125675.fb2
La notte calava sul Monastero dei Frati Verdi, dove raramente si udiva l’ululato agghiacciante del vento meridionale, ma i cori soavi delle rane si diffondevano nell’oscurità. I giorni trascorrevano nel lavoro, e le notti nel riposo. Si diceva che un tempo i Frati si fossero dedicati agli studi, ma in verità essi avevano scarse necessità di studio, poiché ogni problema era stato ridotto a dottrina, e tutta la dottrina era stata semplificata nel catechismo, e quest’ultimo risaliva a un’epoca molto antica. D’altronde, quale utilità sarebbe derivata ai penitenti da una maggior conoscenza? Essa non serviva a nulla in quelle regioni.
Il Monastero era circondato da una prateria di erba corta, mentre l’erba alta cresceva nelle vicinanze. Ogni anno, nella seconda metà dell’estate, un gruppo di frati si recava a falciare grandi quantità di quelle erbe folte e robuste che diventavano sette od otto volte più alte degli uomini. Intanto, gli altri monaci restavano a scavare fossati per ampliare il Monastero. Quantunque i penitenti invecchiassero e morissero come tutti, il numero dei frati aumentava, dato che divenivano sempre più numerosi gli accoliti della Santità incapaci di sopportare la disciplina.
I fasci d’erba erano trascinati al Monastero; erano collocati in fila lungo i fossati paralleli, stretti e profondi, che erano stati appena scavati; poi erano curvati e legati assieme a formare lunghe gallerie, le quali venivano infine completate con volte di paglia o di giunchi, e pannelli di erbe intrecciate. All’interno di queste alte gallerie, i Frati costruivano tutti gli ambienti di cui avevano bisogno: cappelle, cucine, o celle.
Secondo gli storici dell’ordine dei Frati Verdi, questa tecnica costruttiva era stata usata su un altro pianeta da un popolo vissuto in una regione in cui la vegetazione era costituita principalmente da erbe altissime; tuttavia non si sapeva nulla circa l’influenza del clima di quel mondo lontano sul modo di vita e le attività degli abitanti. Su Grass, comunque, i Frati Verdi si ritiravano a trascorrere gli inverni lunghissimi nei sotterranei del monastero, dove l’affollamento, la scarsità di spazio e la reclusione favorivano l’irascibilità, e in molti casi persino l’insorgere della follia. In verità, una pazzia perenne ed occulta contagiava i monaci, esplodendo più spesso fra i giovani che tra i vecchi, perché se questi erano ormai disperati, quelli erano turbati senza posa da una lotta perenne fra la speranza e la frustrazione, in cui quest’ultima finiva sempre per avere il sopravvento.
In estate, però, la frustrazione accumulata durante l’inverno poteva finalmente trovar sfogo nelle attività all’aperto, nei giardini di erba corta dove si diramavano le gallerie, o nei chiostri silenziosi, o negli orti vasti su cui si aprivano molte porte, o nei pollai dove razzolavano le galline e nei porcili dove i maiali grugnivano contenti. Se non fosse stato per le torri, il Monastero sarebbe parso un tumulo immenso, oppure la tana labirintica scavata da una talpa gigantesca, poiché il colore delle gallerie di erba secca si mimetizzava con quello delle praterie.
Le torri, invece, svettavano ovunque. Dapprincipio le torri d’erba, progettate per avvistare l’avvicinamento dei veltri e degli Hippae, erano state costruite sulle volte di giunchi delle gallerie, non più alte di quindici o venti uomini, solidamente legate con erba fune, e sormontate da tirsi o spighe. Ma ormai da molti decenni i giovani frati, impazziti per la noia, erigevano torri che suscitavano l’incredulità di qualunque osservatore, con le guglie che scomparivano nel cielo a forare le nubi, collegate le une alle altre mediante ponti che dal basso parevano sottili come dita, oppure esili come capelli. Così, i chiostri e i giardini erano dominati dalle torri, mentre i dintorni del monastero erano irti di gotiche foreste di torri: sempre più torri. Dovunque ci si trovasse, non si poteva alzare lo sguardo senza scorgere una miriade di strutture fantasticamente alte e ridicolmente fragili: le torri degli arrampicatori.
Salendo per scale a pioli sottili e ondeggianti come tele di ragno, gli arrampicatori si recavano sulle terrazze di vedetta. Annoiati e delusi ormai da molti anni dal paesaggio privo di qualsivoglia interesse, dichiaravano di non badare più agli erbivori, bensì di attendere l’avvento di angeli dorati simili a quelli che sormontavano le torri della Santità. E poiché negli ultimi tempi si erano persino divertiti a dichiarare di aver visto creature indescrivibili, il priore Laeroa non poteva fare altro che proteggerli dalla Dottrina Accettabile. Dopotutto, coloro che appartenevano a tale dipartimento non erano meno annoiati degli altri, perciò Jhamlees Zoe sarebbe stato ben lieto di poter infliggere sanzioni disciplinari, o magari istituire qualche processo per eresia.
Nel corso del tempo, gli arrampicatori, dapprima dilettanti, erano diventati veri e propri specialisti, infine avevano fondato un’autentica setta, con prelati ed accoliti, cerimonie di battesimo e di sepoltura, nonché una dottrina esoterica, nota soltanto agli iniziati. Pochi giorni dopo l’arrivo al Monastero, ogni nuovo accolito era messo alla prova per stabilire se fosse degno di diventare un arrampicatore.
Ecco perché frate Mainoa non aveva affatto esagerato nell’avvertire frate Lourai che la setta non lo avrebbe certo ignorato.
E infatti, gli arrampicatori non attesero a lungo.
Il Grande Refettorio del Monastero dei Frati Verdi era costituito da quattro gallerie che si irradiavano da una sala con la volta a cupola, dove la mensa riservata ai priori era collocata su un palco. In fondo a una di queste gallerie, nelle quali i penitenti sedevano in ordine di anzianità lungo le antiche mense consunte dall’uso, Rillibee Chime, o frate Lourai, come ormai si faceva chiamare, attendeva che il gong gli segnalasse di alzarsi, di riconsegnare il piatto alla cucina, e di recarsi al lavatoio per compiere il suo servizio serale. E intanto ammirava le mense di erbe intrecciate, pensando che fossero un’opera meravigliosa, con tutti quegli ornati a forma di foglie, fronde e volute di dozzine di colori diversi e centinaia di sfumature. Come senza dubbio avrebbe notato sua madre, Miriam, la varietà di colori era proprio la caratteristica che distingueva principalmente l’arte grassiana di intrecciare le erbe da quella terrestre di intrecciare i vimini.
D’un tratto, Rillibee trasalì, sorpreso, nell’udire un sussurro proveniente dalla parete vuota alle proprie spalle.
— Ascolta, Lourai!
