessuna pianta.

— Li hai mai rivisti? — chiese frate Mainoa.

Seguì un lungo silenzio, durante il quale Rillibee rimase a guardar fisso fuori dal finestrino, le labbra dischiuse, il volto lavato dalle lacrime: — Corsi a scuola come un pazzo e cominciai a gridare qualcosa. Quella sera, quando tornai a casa, non trovai nessuno, tranne un rappresentante della Santità, che mi ordinò di seguirlo per diventare un accolito. Non mi hanno mai detto nulla di Miriam, né di Joshua, né di Song. Quando chiedevo, mi rispondevano che la mia famiglia era morta da tanto tempo che non me ne rammentavo più. Non mi hanno mai neanche domandato se eravamo seguaci della Santità. Ebbene, non lo eravamo, e ancora adesso io non lo sono affatto.

Nel sorseggiare il proprio brodo, frate Mainoa percuoteva di quando in quando un pulsante che minacciava di sbloccarsi. — Frate Lourai, come ti sembra?

— Come dovrebbe sembrarmi?

— Be’, la elle sta per pazienza, e la erre per perseveranza. Penso che possano servirti un po’ dell’una e un po’ dell’altra.

— E cosa significa la emme nel tuo nome? — chiese Rillibee, stancamente. — E la enne?

— Rassegnazione — mormorò il vecchio monaco — e stabilità.

— Hai detto «ribellione»?

— Zitto, giovanotto! Lourai è un bel nome. Dovresti sentire i nomi impronunciabili che la Dottrina Accettabile escogita talvolta. Che ne dici, ad esempio, di Fouyaisoa Sheefua? O Foh-oo-yah-ee-soh-ah Shee-foo-ah? O magari Thoirae Yoanee? Senza dubbio non vuoi che ti sia affibbiato un nome del genere! Lourai va abbastanza bene.

— Cos’è la dottrina accettabile?

— La Dottrina Accettabile? — Frate Mainoa mise le tazze vuote nel riciclatore. — Be’, se tu fossi stato un po’ più grande prima che ti portassero alla Santità, avresti imparato cos’è il Ministero della Sicurezza e della Dottrina Accettabile. In sostanza, si tratta del gruppo di illuminati che ci dice in cosa possiamo o non possiamo credere, e garantisce la nostra ortodossia. Qua su Grass, il dipartimento della Dottrina Accettabile è diretto dal priore Jhamlees Zoe e dal suo braccio destro, il priore Noazee Fuasoi.

— Sono come gli Ierofanti! — gridò Rillibee. — Oh, Dio! Vorrei poter sfuggire a quella gente!

— Puoi benissimo. Non devi fare altro, un giorno qualsiasi, che prendere il tuo badile, o il tuo stabilizzatore, e andartene nelle praterie. Puoi star certo che nessuno ti inseguirà. Io stesso avrei potuto scappare tante volte, ma ho sempre avuto la certezza che continuando gli scavi archeologici avrei trovato qualcosa di molto interessante, perciò non l’ho fatto. Tutto sommato, sono più contento di essere qui che là. E forse col tempo lo sarai anche tu. Non devi fare altro che inchinarti e rispondere, in tono docile, obbediente, contrito: «Sì, priore». Cosi, ti lasceranno in pace.

— Come puoi far questo? — ribatté Rillibee, sprezzante. — È ipocrita.

Riseduto ai comandi, frate Mainoa osservò con occhio scettico i pulsanti e i quadranti. — Voglio spiegarti alcune cose, giovane frate Lourai. Però non tentare di riferirle ad alcuno, perché in tal caso negherei di averle dette. La prima cosa che devi fare, è convincerti che le teste di merda hanno torto, in particolar modo Jhamlees e Fuasoi. E non si tratta di un torto relativo, bensì di un torto assoluto, irreparabile, endemico: nulla che si possa dire o fare è in grado di rimediare a questo torto. Sono dannati per l’eternità, e questa è la volontà di Dio. Mi segui?

Benché dubbioso, Rillibee annuì: si era aspettato di tutto, tranne un discorso del genere.

— Quando poi ci si rende conto che questi fanatici si trovano ad occupare posizioni di grande potere a causa di qualche errato calcolo cosmico, è possibile giungere a un’unica conclusione.

— Quale?

— Questa: che bisogna inchinarsi, rispondere molto umilmente «Sì, priore», e conservare la propria fede e le proprie convinzioni. Qualunque altro atteggiamento equivarrebbe ad addentrarsi nella prateria quando passano gli erbivori: in tal caso i resti di una persona non si potrebbero raccogliere neanche col cucchiaino. E allora a cosa servirebbe avere ragione?

— Dunque tu ti comporti così?