Cercando di non attirare l’attenzione, come gli aveva raccomandato frate Mainoa, il ragazzo guardò lentamente in alto, intorno, e vide soltanto superfici di erbe intrecciate. Le mense erano disposte in una fila così lunga, che all’estremità opposta della galleria, presso la sala, si scorgevano a malapena. I monaci più vicini, alcuni funzionari giunti di recente al dipartimento della Dottrina Accettabile, sedevano a parecchia distanza. In fondo alla galleria, le mense riservate ai nuovi frati, i quali dovevano consumare i pasti in un isolamento che accentuava la solitudine della vita monastica però era molto propizio alla meditazione, erano vuote, tranne il posto occupato da frate Lourai.
La voce soggiunse: — Dopo il servizio serale subirai la tua iniziazione. — E terminò con qualcosa di sospettosamente simile a una risatina maligna.
Per un poco, Rillibee pregò ad occhi chiusi per ottenere aiuto, senza ricevere altra risposta che il lontano vociare di Jhamlees, Fuasoi, Laeroa e gli altri priori; poi riaprì gli occhi e guardò attorno. Anche se avesse avuto qualcuno vicino, probabilmente non avrebbe ottenuto nessun aiuto, e comunque non avrebbe avuto neppure il tempo di chiedere, perché proprio in quell’istante il suono del gong echeggiò in tutto il refettorio, ponendo fine alla cena.
Imitando centinaia di altri monaci, Lourai riconsegnò il piatto e uscì all’aria aperta, nella sera. Imboccato un corridoio che costeggiava il refettorio, si recò nel lavatoio, dove si mise di fronte ad un braccio della pompa e attese. Un anonimo frate di mezza età si pose all’altro braccio e insieme al giovane cominciò a pompare. L’acqua della sorgente termale sottostante si raccolse nei lavelli e nei risciacquatoi.
— Dannato aggeggio. — mormorò frate Lourai, pensando alle pompe ad energia solare o eolica dei vivai e della cisterna dell’acqua potabile.
— Silenzio — ammonì il vecchio monaco, con un’occhiata minacciosa. Pompare era una penitenza, quindi non doveva essere un’attività facile, né sensata.
Ben sapendo che gli conveniva protrarre il servizio il più possibile, Rillibee tacque, e intanto rifletté sul colloquio che aveva avuto il giorno precedente col priore Jhamlees.
— Qua è scritto, ragazzo — aveva esordito il priore — che in refettorio hai perso il controllo di te stesso, cominciando a lanciare assurde accuse.
Frenando l’impulso a ribattere con ira e audacia, Rillibee aveva rammentato i consigli di Mainoa e aveva risposto: — Sì, priore.
— Ti restavano soltanto due anni di servizio da compiere — aveva proseguito Jhamlees. Il suo viso sembrava una maschera di sughero e non aveva nulla di rimarchevole, tranne il naso minuscolo, dalle narici sottilissime, che sembrava una scheggia di sughero incollata a un turacciolo e dava l’impressione che il resto dei lineamenti fosse sproporzionato. — Soltanto due anni! Eppure, ti sei lasciato fuorviare dal dubbio. Ebbene, devi sapere subito che qua non permettiamo al dubbio di esistere!
— Sì, priore.
— E ora, vediamo se rammenti il catechismo. Qual è lo scopo dell’umanità?
— Popolare la galassia, secondo il volere di Dio.
— Bene. E qual è il dovere delle donne?
— Procreare, affinché la galassia possa essere popolata.
— Bene! E come si adempirà il popolamento della galassia, voluto da Dio?
— Mediante la resurrezione di tutti coloro che sono vissuti in tutte le epoche, fin dai nostri più antichi progenitori.
— E come saremo guidati alla resurrezione?
— Mediante la resurrezione del Figlio di Dio e di tutti i santi, che di nuovo saranno santi negli ultimi giorni, per guidarci alla perfetta Santità, Unità e Immortalità.
— Mmm. Vedo che conosci abbastanza bene la dottrina. Si può sapere cosa diavolo ti ha preso?
Dimentico dei consigli che aveva ricevuto, Rillibee aveva domandato: — Quando verrà il momento, priore, saranno forse gli elaboratori a farci risorgere?
— Cosa intendi dire, ragazzo?
— Non rimarrà nessuno, perché la peste ci sterminerà tutti. Saranno dunque gli elaboratori ad effettuare la nostra resurrezione?
— La tua impertinenza sarà punita con dieci nerbate! — aveva ribattuto il priore J.hamlees. — E altre dieci ne riceverai per aver dichiarato il falso. Non esiste nessuna peste, frate Lourai!
— Ho visto mia madre morire di peste — aveva insistito Rillibee Chime. — Anche mio padre e mia sorella rimasero contagiati. Forse anch’io lo sono. Ho sentito dire che talvolta i sintomi si manifestano soltanto dopo parecchi anni.
— Fuori! — aveva gridato il priore. — Fuori! Fuori! — E intanto era impallidito spaventosamente, come se non avesse mai incontrato nessuno che avesse conosciuto davvero la peste. O almeno, così aveva pensato frate Lourai nell’andarsene.
Comunque, il ragazzo non era stato ancora convocato per subìre le venti nerbate di punizione. L’unica convocazione che aveva ricevuto era quella di poco prima nel refettorio: l’unica alla quale non intendeva rispondere.
In silenzio, Rillibee continuò a pompare finché tutte le stoviglie furono lavate da parecchi altri monaci. Inevitabilmente, il servizio serale ebbe termine: l’acqua dei lavelli defluì nel canale di scolo che conduceva al pozzo nero, quella dei risciacquatoi finì nel fosso irriguo dei giardini, il vapore profumato di sapone svanì, e i frati aprirono la porta per andarsene in silenzio, incluso il monaco di mezza età che aveva manovrato l’altro braccio della pompa. Dopo un lungo istante silenzioso, Rillibee uscì a sua volta.
Pur sapendo che si trattava di un’assurdità, meditò seriamente di nascondersi nel lavatoio e si chiese dove lo stessero aspettando i misteriosi convocatori: fuori nel cortile, o forse nel corridoio che conduceva al suo dormitorio?
— Muoviti — esortò una voce impaziente. — Facciamola finita.
Senza sprecar fiato a rispondere, e senza tentar di fuggire, giacché sarebbe stato del tutto inutile, Rillibee proseguì con riluttanza, uscì dal cortile attraverso il cancello, entrò in un corridoio, fu afferrato da tre monaci, e fu condotto oltre una porta, per una galleria, fino a una stanza che gli era ignota, illuminata da una lanterna, dove trovò otto monaci che indossavano soltanto camiciola e calzamaglia. Senza dubbio erano gli arrampicatori — a cui aveva accennato Mainoa: i loro visi lustri ardevano di empia gioia.
Spinto verso una panca, Rillibee sedette per nascondere il tremito delle gambe. Non si trattava di paura, bensì di qualcos’altro, che forse alcuni arrampicatori avrebbero compreso. Purtroppo, il ragazzo non ebbe il tempo di spiegare.
Colui che era evidentemente il capo del gruppo si mise le mani sui fianchi, annunciando: — Chiamami Granbravone! — Era magro, con le braccia lunghe e il viso giovanile, nonostante le rughe intorno agli occhi azzurri, che erano così chiari da sembrare quasi bianchi, e sormontati dalle sopracciglia folte, unite sul naso. Con un gesto studiato, si scostò dalla fronte un ciuffo castano. Tutto in lui era affettato: l’atteggiamento, i gesti, il portamento, la voce. Ma cosa si nascondeva dietro le sue pose?
Nell’osservarlo, Rillibee annuì, tanto per fargli capire che aveva sentito. Parlare sarebbe stato perfettamente inutile. Meno si dice, più è facile negare, soleva consigliare, compiaciuto, il maestro degli accoliti alla Santità.
— Quanto a te — riprese Granbravone — ti osserviamo bene da vari giorni, quindi possiamo affermare, senza timore di essere contraddetti, che sei un ranocchio! — E ridacchiò, come se l’insulto avesse un profondo significato.
Di nuovo, Rillibee si limitò ad annuire.
— Devi rispondere, ranocchio — ordinò Granbravone in tono cantilenante, così privo di espressione come quello degli elaboratori della Santità. — Devi dichiarare che sei un ranocchio.
— Sono un ranocchio — lo accontentò Rillibee, impassibile, senza imbarazzo.
— Il senso di tutto questo — continuò Granbravone — è che noi arrampicatori consideriamo le rane le più infime creature che esistano. Per esempio, frate Shoethai è un ranocchio. Vero, ragazzi?
Snelli, coi visi lustri e le braccia scimmiescamente lunghe, gli arrampicatori assomigliavano molto a Granbravone, come se fossero tutti suoi fratelli o suoi cugini. Urlando in coro, manifestarono il loro consenso: le rane di Grass erano indegne persino di disprezzo, e così pure frate Shoethai, un vecchio monaco deforme. Rillibee aveva già avuto occasione di vedere quest’ultimo e sapeva che tutti lo schernivano, ma di nascosto, perché apparteneva al dipartimento della Dottrina Accettabile.
— Naturalmente — proseguì Granbravone — ci rendiamo conto che alcuni, come il vecchio Shoethai, non sono in grado di arrampicare, e perciò sono ineluttabilmente destinati a finire come rane. Tuttavia siamo disposti ad offrirti la possibilità di diventare un arrampicatore, perché siamo convinti che tutti ne abbiano diritto. Non ti sembra giusto?
Rillibee osò rispondere: — Preferisco essere un ranocchio.
Allora gli arrampicatori esplosero in una cacofonia di urla e di ululati.
Granbravone scosse la testa: — Oh, no! Non è affatto possibile che tu lo preferisca, ranocchio. Parli per ignoranza, o magari per stupidità congenita. Le rane vengono appese alle torri per le zampe e poi percosse da tutti. La loro esistenza è pura sofferenza, null’altro che sofferenza: nessuno la sceglierebbe per se stesso. Non credi anche tu che sia molto meglio affrontare la prova? Se semplicemente non sei capace di arrampicarti. Be’, possiamo anche prendere in considerazione di aver pietà di te. Però devi almeno tentare, perché queste sono le regole. — Così dicendo, sorrise con dolcezza, quasi con saggezza, mentre i suoi occhi tradivano crudeltà.
Scrutandolo, Rillibee si sentì serrare lo stomaco in una morsa. Gli occhi di Granbravone gli ricordavano quelli del grande, grosso e cattivo Wurn, che ai tempi della scuola gli aveva sempre chiesto prestiti, sperando che rifiutasse e gli fornisse così un pretesto per picchiarlo. Ma se Wurn era stato soltanto un potenziale assassino, Granbravone molto probabilmente aveva già ucciso varie volte, e sembrava proprio che intendesse uccidere ancora. Forse non desiderava la morte di coloro che perseguitava, ma senza dubbio non se ne rammaricava, purché essa risultasse divertente. Né si poteva escludere che obbedisse a un impulso ben diverso dal desiderio, seppur feroce, di divertirsi.
— Sai, ometto? — continuò il capo degli arrampicatori — non puoi neanche immaginare quanto sia orribile la vita delle rane. Chiedi al vecchio Shoethai, se non credi a noi!
— Avete mai visto qualcuno morire di peste? — domandò Rillibee. Si pentì subito di aver parlato senza riflettere, tuttavia non fu preso sul serio.
— La peste? — rise Granbravone — è inutile che cerchi di distrarci, ranocchio! Noi non ci beviamo le tue fandonie: raccontale a qualcun altro! Adesso è tempo di affrontare la prova.
Il ragazzo si sforzò di restare calmo. Spesso, da bambino, aveva avuto a che fare con bande come quella degli arrampicatori, e suo padre, Joshua, gli aveva spiegato che una banda era come un branco: quando un individuo cominciava a latrare, tutti gli altri lo imitavano. In seguito aveva constatato che anche nella Santità era così: appena lui stesso aveva dato in escandescenze in refettorio, altri venti o trenta accoliti avevano cominciato ad urlare. Dunque sapeva, per esperienza, che chi non voleva aver nulla a che fare con un branco, doveva impedire al capo di abbaiare: — Sei l’unico ad avere un nome? — domandò a Granbravone, per creare una diversione.
Per un poco, l’espediente funzionò: il capo degli arrampicatori presentò Arduovolo, Stringipicco, Mastropalo, Mandiguglia, Corrifune, Pontelungo e Pontecorto. Oltre ad imprimersi nella memoria i loro nomi e i loro volti scarni, Rillibee osservò che molti avevano le braccia lunghe, le mani grandi, e che tutti erano magri e muscolosi: evidentemente la leggerezza era un vantaggio, nell’arrampicare. Con le mani infilate nelle maniche della tonaca, si tastò i muscoli d’acciaio degli avambracci, ripensando a tutti gli anni in cui, ogni giorno, era sceso e risalito per le scale di manutenzione delle torri della Santità. Poi notò che Stringipicco, impassibile, scrutava Granbravone con occhi illeggibili. Giudicò che non fosse un gregario come gli altri, e pensò che con lui fosse possibile discutere, tuttavia non ne ebbe occasione.
— Il tempo passa! — gridò Granbravone. — La luce scema! è ora di arrampicare!
In breve, Rillibee fu circondato dal gruppo sussurrante e spinto in un corridoio, attraverso un magazzino, su per una rampa di scale, per una botola, fin sul tetto della galleria, alla base di una torre, da cui una esile scala a pioli saliva fino al primo terrazzo, dal quale altre scale conducevano ad altri terrazzi, sempre più in alto. Le cime delle torri scomparivano nella nebbia e gli ultimi raggi del sole al tramonto trafiggevano le nubi: era iniziato il lungo crepuscolo di Grass.
Afferrando una spalla di Rillibee con una mano che pareva una tenaglia, Stringipicco sussurrò: — Costui si arrampicherà, vedrai.
— Oh, su questo sono pronto a scommettere, Picco — ringhiò Granbravone.