— Già. E dovrai comportarti così anche tu. Non dire al priore Jhamlees Zoe che i tuoi famigliari non erano santificati, altrimenti comincerà a farti il lavaggio del cervello per convertirti, per salvarti. Limitati invece ad inchinarti educatamente e rispondi: «Sì, priore». Così, probabilmente, ti lascerà in pace.

Seguì un lungo silenzio, durante il quale Rillibee, o meglio frate Lourai, si accomodò sull’altro sedile, attese un poco, quindi chiese, dato che frate Mainoa non sembrava avere alcuna intenzione di continuare: — Cosa sono gli Arbai?

— Gli Arbai, fratello, erano gli abitanti di una città abbandonata da tempo immemorabile. E le città degli Arbai sono le uniche rovine trovate dall’umanità sui mondi fino ad ora colonizzati: sono le vestigia dell’unica razza intelligente mai scoperta.

— E che aspetto avevano gli Arbai?

— Erano più alti di noi, vale a dire due metri e dieci centimetri in media. Avevano due braccia e due gambe, come noi, ma la loro pelle era tutta coperta di piccole piastre o scaglie. Abbiamo trovato mummie perfettamente conservate, perciò conosciamo le loro sembianze. Erano un popolo affascinante, e per certi versi assomigliavano molto a noi. Colonizzarono molti mondi, come abbiamo fatto noi, e conoscevano la scrittura, anche se non siamo riusciti a decifrare la loro lingua. Però sotto altri aspetti erano molto diversi da noi. Per esempio, sembra che non avessero sesso, o almeno, non abbiamo scoperto in loro alcuna differenza tra maschi e femmine.

— Sono estinti?

— Sì. Perirono tutti, misteriosamente e all’improvviso, su tutti i pianeti in cui si erano stabiliti, come se fosse stata decretata la loro scomparsa totale. Le cose andarono diversamente soltanto qua su Grass, dove tutti gli Arbai furono orribilmente massacrati.

— Come lo sapete?

— È così che li abbiamo trovati, fratello: smembrati e straziati, le braccia e le gambe sparse, le ossa scheggiate da zanne possenti.

— Cosa state cercando?

— Soprattutto una spiegazione di come perirono — rispose frate Mainoa, gettando un’occhiata di curiosità al giovane. — Se non ho male interpretato il tuo racconto, fratello, tu sei stato testimone della peste, vero? Tu sai che essa esiste.

Frate Lourai annuì: — Non me lo hanno mai detto, ma senza dubbio fu essa a sterminare la mia famiglia. Anche il Prelato morì di peste, e così pure molta gente alla Santità. Forse anch’io sono stato contagiato, a mia insaputa.

— Ebbene, alcuni di noi ritengono che sia stata proprio la peste ad annientare gli Arbai. Conviene che ti dica subito che ciò non è ammesso dalla Dottrina Accettabile, quindi non andare in giro a parlarne.

— Ha sterminato loro — sussurrò Lourai — e sterminerà anche noi.

— Be’, può darsi, ma non è detto. Se riuscissimo a scoprire qualcosa.

— Credi che si possa scoprire qualcosa a proposito della peste?

Il vecchio monaco si volse a scrutare il giovane, socchiudendo gli occhi dalle palpebre rugose: — Quello che io credo — brontolò — è qualcosa di cui un giorno forse parleremo, dopo che sarai stato nella prateria. — Così dicendo, indicò l’erba corta che si stendeva sotto l’aeromobile a settentrione, fino alle rovine arbai. Poi indicò l’orizzonte, dove il nero profilo del Monastero si stagliava contro il cielo pallido.

Nell’avvicinarsi sempre più alla meta, Lourai, o Rillibee, — rimase senza fiato per la meraviglia: il Monastero era sormontato da innumerevoli torri scheletriche ondeggianti nella brezza come altissimi vegetali. Su alcune guglie sventolavano le bandiere della Santità, complete di angeli dorati: nel vederle, Rillibee Chime emise un ultimo, debole ringhio.

— Siamo a casa — annunciò frate Mainoa. — Dopotutto, non è un brutto posto, anche se probabilmente gli arrampicatori ti tormenteranno per alcune settimane. L’altezza ti spaventa, ragazzo?

— Non è l’altezza a spaventarmi, bensì la sensazione di cadere, come nei pozzi discensionali.

— In tal caso, credo che sopravviverai.

— Cosa sono gli arrampicatori? — chiese Rillibee, con uno nodo allo stomaco nel tentare di immaginarli.

— Per la maggior parte sono ragazzi che hanno circa la tua età. Molto probabilmente non t’importuneranno troppo. Ma te la caverai, se riuscirai a controllare adeguatamente il tuo comportamento.

— Sì, fratello — rispose frate Lourai, abbassando umilmente lo sguardo. — Cercherò di controllarmi.