Poiché aveva affinato l’udito per tanti anni sforzandosi di decifrare il mormorio degli amplificatori della Santità, Rillibee udì lo scambio di bisbigli fra i due arrampicatori.
— Scommetto un turno intero di servizio alle cucine — rispose Stringipicco.
— Andata! — ridacchiò Granbravone. — Sono convinto che il ragazzo precipiterà.
Nell’udire quella risatina malevola, Rillibee rabbrividì fin nelle ossa: Oh, Dio, no, disse il pappagallo nella sua mente. Ed egli sussurrò a se stesso: — Zitto.
— Hai detto qualcosa, ranocchio?
Scuotendo la testa, Rillibee pensò che Granbravone, ben lungi dall’esser tipo da lasciare al caso il risultato della scommessa, avrebbe fatto di tutto, lassù sulla torre, per garantirsi la vittoria. D’altronde, cosa importava? Perché opporsi? Lasciami morire, implorò il pappagallo.
Gli arrampicatori, raccolti tutt’intorno a Rillibee, indicarono simultaneamente, come se fossero una sola persona, la cima della torre, lassù nel cielo, dove indugiavano gli ultimi bagliori del sole: — Salirà? — chiesero, stringendosi sempre più intorno al giovane monaco.
Le regole della prova erano semplici: dopo aver lasciato a Rillibee tre minuti per salire, gli arrampicatori lo avrebbero inseguito. Se fosse riuscito a scendere senza essere catturato, il ragazzo sarebbe diventato un arrampicatore. Altrimenti avrebbe continuato ad essere un ranocchio, ma non sarebbe stato picchiato troppo brutalmente se avesse offerto una caccia divertente agli inseguitori. Se fosse precipitato, forse sarebbe morto, o forse si sarebbe salvato: ciò non si poteva prevedere. Se invece avesse rifiutato di arrampicarsi, sarebbe stato ucciso subito, lì sul tetto: gli avrebbero spalmato il viso di merda e lo avrebbero picchiato allo stomaco fino a fargli rimpiangere di non essere precipitato.
— Se non ti arrampicherai, frate Lourai — aggiunse Granbravone — useremo il tuo corpo per il nostro piacere, prima di ucciderti.
Con larghi sogghigni e sguardi febbrili, gli altri arrampicatori espressero la loro approvazione: — Sali — cominciarono a cantilenare. — Sali, Lourai. Devi superare l’iniziazione. Devi arrampicare!
— Arrampicare! — gridarono in coro altri cinquanta o sessanta Frati Verdi dai nomi strani, che nel frattempo si erano arrampicati sul tetto mediante le funi gettate dai seguaci di Granbravone. — Arrampica, Lourai! Arrampica! — urlarono in tono derisorio, coi visi che bramavano scempio. Come aveva detto frate Mainoa, erano annoiati, e la noia li aveva condotti alla pazzia, e frate Lourai doveva imparare a vivere in armonia con loro.
Incurante delle grida dei monaci, Rillibee fu indotto ad avvicinarsi alla scala dalla consapevolezza che non avrebbe avuto pace finché non avesse agito. Negli ultimi anni aveva meditato molte volte sulla morte, senza trovare alcuna ragione per continuare a vivere dopo che Miriam, Joshua e Songbird erano defunti. Non era terrorizzato dalla morte in sé, bensì dal modo di morire. Non intendeva subire le sofferenze e le umiliazioni che gli sarebbero state inflitte se si fosse consegnato alla banda, lì, in quel momento. Se proprio doveva, voleva morire in pace, e non per mano di un individuo così crudele e spregevole come Granbravone.
La scala non lo spaventava affatto, perché le torri del Monastero erano nulla, rispetto a quelle della Santità. Sapeva di non dover mai guardare in basso e di dover mantenere sempre salda la presa. Dapprima salì lentamente, poi con crescente rapidità, osservando un fenomeno a cui gli arrampicatori non sembravano dare importanza, o di cui non si erano accorti: le cime delle torri erano già perdute fra le nebbie che calavano come veli sul Monastero e avvolgevano i ponti simili a fili di ragnatela.
Con la speranza di potersi nascondere nella bruma, Rillibee salì in fretta sino al primo terrazzo e cominciò a salire per la seconda scala, osservando il più vicino banco di nebbia, che ingoiava i ponti e le scale sovrastanti.
Un ululato si levò dalla folla sottostante, perché — i novizi non dimostravano mai tanta audacia. Benché il tempo stabilito non fosse ancora trascorso, Granbravone cominciò a salire senza attendere oltre, mentre alcuni monaci avevano la temerità di protestare: — Tempo! Tempo! è sleale!
Soffocato dalla collera, Rillibee Chime pensò: Granbravone infrange le sue stesse regole! Che diritto ha di agire così?
Senza badare al coro di disapprovazione, Granbravone continuò a salire, imitato dopo breve esitazione da Arduovolo e Mandiguglia, a loro volta seguiti da Pontelungo, ma non da Stringipicco, il quale rimase in disparte ad urlare: — Non gli hai lasciato il vantaggio che gli spettava, Bravone! Non gli hai lasciato il vantaggio che gli spettava!
Nell’udire le grida di consenso con cui dieci o dodici monaci accolsero tali parole, Rillibee constatò che Stringipicco non mancava di seguaci. Le minacce e le risa di scherno di Granbravone, intese ad innervosirlo e spaventarlo, riuscirono soltanto ad aumentare la sua collera e consentirgli di proseguire con maggior sicurezza e rapidità verso l’alto, spronato inoltre dalla paura e dall’odio.
Quando Rillibee giunse a soli tre piani dalla nebbia, il tempo scadde e gli arrampicatori iniziarono l’inseguimento, ululando. Esultante, Granbravone gridò: — Veniamo a prenderti, ranocchio! Veniamo a prenderti!
Quantunque si trovasse a notevole altezza, Rillibee osò gettare un’occhiata in basso: numerosi inseguitori stavano salendo da varie scale. Ormai non gli restavano che due terrazzi, l’uno più stretto dell’altro, per giungere alla scala che spariva nella nebbia.
Esasperato dalla collera, Rillibee sentì i muscoli delle braccia dolere e il respiro divenire affannoso, anche se non tanto da provocare una caduta, almeno per il momento. Sapeva che prima o poi le forze e il fiato lo avrebbero abbandonato, ma quanto tempo gli restava?
Continuò a salire, col viso sfiorato dalla fredda nebbia umida, e d’un tratto si trovò isolato e invisibile in una grigia coltre impenetrabile che attutiva i suoni, senza più scorgere gli inseguitori. Poiché il tremito della torre tradiva la sua presenza, rallentò per attenuarlo. Poi cercò nell’oscurità che si addensava, finché vide sporgere nel vuoto a breve distanza, come un’ombra ormai persa nella bruma, l’oggetto che aveva notato poco prima dal basso: un solido braccio ligneo da cui pendeva un paranco, evidentemente rimasto dall’epoca della costruzione della torre.
In breve, Rillibee si spogliò e si appese sul petto la tonaca arrotolata, legata col cordiglio. In mutande e camiciola senza maniche, strisciò fino all’estremità dell’antenna, dove rimase in attesa. Poco prima, guardando dal basso, aveva memorizzato la posizione di un ponte sospeso che conduceva alla torre più vicina: una semplice fune unita ai cavi portanti da due serie di tiranti sottili.
Augurandosi che la distanza non fosse troppa, Rillibee lasciò pendere il fagotto da una estremità del cordiglio, poi lo fece oscillare ripetutamente e lo lanciò verso l’alto, oltre il ponte. Con sua delusione, esso non ricadde, ma rimase agganciato, resistendo a una serie di strattoni, e impedendogli di legare insieme le estremità del cordiglio per restare appeso al ponte, come su un dondolo perduto nella nebbia, nel vuoto, dove nessuno avrebbe pensato a cercarlo. Tuttavia si rese conto che tale piano non avrebbe funzionato comunque, perché il ponte si sarebbe flesso e gli inseguitori non avrebbero mancato di accorgersene. Dunque sospirò profondamente e rimase dove si trovava, senza lasciare il cordiglio.
D’un tratto, udì ansimare e brontolare a breve distanza: — Quassù! — gridò Granbravone subito dopo, con isterica delizia. — È quassù! — E le voci degli altri inseguitori risposero da poco più in basso.
In attesa, Rillibee decise che se qualche arrampicatore fosse avanzato lungo il braccio, si sarebbe gettato nel vuoto, con la certezza quasi assoluta di morire, sperando che un tetto non gli attutisse l’impatto; e su questo si concentrò, immobile come un sasso, respirando a malapena.
Mentre alcuni arrampicatori salivano la scala in rapida successione, superando il braccio, Rillibee ebbe un’idea: tirò il cordiglio, scuotendo il ponte sovrastante.
— È sul ponte! — strillò Granbravone. — Lo sento! è sul ponte!
Un grido di risposta provenne dalla torre all’altra estremità del ponte.
Mentre gli arrampicatori vi si avventuravano, Rillibee continuò a scuotere il ponte, poi lasciò penzolare il cordiglio, ritornò alla torre strisciando lentamente sul braccio, ascoltando i rumori prodotti dagli arrampicatori che si allontanavano in alto, e scese, invisibile nella nebbia, lungo la via per la quale era salito, immobilizzandosi di quando in quando per lasciar passare qualche ombra urlante. Dal ponte, intanto, provenivano urla: — È qua! — E domande: — Dov’è? — E le più varie indicazioni, tutte ugualmente sbagliate.
La base della torre non era sorvegliata, la nebbia gravava sul tetto deserto, la botola era spalancata a mostrare la rampa di scale, le grida continuavano a giungere dall’alto: — Di qua! Di qua! — e la scala a pioli continuava a tremare, scossa dall’andirivieni degli arrampicatori.
In silenzio, Rillibee si recò alla propria cella, situata nel nuovo dormitorio parzialmente occupato, la cui costruzione non era ancora ultimata. Proprio nel varcare la soglia, udì un grido, lontano e sempre più fioco, come di una persona che precipitasse da una grande altezza. Quasi senza fiato, strisciò sotto la propria branda, si accostò alla parete, e rimase nascosto.
Due volte, quella notte, la porta fu spalancata e la cella fu illuminata da una lanterna.
Prima dell’alba, nella grigia oscurità, Rillibee risalì sulla torre e andò a recuperare il cordiglio e la tonaca: una manica si era sciolta dal fagotto, arrotolandosi intorno alla fune del ponte, e nel buio nessun arrampicatore l’aveva notata. Dopo essersi rivestito, andò a sedere sopra un alto terrazzo, dove rimase lungamente ad osservare il Monastero e la prateria circostante.
Il pappagallo disse nella sua mente: Lasciami morire. Ed egli rispose: — Pensavo di farlo stamane.
Era vero: aveva progettato di morire quella stessa mattina. Tuttavia procrastinò, perché quello che vedeva dall’alto lo interessava. La prateria ondeggiava come un mare infinito, stendendosi in ogni direzione sino all’orizzonte sconfinato. Lungo un crinale sfilavano grandi animali dai colli cornuti: gli Hippae. Creature bianche grandi come busti strisciavano fra l’erba: le rane. Lontano, a meridione, un branco di erbivori avanzava lentamente verso oriente. Stormi d’uccelli volavano sulle erbe, che qua e là s’increspavano a tradire i movimenti misteriosi di creature invisibili.
Nell’osservare ogni cosa, Rillibee sentì la mancanza degli alberi. Se soltanto vi fosse stato qualche bosco. Eppure, la luce calda pareva una benedizione, una promessa di fausti eventi futuri.
Al sorgere del sole, la fame lo indusse a scendere dalla torre per recarsi a colazione. In seguito, durante il pasto, fu interrotto due volte.
Passando, Granbravone gli sussurrò: — Nessuno si prende gioco di me e riesce a farla franca, Lourai. Guardati le spalle, perché mi vendicherò.
Poi un certo Nodosafune dall’espressione irata e frustrata si avvicinò, accompagnato da due monaci che sembravano sorvegliare più lui che Rillibee: — Stanotte Stringipicco è morto, ranocchio. Noi, i suoi amici, siamo convinti che tu lo abbia fatto precipitare per poter scendere dalla torre.
Ignorando Nodosafune, il quale era chiaramente troppo alterato per poter accettare qualsiasi spiegazione, Rillibee disse agli altri due: — Sono salito e mi sono nascosto nella nebbia. Ho lasciato passare tutti, poi sono sceso per la medesima scala, senza far precipitare proprio nessuno. Secondo le vostre stesse regole, dunque, non sono più una rana.
Gli altri due amici di Stringipicco si scambiarono un’occhiata, mentre Nodosafune brontolava: — Io sorvegliavo la botola e non ti ho visto. Quindi hai ucciso Stringipicco e sei sceso da un’altra parte.
— Niente affatto — ribatté Rillibee, stanco dell’intera faccenda. — Sono sceso per la stessa scala e rientrato per la medesima botola, che non era affatto sorvegliata. Sia il tetto che la galleria erano deserti.
— Io ero di guardia — insistette Nodosafune, arrossendo, con una rabbiosa occhiata di sbieco ai compagni. — Granbravone mi aveva ordinato di vigilare, e così ho fatto. — Ciò detto, se ne andò, seguito dallo sguardo di Rillibee.
Dopo un momento, gli altri due lo seguirono.
La verità era evidente, ma Rillibee si chiese se i due silenziosi amici di Stringipicco l’avessero intesa: Nodosafune non era affatto rimasto di guardia come gli era stato ordinato, bensì aveva lasciato il proprio posto, anche se in seguito lo aveva negato, e così aveva contribuito a gettare su Rillibee i sospetti per l’omicidio di Stringipicco. Questa dichiarazione conveniva perfettamente anche a Granbravone, che senza dubbio era l’assassino di Stringipicco, ammesso che questi non fosse caduto per cause accidentali.
Era proprio un bell’affare aver come nemici una sentinella infida e un capobanda traditore. Con un sospiro, Rillibee si rammaricò di non avere approfittato, la notte precedente, dell’occasione di gettarsi dal braccio, o di non essere saltato nel vuoto all’alba, come aveva progettato.
Stava meditando la possibilità di riarrampicarsi sulla torre per suicidarsi, quando fu di nuovo interrotto da cinque o sei giovani frati, che gli appiopparono cordiali pacche sulle spalle, ridendo, e si complimentarono con lui per l’abilità con cui era riuscito a sfuggir loro. Poiché si era dimostrato migliore ad arrampicare di tutti gli altri ranocchi della loro generazione, gli attribuirono seduta stante il nome di Willy Climb, che si poteva tradurre come «Guglielmino Ascensione». Lo trovavano simpatico sia perché si era beffato dell’odioso Granbravone, sia perché li aveva divertiti. Così, Rillibee divenne subito capo del gruppo: i suoi nuovi seguaci promisero che gli avrebbero guardato le spalle per proteggerlo sia da Nodosafune che da Granbravone, perché l’uno era universalmente considerato uno stronzo, e l’altro violava le regole in ogni occasione, pur essendo sempre pronto a redarguire coloro che non le rispettavano.
Almeno per il momento, Rillibee fu indotto dalle nuove amicizie ad accantonare ogni proposito di suicidio. Da allora in poi, cessò ad ogni tramonto di essere frate Lourai per ridiventare Rillibee Chime, e prese l’abitudine di arrampicarsi coi compagni sulle torri ogni sera, nelle ore del crepuscolo. Mentre gli altri giocavano a rincorrersi sui ponti, egli restava seduto su un terrazzo a salmodiare il proprio nome, consapevole soltanto delle falene grandi e morbide che lo urtavano di quando in quando, e del gracidare delle rane che saliva dalla prateria sottostante. Mentre le tenebre notturne si addensavano, restava per un poco in triste silenzio a rammentare la famiglia e la casa perdute; poi riprendeva a mormorare all’infinito: — Rillibee Chime. Songbird Chime. Joshua Chime. Miriam Chime.
Per gli amici della banda era sempre Willy Climb, quindi aveva l’impressione di avere varie identità: Rillibee, Lourai, Willy. E queste identità, come una fila di bamboline ritagliate nella carta, collegavano il suo pianeta natale a quelle guglie perdute fra le nubi, dove presto, quando la noia e la depressione lo avessero pervaso ancora una volta, sarebbe morto.
Nel proprio ufficio, Jhamlees Zoe, direttore del dipartimento della Sicurezza e della Dottrina Accettabile al Monastero dei Frati Verdi, aprì per la terza o quarta volta un plico, recapitatogli da parecchio tempo, in cui era contenuta una lettera che, come tutte le missive inviate dal Prelato, o per conto del Prelato, era preceduta da pagine e pagine di convenevoli monotoni e insignificanti che, sputate da un corredo clericale, cominciavano sempre con «Caro Fratello della Santità.»
La vera lettera era costituita semplicemente da due pagine scritte in una calligrafia ben nota a Jhamlees:
Mio caro vecchio amico Nods, quando leggerai la presente, io sarò il nuovo Prelato della Santità.
Interessante, pensò Jhamlees. Cory ha sempre detto che un giorno sarebbe diventato Prelato. Lo diceva persino quando eravamo ancora ragazzi e ci trovavamo in seminario assieme. Poi annuì: Ebbene, questo dimostra quanto sia spietato Cory in realtà. E continuò nella lettura della lettera:
Il mio predecessore, Carlos Yrarier, ha scelto per qualche misteriosa ragione di inviare suo nipote Roderigo su Grass, con l’incarico di scoprire se nel tuo mondo esiste la peste, o una cura per la peste. Ebbene, ti esorto a fare attenzione, amico mio. Benché la Santità continui a negarlo, la peste esiste sulla Terra, come pure su qualunque altro mondo. Se Yrarier non troverà aiuto su Grass, forse dovremo affidarci agli elaboratori per poter risorgere quando il pericolo sarà passato. Alcuni di noi, almeno, risorgeranno: tu ed io, senza dubbio. Come ben sai, la Santità non ha mai avuto intenzione di riportare in vita troppa gente! A che scopo far risorgere tante persone inutili?
Di nuovo, Jhamlees annuì: la dottrina di Cory era molto saggia, anche se non avrebbe mai potuto essere rivelata alle masse. Se mai gli elaboratori avessero attuato la resurrezione, ben pochi ne avrebbero beneficiato: il campione cellulare di Jhamlees, assieme a quelli di poche centinaia di migliaia di persone, era inserito nell’elaboratore «A». Naturalmente, sarebbe stato possibile far risorgere altri miliardi di individui, all’occorrenza; ma non era affatto certo che tale necessità si presentasse.
La lettera continuava così:
Tuttavia, dato che vi è la possibilità che la peste su Grass non esista, intendo recarmi sul tuo mondo con tutto quel che occorre per trovare una cura nel più breve tempo possibile. In ogni modo, bisogna assolutamente mantenere il segreto, perché non desideriamo che si diffondano informazioni sulla peste, né sulla cura, ammesso che sia possibile trovarne una. Alcuni Anziani sono convinti che la peste sia la Mano di Dio Onnipotente che ripulisce i mondi dai miscredenti, affinché possano essere ripopolati esclusivamente dalla Santità, perciò vogliono affrettare il giorno del compimento dell’opera. E io, pur essendo poco incline a scorgere negli avvenimenti la Mano di Dio, sono disposto a sfruttare al massimo l’occasione.
All’inizio, la Santità ha saputo che una persona, o alcune persone, giunsero su Grass ammalate di peste, e ne ripartirono guarite. Nella serena speranza che ciò sia vero, intendo recarmi sul tuo pianeta. Una mossa precipitosa rischierebbe di tradire il nostro scopo, dunque debbo procrastinare la partenza più di quanto desideri. Comunque fingerò di compiere un viaggio pastorale, e se tutto andrà bene, arriverò poco dopo Yrarier. Se necessario, eliminerò alcune tappe dal viaggio. Appena Yrarier scoprirà qualcosa, anche un minimo indizio, mi avvertirai. Consultando l’itinerario accluso, saprai dove trovarmi.
Spiegato l’itinerario, Jhamlees terminò di leggere la lettera:
È inutile dire che bisogna evitare qualsiasi allarme prematuro, giacché ci troviamo in una situazione estremamente precaria. Mentre scrivo queste righe, il vecchio Prelato sta morendo di peste. Il tuo vecchio amico e cugino, che non è stato ancora contagiato, è deciso a trasferirsi su Grass per restare sano, e confida nella tua amicizia. Tienimi informato!
La firma era quella di Cory Strange, il più vecchio amico di Nods Noddingale: la loro amicizia risaliva alla fanciullezza, molti e molti decenni prima che Nods assumesse il nuovo nome di Jhamlees Zoe.
Be’, pensò Jhamlees, l’ambasciatore Yrarier si trova su Grass da poco tempo, e io non ho ancora saputo nulla sulla peste. Molto probabilmente non avrebbe mai ricevuto notizie in proposito, tuttavia avrebbe avvertito il suo assistente, Noazee Fuasoi, di riferirgli qualunque notizia insolita. Dovrebbe essere un ordine sufficientemente vago, pensò.
Così riflettendo, Jhamlees rimise la lettera e l’itinerario nell’involucro, quindi nascose il plico nel proprio archivio.
Per qualche tempo, Rillibee trascorse i suoi giorni in preghiera, dedicandosi ai canti mattutini e serali, espletando servizi speciali di quando in quando, e per il resto svolgendo le consuete mansioni. Il giardinaggio si praticava sia in primavera, col sole; sia in estate, durante la quale il caldo, all’estremo settentrione in cui era situato il Monastero, non era mai del tutto intollerabile; sia in autunno, quando le falciature si susseguivano all’infinito, sotto la lieve benedizione della pioggia. Fra le altre cose, occorreva allevare e macellare galline e maiali, nonché immagazzinare provviste per l’inverno. Insomma, il lavoro non mancava, perciò i superiori garantirono a frate Lourai che non si sarebbe annoiato e che presto avrebbe ricevuto il suo incarico permanente.
Quando arrivò quel giorno, Rillibee si allontanò nella prateria con frate Mainoa per discutere del proprio futuro. Proprio quel mattino aveva deciso di rinviare ancora per un poco il suicidio, ma ciò non era sufficiente per il Monastero: — Vogliono sapere cosa desidero fare — spiegò, in tono afflitto. — Devo rispondere questo stesso pomeriggio.
— Esatto — convenne frate Mainoa, placido. — Adesso che ti sei ambientato, adesso che si sa per certo che le scimmie arrampicatrici non ti ammazzeranno, e che frate Flumzee, il quale ama farsi chiamare Granbravone, ha ucciso varie persone, benché abbia sempre sostenuto, con l’appoggio dei suoi amici, che si è trattato di incidenti, i nostri superiori devono decidere come impiegarti.
— Non so proprio cosa ti faccia credere che gli arrampicatori abbiano rinunciato ad ammazzarmi — obiettò Rillibee. — A parte il fatto che vuole vendicarsi di me per la figuraccia che gli ho fatto fare, Granbravone aveva scommesso con Stringipicco che sarei precipitato dalla torre. Benché lui sostenga che la morte di Stringipicco ha annullato la scommessa, gli amici del defunto non gli danno tregua: vogliono che paghi, visto che ha perso. E proprio per questo lui mi odia sempre più. Come se non bastasse, Nodosafune vuole eliminarmi perché ho smascherato la sua menzogna. E più io li evito, più loro bramano la mia scomparsa.
— Ebbene, dovresti accontentarli, fratello. Io cerco sempre di accontentare il prossimo. Se quei due vogliono che tu scompaia, vattene. La soluzione migliore, credo, sarebbe che tu venissi con me alle rovine arbai, magari prima che il priore Jhamlees rammenti quello che ti ha promesso: stando alle voci che ho sentito, si tratta di venti nerbate. D’altronde, se tu dicessi che vuoi andare alle rovine arbai, il priore ti manderebbe da qualsiasi altra parte, tranne che là. — Masticando uno stelo d’erba, frate Mainoa meditò per un poco sul problema, prima di concludere: — Secondo me, Lourai, dovresti fingerti depresso e chiedere consiglio. Così ti saranno elencate varie attività, come il giardinaggio, l’allevamento, la falegnameria, e così via, inclusi gli scavi archeologici. Se gli scavi non saranno menzionati, parlane tu. Potresti dire ad esempio: «Quando frate Mainoa mi ha portato al Monastero, ho visto anche le rovine arbai.» E così ne discuterete per un po’. Infine, quando ti sarà ordinato di dedicarti agli scavi, tu dovrai obiettare: «Scavare, priore? Ho visto la città degli Arbai, e non credo che mi piacerebbe molto».
— Perché dovrei comportarmi così col priore? Non avevi detto che Laeroa è una brava persona?
— Oh, certo: il priore Laeroa è un tipo in gamba. S’interessa di archeologia, di giardinaggio, e anche di botanica. Ma non sarà lui a decidere il tuo incarico, bensì il vicedirettore del dipartimento della Scocciatura e della Dottrina Ignobile, il Vecchio Bucodiculo Noazee Fuasoi. Siccome odia la gente e ricava la massima gioia dall’obbligare gli altri a fare quello che non vogliono, Bucodiculo Fuasoi si occupa di assegnare gli incarichi, assieme al suo assistente, Shoethai, il quale però è così inconcludente, che è facile dimenticarsi di lui.
— Com’è possibile dimenticare un individuo così orrendo?
— Ha soltanto la faccia un po’ deforme.
— La sua faccia è un autentico incubo! E così pure il resto della sua persona. La prima volta che l’ho visto non sapevo decidere se vomitare o ammazzarlo. Sembra un mostro salvatosi a malapena da qualcuno che cercava di ridurlo in poltiglia!
— Credo proprio che qualcuno ci abbia provato. Anzi, fu suo padre, se quel che si racconta è vero. Quando lo vide così mostruoso, cercò di ucciderlo, ma fallì, e per punizione fu condannato alla morte eterna: il suo campione cellulare fu distrutto. In seguito, Shoethai fu adottato e allevato dalla Santità, e Fuasoi, suppongo, si abituò al suo aspetto, o almeno, ci si abituò abbastanza da condurlo qui. Quanto agli altri due assistenti del vice-direttore della Dottrina Accettabile, ossia Yavi e Fumo, mi sono sempre sembrati somiglianti alle rane: informi, flaccidi, e quasi privi di quella che si può definire una faccia. — In tono di cantilena, Mainoa elencò: — Jhamlees Zoe e Noazee Fuasoi, Yavi e Fumo e Shoethai — strascicando l’ultimo nome. Quindi concluse: — Fuasoi e Shoethai hanno qualcosa di strano, anzi, qualcosa di sovrannaturale, di fatale!
— E tu vorresti che io dicessi loro…
Frate Mainoa mormorò: — Bada bene a quello che ti consiglio. Devi semplicemente sembrare depresso e dire che non ti piacerebbe molto scavare alla città degli Arbai.
— E mi piacerebbe?
— Che cosa?
— Scavare!
— Ti piacerebbe senz’altro di più che star qua al Monastero per i prossimi quattro o cinque anni terrestri, anche se nelle ultime due settimane sei diventato un autentico arrampicatore. Forse adesso ti sembra eccitante, ma finirai coll’annoiarti, se vivrai abbastanza a lungo. Una volta che l’hai visto, il cielo è sempre cielo, e la nebbia è nebbia, e le falene sono sempre uguali. Col tempo, i tuoi amici diventeranno sempre meno efficienti nel proteggerti, e allora Granbravone, o uno dei suoi scagnozzi, ti butterà giù da una torre. Alle rovine, invece, nessuno cercherà di ucciderti, e faremo sempre nuove scoperte: è un’attività interessante. Qui non puoi fare altro che pregare cinque volte al giorno e far passeggiate di penitenza fra una preghiera e l’altra. Inoltre devi tener la bocca chiusa e guardarti dalla Dottrina Accettabile, perché se non ti spia Fuasoi in persona, ti spia senz’altro uno dei suoi amichetti: Yavi, Fumo, o Shoethai, a tua scelta.
Con un brontolio di assenso, frate Lourai si alzò, riluttante, e s’incamminò per tornare al Monastero. Sembrava molto depresso, e senza nessun bisogno di recitare. Cominciava a rendersi conto che, se anche aveva ritrovato se stesso, era destinato a trascorrere il resto della vita su un pianeta alieno. Da quando, all’età di dodici anni, era stato portato via da Red Canyon, sperava di poter tornare a casa, un giorno, a rivedere gli alberi, e talvolta sognava il bosco; ma ormai la sua speranza di poter vedere nuovamente un albero stava svanendo.
Seguendo con lo sguardo il giovane che si allontanava, frate Mainoa sospirò: — Ha nostalgia di casa, proprio come me alla sua età.
Dal folto delle erbe giunse un tenue brontolamento interrogativo: — Purr.
Ormai abituato a queste improvvise manifestazioni, frate Mainoa non trasalì neppure. Ad occhi chiusi, meditò su come spiegare la nostalgia: Desiderio di un luogo che si conosce benissimo, e di cui si ha bisogno per essere felici? pensò. Poi immaginò di tornare a casa, una sera, nella luce delle lampade, e la porta che si apriva, e il calore di un abbraccio. Quasi rabbiosamente si terse le lacrime che gli scorrevano sulle guance. Come accadeva spesso, i sentimenti che aveva cercato di trasmettere erano stati captati e gli erano stati ritrasmessi, amplificati: — Dannate creature!
Il brontolio parve esprimere dolore.
— L’ultima volta che ci siamo visti eri giù, vicino alle rovine. Che ci fai adesso da queste parti?
Allora, nella mente di Mainoa, si formò un’immagine: un boschetto nei pressi degli scavi, con un vuoto al centro. Nell’ombra ametista e rosa, chiazze informi giravano intorno al vuoto, ululando.
— Hai sentito la mia mancanza?
— Purr.
— Tornerò fra un paio di giorni. Sto cercando di portare con me frate Lourai, se glielo permetteranno. Preferisco un solo giovane ancora dotato di buon senso a tutti quei vecchi smidollati che concordano con ogni cosa io dica: «Sì, fratello. No, fratello.» Poi, appena possono, vanno a riferire tutto alla Dottrina Accettabile! Ah, mi raccomando: non manifestarti a frate Lourai se prima non te lo dico io, perché lo spaventeresti a morte. Non è ancora del tutto cresciuto, povero ragazzo. È ancora disorientato. Avrebbe potuto tornare a casa quest’anno, ma purtroppo non ha resistito.
La porta che si apriva. Il calore di un abbraccio.
Frate Mainoa annuì, caricando la pipa con un dito calloso: — Esatto. — E scrollò il sacchetto in cui teneva l’erba essiccata che ancora chiamava «tabacco», dopo tanti anni. Sospirò: — Ho quasi finito l’erba scarlatta, che è così buona da fumare. Però ce n’è un’altra, di cui mi hanno parlato.
Seguì un lungo silenzio, in cui si udiva soltanto un respiro tranquillo. Poi, poco a poco, nella mente di frate Mainoa si formò l’immagine di una estancia che il vecchio monaco conosceva bene perché aveva contribuito a crearne i giardini.
— Collina d’Opale — disse Mainoa, per confermare di aver capito. L’immagine si ampliò e divenne più precisa: una donna, un uomo, due ragazzi, i quali, a giudicare dal loro modo di vestire, non erano grassiani, e alcuni animali.
Cavalli! pensò frate Mainoa. Dio del Cielo! Cosa se ne fa, quella gente, dei cavalli? E disse, quasi ansimando: — Quelli sono cavalli. Vengono dalla terra. Oh, Signore! Non vedo un cavallo da quando avevo cinque o sei anni. — Quindi tacque, percependo l’urgenza della domanda telepatica.
Le immagini nella mente del vecchio monaco sembravano chiedere: Spiegami. Parlami della gente di Collina d’Opale.
Frate Mainoa scosse la testa: — Non posso. Non so nulla di loro. Non ne ho neanche sentito parlare.
Un cavallo stranamente sproporzionato al cavaliere. Una sensazione interrogativa.
— I cavalli sono animali terrestri. Gli uomini li cavalcano. Appartengono a una delle poche specie di animali veramente addomesticati: vivono così contenti assieme all’uomo, come sarebbero nella natura selvaggia.
Dubbio.
— No, davvero — aggiunse subito Mainoa, chiedendosi se fosse poi proprio vero. E subito captò una vigorosa insoddisfazione, un risoluto desiderio di maggiori informazioni. — Cercherò di scoprire tutto il possibile — promise. — Ci sarà qualcuno a cui posso chiedere.
D’improvviso, la presenza dileguò.
Molte volte frate Mainoa aveva cercato fra le erbe, senza trovare nulla, perciò sapeva che anche in quel momento, se avesse cercato, il risultato sarebbe stato il medesimo. Evidentemente la creatura, sulla cui identità il vecchio monaco aveva precisi sospetti, non desiderava essere vista.
Proprio in quell’istante, frate Lourai chiamò dal sentiero.
Alzatosi, frate Mainoa gli andò incontro, senza fretta né interesse.
Invece, frate Lourai era trafelato: — Il priore Laeroa vuole vederti!
— Be’, si può sapere cos’ho fatto?
— Nulla. O meglio, niente di diverso dal solito. Il priore Laeroa mi ha incontrato proprio mentre entravo nell’ufficio del priore Fuasoi. Coloro che abitano a Collina d’Opale vogliono compiere una visita guidata alle rovine arbai. Il priore Laeroa ha detto che, siccome devi tornare per far da guida a quella gente, tanto vale che io ti accompagni e rimanga là con te.
Il vecchio monaco giudicò che la faccenda fosse molto interessante, soprattutto perché il suo misterioso interlocutore lo aveva appena interrogato a proposito di Collina d’Opale: — Hum. Hai detto a Vecchio Bucodiculo che non ti piacerebbe scavare?
Celando un sorriso, frate Lourai annuì: — Ho pensato che mi convenisse, dato che mi trovavo nel suo ufficio. Be’, lui ha scoccato un’occhiataccia a Laeroa, poi mi ha detto che devo andare proprio alle rovine arbai e diventare tuo assistente. Ha spiegato che così imparerò l’umiltà.
— Be’ — sospirò frate Mainoa — imparerai senz’altro qualcosa, e certamente anch’io. Ma dubito che sarà l’umiltà.